Chris Cornell

A volte, quando perdi per sempre qualcuno, senti che solo il dolore accompagna il suo ricordo e fai di tutto per scappare, per non pensarci, tanto che preferiresti dimenticarlo. Altre volte, invece, se sei fortunato il ricordo di una persona scomparsa ti strappa un piacere involontario, magari una risata che si apre spontanea tra le lacrime, emergendo da un ricordo. E allora ridi, piangi e ridi ancora, senza voler mai scappare.

Quando ti capita questa fortuna, il ricordo può trasformarsi in qualcosa di più vivido e abbandonare lo spazio del passato: succede nel sogno, dove la persona scomparsa è lì, accanto a te, anche se in fondo lo sai che non è possibile, ma dove la coscienza è instabile e ti concede di scegliere di accettare quell’illusione per viverla, come fosse vera, come una nuova esperienza, un’esperienza reale e impossibile.

È quello che ci concede spesso l’arte, d’altronde, prima tra tutte il cinema: noi spettatori accettiamo la sua illusione, interrompendo temporaneamente la nostra coscienza per immergerci nella sua esperienza e viverla direttamente, reale come la vita stessa.

Ma può succedere anche con la musica, anche se in un modo differente. Come per la musica di Chris Cornell.

Nessuna illusione

Questo 20 luglio avrebbe compiuto 59 anni, se qualche anno fa non avesse deciso di annichilire per sempre la propria voce. Anche se noi continuiamo a sentirla e potremo continuare a farlo per sempre, come accade per chi ne ha fatto un’arte, concedendoci la fortuna di un eterno piacere. Facciamo suonare un suo disco, uno dei Soungarden, uno degli Audioslave, e il dolore della sua perdita si mescola al nostro piacere, come le lacrime al sorriso.

Ma qui non c’è alcuna illusione, perché la sua voce è lì, ed entra dentro di noi, ci fa vivere un’esperienza viva in cui non importa se siamo coscienti o meno, perché è pura emozione.

È la condanna e il privilegio dell’artista: l’opera che crea non appartiene a lui, ma a chi ne fruisce. E per questo gli sopravvive.  

L’eccezione

Pensiamo che immortale sia l’artista, ma, in realtà, lui è solo un nome che permane. Sono le opere che crea a rimanere vive.

Ma ci sono alcuni casi straordinari, eccezioni in cui l’artista ricomincia improvvisamente a vivere: è quando scopriamo una sua nuova opera d’arte, una canzone, ad esempio. Non importa se sia perché non l’abbiamo mai sentita prima o perché sia uscita da un cassetto dimenticato di qualche discografico distratto: noi che l’ascoltiamo, lo stiamo facendo per la prima volta, per le nostre orecchie è qualcosa di nuovo che ci regala sensazioni inedite e ci convince che quella canzone sia stata scritta da qualche ora, incisa un attimo prima che giungesse alle nostre orecchie.

La nostra coscienza sa che non è così, ma accetta il gioco perché è il nostro corpo a viverla, qui e ora, senza preoccuparsi che appartiene, in realtà, al passato: eccola l’illusione.

La doppia illusione

E questo accade spesso per alcuni artisti. Di solito, si tratta di quelli più prolifici: nella musica, Chris Cornell è uno di loro.

E queste canzoni inedite, non c’è nemmeno bisogno di andarle a cercare per trovarsele nelle orecchie, basta accendere la radio, basta sintonizzarla su Virgin Radio e, nonostante siano passati almeno sei anni dal suo ultimo ingresso in una sala di registrazione, puoi scoprire la sua voce inconfondibile mentre canta sulle note di una canzone che non hai mai sentito prima, nuova di zecca, non soltanto per te.

E allora Chris Cornell è vivo, com’è vivo un cantante che ha appena pubblicato un nuovo brano: è vivo dentro di te, è vivo per te, è vivo attraverso quelle lacrime che stanno bagnando il tuo sorriso.

Un’illusione, certo, che la coscienza ci concede benevola. Proprio come, al tempo stesso, ce ne concede un’altra: non pensare che, in fondo, quella strana, incredibile magia non ha nulla d’inspiegabile nel mondo del marketing.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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