Nel 1977, mentre nel mondo esplodeva la scintilla del punk, a Napoli aveva inizio una rivoluzione musicale senza precedenti, in Italia e, forse, nel mondo. Usciva infatti Terra mia, il primo album di un giovane cantautore partenopeo di nome Pino Daniele.
È un debutto abbagliante che lancia un inedito modo di fare musica: usare come veicolo di trasmissione del folclore napoletano un genere che, per quanto è lontano, ne sembrerebbe l’antitesi e che, invece, se ne dimostra gemello, il blues.
Con la sua musica, Daniele dimostra al mondo come Napoli sia tutt’altro che una cartolina scritta sul sottofondo di una tarantella. Napoli è uno spirito vivo che respira e palpita, gioendo e soffrendo nel corpo e nell’esistenza di chi la abita.
Napul’è è un brano che non ritrae nulla, non descrive o rappresenta niente, ma è un insieme di immagini che costruiscono una sensazione. Ascoltarla significa camminare per le strade di questa città, respirare gli odori e viverne le splendide contraddizioni, la più antica nobiltà e la più profonda miseria, l’orgoglio e la disperazione, l’incontrollabile gioia di vivere e l’indolenza quotidiana contro cui non c’è vittoria.
Quella di Pino Daniele è una melodia che arriva da un altro mondo, migliaia di chilometri oltre l’oceano, propagandosi dal Missisippi degli anni ’30, dalla New Orleans degli anni ’40, dalla Chicago degli anni ’50.
E ci mostra che la sublime sofferenza del blues è la stessa di quella Napoli, città di porto, crogiolo di culture lontane e apparentemente inconciliabili.
Nero a metà, l’utopia musicale di Pino Daniele
Ma è con il suo terzo album, Nero a metà, del 1980, che l’utopia musicale di Pino Daniele si realizza dimostrando l’universalità del linguaggio artistico.
Qui gli strumenti della Napoli ancestrale e stracciona, come la ciaramella o il kazoo, si mescolano agli strumenti elettrici. E sopra a questo incontro danza un sax, suonato da un grande uomo nero che parla napoletano (il mitico James Senese), mentre la voce unica di Daniele canta sorniona e irriverente, quasi trasognata, parlando la lingua antica e popolare del teatro d’avanguardia partenopeo.
Non è rock, non è blues, non è jazz e nemmeno folk. Ma assomiglia a tutti e tre, perché è la loro mescolanza, un meltin’pot musicale che sfida il presente trasmettendo una cultura in continua evoluzione che conserva preziosamente in sé la traccia di ogni minima millenaria influenza.
Ci sono brani in Nero a metà che trasmettono il suono di questa cultura con romanticismo, altri con una vena caustica. I tic, le abitudini e le tradizioni diventano poesia, ma non sfuggono alla condanna, come una costante coscienza dei propri incancellabili vizi.
Pino Daniele e il blues che non si spiega con le parole
È così che emerge straordinario il fatalismo napoletano dalle splendide note di Quanno chiove, dove la pioggia scivola lieve e inesorabile, come non ci sia modo di opporvisi.
È così che suona l’irruenza e l’irriverenza partenopea, volgare e al tempo stesso poetica in Nun me scoccià, internazionale e al tempo stesso popolare in A me me piace ‘o blues.
Ed è così che suona un sentimento endemico napoletano, quasi un affetto genetico, quello dell’Appocundria. Difficile spiegare a parole in cosa consista questa strana accidia mischiata ad un’inspiegabile malinconia verso se stessi e verso il mondo. Forse per capirlo bisogna ascoltarla. Sentire la musica sulla pelle e seguire le immagini, gli ancestrali detti popolari che raccontano un uomo “chi è sazio e dice ca è diuno”.
Questa in fondo è Napoli, il suo spirito che prosegue di uomo in uomo, trascinandosi nel presente da un tempo immemore e superando ogni confine. Uno spirito che alcuni di questi uomini hanno sentito il bisogno di farne musica per renderlo vivo in eterno.
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