Il 2 Novembre del 1975 venne ritrovato il corpo martoriato di Pier Paolo Pasolini, nella periferia della periferia di Roma, tra la sabbia sporca e le sterpaglie rade dell’idroscalo di Ostia.

In quella spiaggia desolata, insieme all’uomo, con le sue debolezze e il suo amore, vennero ammazzati brutalmente anche un grande pezzo di arte e pensiero italiani, di poesia, di letteratura, di giornalismo, di filosofia, di cinema.

Pasolini era controverso come ogni genio: colui che anticipa e inaugura una nuova cultura, una nuova società. È colui che sacrifica la propria credibilità di fronte a un mondo che lo giudicherà “anormale”. E, spesso, è anche colui che sacrifica la propria vita per farlo.

Perché Pasolini è difficile da capire se ci si rifiuta di capirlo. Troppo spesso ci si è rifiutati e si continua a farlo, come si rifiuta il diverso da sé, elevando una barriera mentale che ne ostruisce qualsiasi comprensione. Perché è sempre stato facile, e sempre lo sarà, giudicare la sua arte moralmente e, da lì, forzarla all’identificazione con la sua vita privata, condannando entrambe come mostruosità perverse.

Una sola, cieca condanna per lui che aveva scelto di unire etica ed estetica in un contesto storico e sociale ancora moralmente cattolico e arretrato. Anche se, come ogni genio, sentiva che prima o poi avrebbe avuto ragione, che quella società si sarebbe evoluta nella cultura che lui stesso aveva anticipato.

Eppure, forse, ancora oggi, questa società non ha raggiunto una simile evoluzione. Non soltanto perché la sua morte continua a non avere giustizia, ma perché ogni volta che si parla di lui, se ne parla come se ne parlava nel momento della sua morte: passivo dispiacere per una morte che non è un assassinio intenzionale, ma un omicidio involontario compiuto da una società che con un sospiro afferma cinica:

È una storia da dimenticare

È una storia da non raccontare

È una storia un po’ complicata

È una storia sbagliata

La copertina del 45 giri “Una storia sbagliata” del 1980 – Credits: web

Le parole di De André

Sono queste le parole con cui uno dei più grandi intellettuali italiani, Fabrizio De André, sceglie di iniziare il proprio omaggio a quello che, forse, è stato il più grande di tutti. Sono queste le parole del suo brano dal titolo “Una storia sbagliata”.

Un privilegio raro poter ascoltare il grido di dolore di un poeta per la morte di un altro. Perché in esso si coglie qualcosa di speciale, un tono intimo, come una scrittura privata. Qualcosa di ancor più profondo di un elogio amaro e dolce per un amico o per un maestro: un epitaffio scritto a sé stesso.

Parole che non vogliono aprirsi a tutti, ma solo a coloro che si sforzano di capire. Come un linguaggio in codice che si nega alla mente piccola di coloro che restano ancora immobili nell’illusoria certezza della propria normalità, dove tutto ha un senso immediato e ciò che non l’ha dev’essere rifiutato.

Ma non si tratta di parole auliche o inaccessibili. Le parole di De André sono semplici prodotti destinati al cuore, che le ascolta per primo, come un’intuizione, e le guida alla ragione, dandole il loro senso di rabbia, dolore, ingiustizia e ironia.

Pier Paolo Pasolini - Credits: web
Pier Paolo Pasolini – Credits: web

Un ritornello per non dimenticare

Storia diversa per gente normale

Storia comune per gente speciale

Cos’altro vi serve da queste vite?

Ora che il cielo al centro le ha colpite

Ora che il cielo ai bordi le ha scolpite

È difficile da raccontare, non solo perché non è ben chiaro il tragico finale, ma perche è difficile spiegare questa storia alla gente comune, a quegli individui dalla mente ristretta, legati alla morale rigide del bene e del male. Per loro una persona è soltanto ciò che fa, perchè è troppo grande lo sforzo d’immedesimazione, di comprensione, di intuizione della profondità dell’animo umano. Le pulsioni vanno condannate e represse, ignorate al meglio: e se ciò non avviene, il risultato è l’anormalità, la malattia. Una storia diversa per gente normale.

Ma anche una storia comune per quella gente che crede di essere speciale, che si crede diversa perché ha sollevato per un attimo la testa al di sopra del gregge. Una storia comune per gente speciale.

Da entrambe le prospettive, un finale scontato. Per i normali il cui Dio, dal centro del cielo, ha punito una vita diversa, e per gli speciali il cui Destino ha levigato la forma di una vita dalla conclusione inesorabile.

