Die Hard (1988), 20th Century Fox
Die Hard (1988), 20th Century Fox

Per chi pensa che Die Hard sia solo un film d’azione o una divertente variazione sul tema film natalizi: è molto, molto di più.

Nel 1988 usciva Die Hard, diretto da John McTiernan (che solo l’anno precedente aveva firmato Predator): primo di una serie cinematografica di cinque lungometraggi, con i quattro sequel che rimangono molto indietro rispetto all’esordio sul grande schermo di John McClane (Bruce Willis) e della sua trappola di cristallo.

Nel 1989 ricevette quattro nomination agli Oscar senza però vincerne neanche uno, ma lanciò la carriera di Bruce Willis che da quel momento diventò un’icona degli anni ’80 evolvendosi poi in una carriera ricchissima, e incassò più di 140 milioni di dollari. Questo perché Die Hard non è il classico film action dove l’eroe, scaraventato in un inferno di esplosioni e trappole, deve solo scontrarsi con il cattivo per salvare la situazione: la psicologia del personaggio è molto più sottile e porta ad essere il film un elemento di rottura per l’intrattenimento action, che però gioca consapevolmente con le nuove dinamiche, divertendosi e divertendo. In un approfondimento scritto a quattro mani, vi raccontiamo di una doppia struttura narrativa, che si pone a metà tra il cinema classico americano e il cinema post-classico, ma anche del protagonista, Bruce Willis, che vogliamo ricordare forte, autoironico e cannottierato, tra esplosioni e battute.

La trama

John McClane è un detective di New York che va a Los Angeles per passare le vacanze di Natale con la moglie Holly (Bonnie Bedelia) e i figli, nonostante i due stiano attraversando una crisi matrimoniale. Proprio per una scelta relativa alla carriera di lei (e all’orgoglio di entrambi) i due vivono attualmente separati. È la vigilia di Natale quando John arriva al Nakatomi Plaza, il grattacielo dove lavora Holly, che adesso ha ricominciato a usare il suo cognome da nubile, ovvero Gennaro, e ha un collega particolarmente gentile, Harry. Lì, durante un party natalizio per i dipendenti, irrompe un gruppo di criminali armati tedeschi guidati da Hans Gruber (Alan Rickman), i quali non si fanno problemi ad uccidere subito alcuni dei presenti. Con la scusa di liberare alcuni “fratelli della rivoluzione”, detenuti in varie carceri sparse per il mondo, vogliono in realtà entrare nel caveau dell’edificio, dove si trovano 640 milioni di dollari in in obbligazioni al portatore (obbligazioni che non sono registrate, e quindi tecnicamente di proprietà di chi le detiene).

John riesce a dileguarsi mentre prova insistentemente a contattare la polizia, nell’attesa però inizia a “menare le mani”. Gli agenti arrivano e circondano il palazzo ma la vera azione si svolge all’interno. Continuamente in contatto con il sergente Al Powell (Reginald VelJohnson), John intraprende una vera missione di salvataggio cercando di eliminare quanti più criminali può e provando a sventare i loro piani. Non sapranno che è un poliziotto sposato con una delle dipendenti della società finché un giornalista non lo spiattellerà in diretta TV. Ovviamente questo complicherà le cose, ma non impedirà al coraggioso protagonista di salvare Holly, “regalare” al cattivone un finale scenografico e uscire da quell’inferno. In più la moglie di John ha modo di sferrare un bel pugno al giornalista ficcanaso e il sergente Al Powell di compiere un risolutivo gesto eroico (superando anche un trauma personale).

La complessità di un film pop

La complessità di Die Hard, come di tanti altri prodotti statunitensi definiti pop, sta nel lavoro svolto su vari livelli: da non sottovalutare infatti sono gli aspetti produttivi, ideologici e politici. Ci sono molteplici significati latenti legati al rapporto tra film, critica e pubblico, e il film di McTiernan lo dimostra, rivelando una stratificazione di messaggi in cui il cinema mainstream si rivela in tutta la sua complicatezza. Scomodando una lettura più teorica, all’interno di uno studio sul cinema americano classico contrapposto al cinema americano post-classico, Die Hard è contemporaneamente sia l’uno che l’altro, e soprattutto ne è consapevole.

Se da film classico ha una struttura in tre atti, una narrazione coerente e principalmente incentrata sul protagonista e la trama che mantiene una notevole unità d’azione, luogo e tempo, da film post-classico non rinuncia a seguire le tendenze della moda del tempo, della pubblicità e dell’esibizione del corpo maschile. Inoltre esibisce sequenze sensazionali a livello visivo e chiama in causa molti elementi derivati dai cultural studies ed è autoreferenziale su due livelli: l’edificio Nakatomi è in realtà il Fox Plaza (il quartier generale della Twentieth Century Fox) e il film tenta di riprodurre tutta una serie di stereotipi presenti nel cinema statunitense.

