Le ceneri di Angela, Universal Studios
Le ceneri di Angela, Universal Studios

Il libro Le ceneri di Angela, di Frank McCourt del 1996 (pubblicato in Italia da Adelphi nel 1997) esprime la forza icastica della miseria, resa in immagini dalla regia di Alan Parker nel 1999.

Aggiunge che in casa non c’è niente da mangiare, nemmeno una briciola di pane, così appena si addormenta raccolgo da terra il giornale unto. Lecco la prima pagina che è tutta réclame di film e balli che organizzano in città. Lecco i titoli. Lecco i grandi attacchi di Patton e Montgomery in Francia e Germania. Lecco la guerra nel Pacifico. Lecco i necrologi e le poesie tristi in memoria dei defunti, le pagine sportive, i prezzi di mercato delle uova, del burro e della pancetta. Succhio la carta finché non rimane neanche un’ombra di condimento.

La forza di un’opera letteraria credo risieda in grande parte nella sua capacità di infiltrarsi sottopelle, di farsi strada tra le personalissime crepe dell’animo di ognuno di noi. E ancora più vigorosa è l’opera che fa questo sottovoce, senza gridare la sua drammaticità, che risuona cristallina semplicemente venendo enunciata.

LA TERRA DEL NIENTE

Quella che ci viene raccontata è la storia autobiografica di “un’infanzia infelice irlandese e cattolica”, quanto di peggio potesse capitare ai ragazzi McCourt. La struttura narrativa è lineare, ma discontinua. I paragrafi sono spesso fotografie di momenti emblematici di differenti fasi della vita della famiglia, che sono in grado, nella loro esemplarità, di dirci più di quanto possa fare un resoconto completo dei fatti.

Siamo nel periodo tra le due Guerre, in un’ Irlanda dove la miseria è il pane quotidiano. I McCourt hanno curiosamente compiuto il tragitto opposto di molti migranti irlandesi dell’epoca: da New York fanno ritorno a Limerick, città della madre, Angela, marchiati dalla tragedia. Purtroppo questo non sarà che l’inizio di un impietoso susseguirsi di ferite, ancora più mostruose in quanto percepite dallo schietto sguardo di Frank, il fratello maggiore. La morte è quello che è. I bambini McCourt non hanno il privilegio di poterla rivestire dell’umanità che chiede a gran voce, e gli adulti non possono che viverla in una sofferenza rassegnata che hanno imparato a sopportare.

La vita è scandita dai ritmi della religione che però, vista con il filtro dell’infanzia e della prima adolescenza, assume ai nostri occhi i connotati di legge di vita vuota di puro comodo. I ragazzi spesso si rivolgono a Dio, Gesù e ai Santi come fossero signori potenti che possono aiutare loro o i loro cari; come figure dalla consistenza terrena con cui avere un dialogo diretto. È una realtà con cui si trovano a dover continuamente venire a patti, nonostante i ripetuti scontri  con le sue sempiterne contraddizioni. Emerge come l’appiglio di una generazione di adulti miserabili che non ha letteralmente nient’altro a cui aggrapparsi.

Il cinema e l’America – nella loro inscindibile equazione –  sono invece per i ragazzi, e per Frank, il luogo dove tutto è possibile. Mentre per i padri irlandesi è l’Inghilterra nel tumulto della produzione bellica a rappresentare la mecca del guadagno e delle speranze, Frank vuole tornare dove è nato. Vuole tornare in quella terra che gli è stata sottratta prima di poterne davvero saggiare le opportunità.

Frank e i fratelli sono all’inizio degli stranieri in terra d’Irlanda. Vengono definiti in tono denigratorio yankee, e più volte Frank viene additato come ‘strano’ perché figlio di un padre del Nord. È impressionante come le differenze sfumino progressivamente a causa della comune condizione generale. E quando le diffidenze e le malignità che provengono entro i confini della famiglia stessa si addolciscono in evanescenti concessioni di affetto, un cauto sollievo si fa strada tra i detriti della povertà.

QUANDO LO STILE È IL MESSAGGIO

L’autore fa un uso quanto mai suggestivo di alcuni elementi ricorrenti, a cui ho pensato per tutta la lettura come a dei ritornelli. Sono una sorta di cantilena, chiamata a scandire la narrazione così come la vita del giovane protagonista. Il padre Malachy è un alcolista incallito. Frank però non riesce del tutto a odiarlo, perché è come se in lui convivessero più anime: sì quella dell’ubriaco, ma anche quella del mansueto narratore di storie.