Fabrizio De André e Pier Paolo Pasolini - Credits: web
Fabrizio De André e Pier Paolo Pasolini – Credits: web

Una storia da una botta e via

È una storia di periferia

È una storia da una botta e via

È una storia sconclusionata

Una storia sbagliata

Una spiaggia ai piedi del letto

Stazione Termini ai piedi del cuore

Una notte un po’ concitata

Una notte sbagliata

È una storia vestita di nero

È una storia da basso impero

È una storia mica male insabbiata

È una storia sbagliata

È una storia da carabinieri

È una storia per parrucchieri

È una storia un po’ sputtanata

O è una storia sbagliata.

Una storia di periferia, di quelle borgate che lui amava con un amore primitivo, puro, passionale, fino al punto da apparire bestiale agli occhi dei normali e degli speciali. Occhi che non riconoscono la loro idea di amore e la vedono piuttosto consumarsi come una scopata senza coinvolgimento. Esattamente quel che la loro mentalità borghese definisce una storia da una botta e via.

Una di quelle storie che appartengono ai meandri insondabili del potere e dell’ambito intellettuale, quello spazio del basso impero dove il vizio si libera nella sua forma più truce e, a volte, trova la conseguenza che si merita.

Una storia che, in questo modo, si fa l’argomento equivoco che condisce conversazioni frivole e populiste, quelle che (allora) si consumavano dentro i saloni dei parrucchieri: quelle che oggi riempiono con la loro nullità il vuoto pomeridiano della televisione generalista.

De André in concerto - Credits: web
De André in concerto – Credits: web

E, infine, lo sfogo

Per il segno che ci è rimasto

Non ripeterci quanto ti spiace

Non ci chiedere più com’è andata

Tanto lo sai che è una storia sbagliata

Tanto lo sai che è una storia sbagliata

Ed è qui, nel finale, che De André delinea distintamente i soggetti e le loro responsabilità, dando del “tu” a quella gente normale e speciale, la cui prospettiva ha finora giustificato, in un gioco ironico e spietato, al tempo stesso.

De André grida, stanco di continuare il suo scherzo: a noi è rimasto un vuoto, un solco reale sul corpo, quindi tu smettila di continuare ad esprimere il tuo falso dispiacere e di cercare di saziare la tua sadica curiosità, perché la tua cecità ti impedirà sempre di uscire dalla prospettiva morale che questo era l’unico finale possibile.

Le sue parole gridano sferzando l’ascoltatore, quasi costringendolo a capire, grazie alla musica che le accompagna: una semplice, diretta, immediata struttura pop, con un ritornello che entra nella testa per non uscirne più.

La Pietà secondo Pasolini, uno splendido graffito apparso sui muri di Roma - Credits: web
La Pietà secondo Pasolini, uno splendido graffito apparso sui muri di Roma – Credits: web

45 anni e niente sembra cambiato

Da quel 2 Novembre del 1975 sono trascorsi ormai 45 anni. Anni di silenzi e smentite, di condanne e scarcerazioni, di nuove accuse e nuovi insabbiamenti. Ma anche anni di rivalutazioni, consacrazioni e nuove condanne morali. Anni in cui è cambiato poco o nulla, in cui quella società che il genio di Pasolini aveva preparato è ancora lontana da venire. Forse oggi più che mai.

E basta leggere le parole stesse usate da De André per spiegare questo suo omaggio musicale per intuire quanto lo sia:

Una storia sbagliata, vale a dire una storia che non sarebbe dovuta accadere. Nel senso che in un clima di normale civiltà una storia del genere non dovrebbe succedere. In una società matura e civile direi che è assolutamente normale che un omosessuale faccia la corte ad un suo simile dello stesso sesso. E assolutamente normale anche che se ne innamori. Dovrebbe esserlo anche per il corteggiato eterosessuale che mille modi di difendersi senza ricorrere alla violenza. Purtroppo la cultura maschilista e intollerante di un passato ancora troppo recente, ed allora ancora più recente di quanto non lo sia adesso, e che definirei un passato ancora recidivo, ha fatto credere alla maggioranza che il termine normalità debba coincidere necessariamente con il termine intolleranza. Ecco, un altro aspetto tragico che abbiamo voluto sottolineare nella canzone per la morte di Pasolini è quello legato ad una moda purtroppo ancora adesso corrente, e che si ricollega anche lei al clima di ignoranza e di caccia al diverso. E cioè il fatto che della morte di un grande uomo di pensiero sia stata fatta praticamente carne di porco da sbattere sul banco di macelleria dei settimanali spazzatura e non solo di quelli.

D’altronde, anche se questo omaggio non fosse mai stato scritto, tutta la produzione musicale di De André è cosparsa di versi perfetti per questa storia sbagliata. Forse, il più bello, è quello che li accomuna di più, dimostrando la vicinanza intellettuale delle loro vite, percorse entrambe “in direzione ostinata e contraria”.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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