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Copertina di "Apriti Cielo" - Graphic Design di Nazario Graziano. Foto di Ilaria Magliocchetti Lombi

Nell’attesa ormai spasmodica per il quinto e nuovo album di Mannarino annunciato per il 17 settembre, l’unica cosa che rimane da fare è ascoltare a ripetizione l’ultimo singolo, Africa (rilasciato il 23 luglio). O riscoprire i suoi precedenti lavori, su cui a ogni nuovo ascolto si stratificano ulteriori significati ed emozioni.

Apriti Cielo arriva dopo una lunga assenza. Nove brani riportano sulla scena musicale un Mannarino diverso e in parte reinventato. Il cantautore romano riesce a dar forma a delle idee, più che ai suoi soliti personaggi, in un lavoro che si dimostra molto concettuale, oltre che come sempre impegnato sul piano socio-politico. La giocosità provocatoria dei suoi testi e delle sue melodie rimane forse solo nel brano centrale, Gandhi, che spacca letteralmente l’album in due diverse metà.

L’inusuale blues di circa sette minuti, musicalmente, risente di influenze orientali e costituisce un vero e proprio intermezzo parlato, più che cantato, come altri brani in album precedenti, dal Bar della rabbia e il Pagliaccio fino all’Onorevole. Rappresenta nell’album la più aperta e palese critica all’ipocrisia della società borghese.

La ricerca intima di libertà nella prima parte dell’album

I precedenti quattro brani, invece, costituiscono la parte più profonda e biografica dell’album. Idealmente possono considerarsi una continuazione e un approfondimento di quel vero e proprio viaggio che era stato il concept album Al monte nel 2014. Uno spostamento, musicale e psicologico, dal cuore di Roma ai luoghi più reconditi dell’anima e del Sud del mondo. Questa prima metà dell’album è una disperata ricerca di libertà, o meglio, una graduale liberazione da ogni oppressione sociale, anche e soprattutto attraverso la musica.

Ritmi, melodie e testi, infatti, in Mannarino vanno sempre di pari passo, riflettendosi e rafforzandosi a vicenda. È quel che accade già nel brano di apertura, Roma, che è proprio il punto di partenza, la città, la cultura e le istituzioni che imprigionano lo spirito umano. Il suono cupo e funebre delle percussioni preannuncia un addio quasi rancoroso, una rabbia e una delusione che si riversano poi nelle parole. Inizia dunque il viaggio, al ritmo serrato dei giri di chitarra che sembrano passi, e continua con Apriti cielo, il brano che dà il titolo all’album e che contiene in sé tutta la speranza e la forza propulsiva di ogni nuovo inizio.

Video ufficiale del brano Apriti cielo

Protagoniste del brano sono le chitarre e la tromba che insieme riescono a creare respiro e apertura: un senso profondo, intimo e sempre diverso di libertà, amplificato dal crescendo della base e dei cori. L’approdo a una nuova dimensione si realizza successivamente con l’Arca di Noè. Nucleo indiscusso del brano è il samba. Ben tre cori diversi danno voce all’anima brasiliana del pezzo che costituisce l’allontanamento definitivo dalla società occidentale, alla ricerca di un contatto con un’altra umanità. L’apice di questo viaggio di liberazione, però, è raggiunto con Vivo, brano poetico e complesso, dalle sonorità vicine alla bossa nova, impreziosito dall’assolo di sax tenore eseguito da Enzo Avitabile.

La seconda metà di Apriti Cielo – L’universalità

Interrotto esattamente a metà dal quinto brano, come si è detto, questo percorso lineare prende un’altra direzione, anzi varie altre direzioni nella seconda parte. L’intenzione, però, rimane quella dell’analisi critica della società contemporanea. A mutare è forse la prospettiva, dal singolo alla collettività. Gli ultimi brani rispecchiano i temi della religione, dell’amore e del viaggio, visti nella prima parte, ma da un punto di vista più ampio e universale.

Nello specifico, Babalù riprende un’ultima volta le sonorità e gli strumenti sudamericani. Il tempo veloce e il testo, simile a una filastrocca, creano poi un impianto apparentemente ludico e scherzoso, dando forma all’unica hit adatta alla radio, non solo nell’album ma forse nell’intera discografia di Mannarino. Il senso ultimo del brano è però un’aspra critica al mondo odierno, surrogata in una figura astratta, mitologica e a tratti cristologica.

Video ufficiale di Babalù

Trova poi spazio anche una ballad romantica, Le rane, in duetto con Ylenia Sciacca. Due voci che dialogano in una parentesi malinconica. Un richiamo fugace all’amore, che pur essendo un tema portante del lavoro di Mannarino, non viene mai affrontato in termini stereotipati. Nel brano successivo, infatti, l’Amore, come idea e principio morale, è narrato come elemento fondante dell’umanità. E dà vita al brano più intenso del disco: La frontiera. In questo caso più che nel resto del lavoro, il testo si intreccia alla musica creando un’incredibile partecipazione emotiva.

Partendo dal testo, la frontiera da attraversare con la mente e con la musica è quella che separa gli uomini tramite l’odio. Per tradurre questo passaggio verso una nuova condizione e una nuova consapevolezza, la musica sfrutta un crescendo quasi catartico, una melodia che cambia forma e canale. Dal riff di chitarra ai cori, fino al delicato canto finale di una bambina, il tutto accompagnato da uno splendido quartetto d’archi.

Una volta raggiunto l’apice con La frontiera, l’ultimo brano, Un’estate, rappresenta il ritorno a casa, con la certezza di essere cambiati nel corso del viaggio. C’è un richiamo ai suoni popolari e vagamente folk, ma a differenza del resto dell’album, in cui suonano oltre trenta musicisti, questo brano è più povero di strumenti e più ricco di voci, di cori possenti, per sottolineare il raggiungimento di una nuova collettività, una diversa società a cui si aspira in questo complesso percorso. Si fa comunque largo e rimane impresso nella mente e sulla pelle il violino di Olen Cesari, perfetto coronamento di un brano e di un disco memorabili.

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