Becket, Paramount Pictures, Hal Wallis Productions
Becket, Paramount Pictures, Hal Wallis Productions

Rilasciato per la prima volta l’11 marzo 1964, Becket (Becket e il suo re in italiano) di Peter Glenville, è una superba opera di maestria produttiva e soprattutto recitativa, adattamento cinematografico dell’omonimo dramma teatrale di Jean Anouilh.

A fronte di un lavoro riuscito in ogni suo minuzioso aspetto, la massima grandezza del film è il duello attoriale che per oltre due ore va in scena tra due pesi massimi del cinema mondiale: Richard Burton e Peter O’Toole.

L’uomo che difese l’onore di Dio

Nell’Inghilterra normanna del XII secolo, il re Enrico II (Peter O’Toole) governa un regno diviso tra nobiltà e clero, divisione politica innestatasi sulla già presente divisione sociale tra Sassoni conquistati e Normanni conquistatori. Alfine di avere in pugno la chiesa e risolvere una disputa giuridica con essa, il re sceglie un giorno di nominare il suo fidato amico e servitore sassone Thomas Becket (Richard Burton), arcivescovo di Canterbury. Scoprirà che il leale compagno di lazzi triviali e manovre politiche di un tempo, a lungo protetto dai suoi favori e celato nella sua reale ombra, conscio di dover difendere mediante la sua nuova carica un onore ben più grande del proprio o di quello reale, non sarà uno strumento da manipolare facilmente ma un fiero avversario politico.

Il film è un piccolo compendio di eccelse componenti formali, specialmente nel lavoro semplice ma espressivo sulla fotografia condotto da Geoffrey Unsworth (che poi lavorerà con Stanley Kubrick in 2001 e con Bob Fosse in Cabaret), nei costumi di Margaret Furse che restituiscono un medioevo splendido e scintillante, e nel minuscolo ma prezioso ruolo di sir John Gielgud nei panni dell’arguto e raffinato Luigi VII di Francia.

Peter Glenville pone la sua forza estetica e le sue doti registiche al servizio dei grandi interpreti, che disegnano dei personaggi sfaccettati: triviale, irruento e capriccioso l’Enrico II di Peter O’Toole (che riprenderà il personaggio ne Il leone d’inverno di Anthony Harvey), calmo, arguto e riflessivo il Thomas Becket di Richard Burton, in grado di evolvere da cinico uomo asservito ai vizi del re a fedele difensore dei diritti politici del clero inglese.

Il potere delle parole e dello sguardo

La sceneggiatura di Edward Anhalt, che rielabora il lavoro di Anouilh con una maggiore sottigliezza verbale, confeziona un capolavoro a livello psicologico e politico. La complessa personalità dei personaggi filtra dalle battute stesse, recitate poi in maniera memorabile dai due grandissimi attori. Nel film ci sono numerosi arguti giochi politici che arricchiscono la trama storica e le raffinate costruzioni psicologiche di Anhalt coabitano con la regia minimale ma efficace di Glenville, mai sfarzosa o virtuosa, profondamente umanistica e ancorata agli attori che fanno vivere con le loro doti gli incastri verbali orditi con abilità dalla scrittura.

Peter Glenville è stato un abile regista in grado di valorizzare le maestranze dei suoi film, dagli attori fino agli scenografi, regalando opere meravigliose come Il Prigioniero (The Prisoner, 1955) e Estate e fumo (Summer and Smoke, 1961) che oggi appaiono dimenticate. Ancora più obliato però è il suo lavoro nel teatro, che all’epoca lo rese uno dei direttori più richiesti e famosi degli anni ‘50 e ’60. Il Becket di Anouilh fu portato da lui in scena a Broadway nel 1961 con sir Laurence Olivier nei panni di Thomas Becket e Anthony Quinn in quelli di re Enrico II; questo solo per accarezzare la portata estetica e magniloquente delle produzioni che curò.

Forse solo il nostro Luchino Visconti lo supera per odierna memoria tragica e sepolta nel campo del teatro; alcune regie teatrali dovrebbero essere studiate al pari dei drammi stessi.

Due giganti che giacciono sepolti

È fugace e fine a se stesso descrivere la grandezza a lungo mutilata di due attori come Richard Burton e Peter O’Toole, le statistiche delle loro nominations agli Oscar sono vertiginose ma fredde (15 nominations tutti e due senza mai vincere). Bisogna considerare il loro lascito, ovvero i film.

Becket, il loro incontro sullo schermo, vive del duello/balletto che i due mettono in scena con le loro doti recitative: è il braccio di ferro tra i loro talenti a travolgere lo spettatore a livello sensoriale, facendolo pendere da ogni gesto o parola.

Nelle scene in cui sono insieme, i cinici e vuoti occhi grigi di Burton si scontrano con quelli nevrotici e capricciosi di O’Toole, ma la grandezza di entrambi traspare soprattutto dai piani solitari che Glenville orchestra in maniera contrappuntistica tra i due, affrescando uno scontro che si alimenta del loro carisma.

Per riprendere un concetto del film stesso, si può dire che i loro film oggi sono dei veri esercizi di estetica in certi casi ancora oggi ineguagliati; negli sguardi evocativi, nei gesti cesellati e nelle parole che trasudano la lunga pratica sui palchi shakesperiani, arde vivido un fuoco artistico che negli anni ’60 aveva pochissimi rivali. Il talento recitativo dei due oggi sopravvive come un lascito splendente sebbene triste, poiché non solo il grande genio attoriale li univa, ma anche una smodata passione per l’alcol che quasi li travolse a livello professionale.

In Becket tutto corona il loro stato di grazia come attori, dietro cui però si celano numerosi aneddoti produttivi legati al bere che li portò più di una volta a compiere il tragitto pub-set ogni sera a fine riprese, con imbarazzo della troupe che spesso doveva andare a recuperarli nei locali. Ma questi dettagli, un tempo fissati nelle colonne dei giornali scandalistici e oggi nei saggi, sbiadiscono dietro i film stessi, luminosi affreschi di una maestria scenica che li consacrò come i due naturali eredi di sir Laurence Olivier e sir John Gielgud.

In breve

Il rapporto morboso e tormentato tra i due uomini protagonisti della storia, in bilico tra l’omoerotismo e l’ossessione, vive nelle parole glaciali del testo e negli attori che lo resero vivo e splendente. Becket è un film da recuperare e contestualizzare, per capirne l’importante eredità.

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Francesco Gianfelici
Classe 1999, e perennemente alla ricerca di storie. Mi muovo dalla musica al cinema, dal fumetto alla pittura, dalla letteratura al teatro. Nessun pregiudizio, nessun genere; le cose o piacciono o non piacciono, ma l’importante è farle. Da che sognavo di fare il regista sono finito invischiato in Lettere Moderne. Appartengo alla stirpe di quelli che scrivono sui taccuini, di quelli che si riempiono di idee in ogni momento e non vedono l’ora di scriverle, di quelli che sono ricettivi ad ogni nome che non conoscono e studiano, cercano, e non smettono di sognare.

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