Il film è di genere action ma appartiene anche al sottogenere definito talvolta come male rampage film, proprio di un divertimento disimpegnato, in cui i ritmi narrativi sono molto frenetici. Questo però non può distoglierci dalla distanza da altri film semi contemporanei action, come Beverly Hills Cop e Arma Letale, perché in Die Hard, sebbene si respiri la stessa ironia contrapposta alla violenza estrema, l’eroe è estremamente fallibile e umano, e non per colpa di qualche tragico evento esterno (come per Mel Gibson in Arma Letale) ma per la sua inesauribile testardaggine e il suo essere, di fatto, un cazzone. Se pensiamo che il personaggio di Holly non solo sceglie il lavoro a lui, trasferendosi in un’altra città, ma rivendica la sua indipendenza a 360 gradi, possiamo avere chiara la scintilla di rivoluzionarietà nel genere. Poi ovviamente è John a salvarla (sono ancora gli anni ’80), ma anche lei si concede uno sfogo finale sferrando un pugno a chi ha messo in pericolo la sua famiglia.

Die Hard è un film complesso perché se la struttura di superficie ci dà l’impressione che la spettacolarità sia l’esibizione di azione scoppiettante e incalzante, quella profonda rivela una serie di turbamenti del protagonista: John sta salvando gli ostaggi ma più profondamente sta cercando di salvare il suo matrimonio. E tutto questo pervade il film di una affascinante consapevolezza dei codici che governano il genere, che fa sentire partecipe il pubblico, in un continuo ammiccamento post-classico condito da canotte da macho e sentimentalismi tra agenti.

Per saperne di più consiglio la lettura del saggio di Thomas Elsaesser e Warren Buckland, Teoria e analisi del film americano contemporaneo.

Silvia Pezzopane

L’ascesa di una star: Bruce Willis

Scrivere di un uomo al passato mentre è ancora in vita è triste, specie in una società mediatica come la nostra dove video e notizie corrono più veloci del dolore. Bruce Willis non era la prima scelta per questo film d’azione, la sua carriera fino al 1988 era composta di ruoli marginali in qualche film, e un piccolo grande successo in televisione con la serie comedy-crime Moonlighting (1985-1989).

Quelli però erano gli anni dove imperavano sul grande schermo lo Stallone di Cobra (1986) e Rambo III (1988) e lo Schwarzenegger di Commando (1985) e Predator (1987), mentre sul piccolo schermo regnavano incontrastati Miami Vice (1984-1989) e Magnum, P.I. (1980-1988).

Ma nella storia del cinema d’azione c’è un prima e un dopo Die Hard, e tutto passa per il volto martoriato ed esausto di Bruce Willis nei panni del poliziotto John McLane. Da lì cominciarono le collaborazioni con registi di qualità, da Tony Scott con L’ultimo boy scout (1991) a Quentin Tarantino in Pulp Fiction (1994), senza dimenticare i seguiti del filone da cui tutto ebbe inizio, meno geniali del primo ma più remunerativi.

Dopo la prima metà degli anni ‘90 il nome “Bruce Willis” era già un richiamo garantito per portare il pubblico in sala. Il suo volto si legò a dei successi di critica come L’esercito delle 12 scimmie (1995) di Terry Gilliam, trionfi al botteghino come Armageddon (1998) di Michael Bay, o film divenuti cult indiscussi come Il quinto elemento (1997) di Luc Besson.

Bruce Willis aveva la duplice qualità di essere una star sia in termini di incassi che di doti recitative, complice una recitazione non statuaria o mono-espressiva, ma capace di trasmettere un’umanità sofferente e moderna e anche di un’ironia genuina.

Il tramonto personale

La sua carriera è stata eclettica, votata al cinema d’azione ma mai inquadrata solo attraverso quel genere; star del cinema d’azione ma non suo ostaggio.

Sinergico e prestigioso fu il sodalizio con il regista emergente M. Night Shyamalan, che lo ha diretto in tre film: Il Sesto Senso (1999), Unbreakable (2000) e Glass (2019). Poi dalla seconda metà degli anni 2010 si inizia a notare un fatto inquietante nella sua filmografia: l’attore recita in moltissimi film direct-to-video, mediocri o con infime produzioni, svende la sua immagine, il suo nome da star.

Questo fenomeno porta l’ironica manifestazione dei Razzie Awards (Golden Raspberry Awards) a dedicargli nel 2022 una categoria: Peggior interpretazione di Bruce Willis in un film del 2021. Poi esce fuori la verità su quelle scelte di carriera: l’attore soffre di afasia. Ecco perché scegliere di recitare in tanti film orribili: il bisogno di lasciare fino alla fine, fino all’irrecuperabile punto di non ritorno, la sua immagine in un film. Restare vivo e cosciente fino all’ultimo quantomeno nella finzione, nel magico mondo del cinema. I Razzie Awards si scusarono pubblicamente e ritirarono la categoria e il premio.

E così Bruce Willis ha concluso la sua carriera non come star, non come idolo bruciatosi improvvisamente e ricordato in modo quasi leggendario, ma come semplice uomo malato. Il nostro pensiero va alla sua famiglia, ai suoi amici, e anche a quei giorni di gloria in cui Bruce sembrava cinematograficamente intramontabile, duro a morire quanto il film che lo rese un mito.

Francesco Gianfelici

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