L’assenza di speranza in una definitiva redenzione è espressa dalla ciclicità con cui il padre torna a casa ubriaco, cantando le canzoni di Roddy McCorley e Kevin Barry, nazionalisti irlandesi; ossessivamente sveglia i suoi figli e fa promettere loro di morire per l’Irlanda, in cambio di qualche penny. Canzoni e promesse tornano e ritornano, così come tornano le preghiere a San Francesco, il canticchiare della madre quando è di buonumore e i film di James Cagney visti al cinema Lyric. Ne emerge un’infanzia puntellata dal rassicurante – e al contempo disperante – ripresentarsi di ciò che è sempre uguale a se stesso, da cui Frank mostra la maturità di volersi staccare.

Quando si leggono le frasi lunghissime, senza punteggiatura, in cui il discorso diretto si contamina senza soluzione di continuità con quello indiretto, non si può fare a meno di tornare con la coscienza letteraria a James Joyce. Significativamente, irlandese. Il circoscritto utilizzo del flusso di coscienza nei momenti di maggior confusione e/o concitazione riversa nel lettore la scomposta costruzione del pensiero logico di Frank narratore. Le frasi allora si affastellano, costruendo periodi pericolosamente lunghi che trovano il loro senso nella resa della psicologia del personaggio.

Nel complesso si ha la sensazione di uno stile che sia uscito direttamente dai putridi, luridi e affollati vicoli dove vivono i McCourt. Quello che leggiamo è un fiume di parole in piena che, ricordando il tanto maledetto Shannon, ci fa ammalare come gli sventurati irlandesi. L’umidità di queste parole così pregne ci penetra nelle ossa, facendo sì che quest’opera si sedimenti nel nostro animo di lettori.

IL FILM

Nel 1999, per la regia di Alan Parker, esce la trasposizione cinematografica di Le ceneri di Angela. Nei panni di Angela troviamo una Emily Watson (Le onde del destino, Chernobyl) da pelle d’oca; il padre Malachy è invece interpretato da un altrettanto capace Robert Carlyle (Trainspotting, Full Monty – Squattrinati organizzati). Le interpretazioni dei bambini rimangono nel cuore per la loro immediatezza. L’attore che impersona Frank cambierà tre volte nel corso del film, ad accompagnare la sua inevitabile crescita. La modalità con cui viene effettuato il cambio è più poetica che realistica, e avviene sempre in momenti estremamente rappresentativi del personaggio. La scena finale, in cui Frank si trova, letteralmente, faccia a faccia con i suoi due più giovani sé, è uno dei quadri più belli e toccanti dell’opera.

Le ceneri di Angela (1999), Universal Studios

GOD MIGHT BE GOOD FOR SOMEONE SOMEWHERE, BUT HE HASN’T BEEN SEEN LATELY IN THE LANES OF LIMERICK

Il film ci getta subito tra le braccia dell’umida miseria. Le prime inquadrature sono dei vicoli che presto impareremo a conoscere ed esplorare. Il cielo pesante di pioggia incombe sui personaggi, quasi schiacciandoli. La fotografia è livida, plumbea, e la voce narrante ci introduce, come accade nel libro, all’infelice infanzia irlandese e cattolica vissuta. E quindi passiamo a Brooklyn, 1935, nella breve parentesi americana prima del ritorno a Limerick. Ma il film fa la più che giusta scelta di iniziare visivamente in Irlanda, per lasciare all’America il capitolo finale di un nuovo inizio.

Con alcune inevitabili omissioni, il film riesce comunque a mantenere la potenza significante del libro. I temi della religione, della povertà, dell’infanzia e della speranza risuonano con forza. Con ripetuta insistenza viene esplicitato il concetto di istruzione come mezzo salvifico, come strumento di liberazione ed emancipazione. Il fatto che McCourt sia diventato un insegnante ha il dolce sapore della giustizia poetica.

Le ceneri di Angela sono quelle scrollate dalle innumerevoli sigarette spente sulla disperazione dell’ennesima giornata senza cibo. Sulla disillusione portata dalla nuova, puntuale ubriacatura del marito. Sulla grigia coltre di sconforto che ne accompagna la difficile esistenza. Sono le ceneri del fuoco estinto del camino che lei fissa senza veramente guardare. Ma sono anche ciò – e coloro – che Angela ha lasciato in questo mondo, la sua sofferta eredità. E mi piace pensare che la storia stessa che leggiamo o guardiamo sia parte di queste ceneri, raccolte e tramandateci da Frank.

Continuate a seguire FRAMED per storie che passano dalle pagine allo schermo, e da lì a noi.

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