Un ballerino muore due volte. La prima quando smette di ballare e questa prima morte è la più dolorosa
Martha Graham
È proprio la biografia dell’iconica danzatrice Martha Graham, dal titolo La memoria del sangue, il libro che brandisce Houria in uno dei momenti più icastici dell’opera seconda di Mounia Meddour. Dopo l’ampio seguito riscosso dal suo esordio, Non conosci Papicha (doppio Premio César 2019 come miglior debutto registico e come migliore promessa attoriale femminile all’ottima Lyna Khoudri, che torna qui protagonista), l’autrice algerina ci restituisce un altro singolare spaccato di autoaffermazione.
Un dramma incalzante in cui i corpi diventano gli ideali viatici di un agire politico, i mezzi espressivi di un percorso di liberazione e affrancamento.
La danza si rivela così una pratica di sublimazione psichica, un’intensa anabasi con cui sdossarsi dagli spettri del trauma.
Il protagonismo di Algeri
A fare da cornice all’intreccio è la convulsa Algeri, una città, nonché un retroterra culturale, innervato da contraddizioni, che tutt’ora subisce il gravoso lascito del cosiddetto ‘decennio nero’: la sanguinosa guerra civile che, negli anni ’90, vide numerosi gruppi fondamentalisti islamici contrapposti alla società civile e alle istituzioni, sorrette al tempo dalla comunità internazionale. «Quello della guerra civile è una sorta di fantasma del passato che continua a tarlare il presente» racconta Meddour nell’intervista rilasciata alla distribuzione I Wonder Pictures: «A vent’anni dalle ostilità molte famiglie attendono ancora verità e giustizia». L’amnistia concessa ad alcuni detenuti accusati di terrorismo però, come ribadito da Meddour stessa, dichiara oggi un quadro sociale non poco controverso, dove la popolazione si vede incardinata in una difficile convivenza.
Voce e corpo, riscoprire l’identità
È in questo sfondo conflittuale che si disvela l’arco narrativo della protagonista Houria, ballerina prodigio lambita dai rivoli di un lavoro precario (cameriera ai piani di un facoltoso albergo), intenta a rincorrere il proprio sogno.
La sua è una quotidianità turbinosa, vagamente aderente al senso di smarrimento che sembra ammantare i vicoli della propria città. A quell’impiego oneroso e alla propria passione alternerà infatti un’attività parallela del tutto inattesa: le scommesse clandestine. Teatro delle varie sfide è la lotta tra arieti, ciascuna delle quali riporterà (per ironia?) il nome di un capo di stato o di una personalità terroristica nota all’opinione pubblica (da Donald Trump, passando per Obama, fino a Bin Laden).
Sul calar del giorno, celandosi nell’anonimato del proprio cappuccio, Houria saggerà così un mondo virulento, ostile, squisitamente precluso a uomini (almeno fino alla sua venuta). Un mondo che non tarderà a rivelarsi fatale: Riscossi i soldi di una vincita, verrà rincorsa e aggredita in strada. La colluttazione la lascerà con le gambe spezzate, inibendo i suoi sogni e sopendo addirittura la sua voce. Chiusasi in un mutismo cronico, nulla sembrerà donarle sollievo e tanto più giustizia: La connivenza delle autorità locali sarà quasi palese (complice la remissione concessa al colpevole, anni addietro, da terrorista pentito).
A Houria non resterà altro che rifugiarsi in quello che, nei fatti, si presenta come il suo unico avamposto sicuro: una comunità di donne vittime come lei di violenza, con cui potrà immaginarsi in un nuovo percorso; un percorso non esente da perigli e affanni, ma necessario per poter rifiorire. A farne da collante sarà il linguaggio che, a dispetto di qualsiasi contusione, rimarrà in lei vivido: la danza.
Un’estetica ricercata, l’Islam onnipresente
È proprio nella ricostruzione di una nazione caotica, insicura e ambivalente che emerge una delle maggiori qualità espressive del lungometraggio di Meddour; un pregio che sottende una profonda alchimia tra lo sguardo della regista e la traduzione visiva inscenata dell’abile direttore della fotografia Léo Lefèvre. Si rifletta solo sulla suggestiva osmosi grafica dei primi minuti, in cui il giorno e la notte presentano tinte e prospettive contrapposte: l’uno lucente, arioso e ravvicinato (come gli stretti primi piani che accompagnano le prove di Houria lungo il terrazzo), l’altro invece algido, ferino e distaccato (tra le sequenze più emblematiche troviamo l’anzidetta lotta tra le arieti, la cui efferatezza è pari solo al clamore aizzante dei presenti).
Merito indubbio del moodboard proposto dal duo Meddour-Lefèvre sta inoltre nell’aver saputo sapientemente delineare l’identità islamica del Paese raffigurato, oltre chiaramente all’influenza da essa esercitata nella vita comunitaria. Aspetto quest’ultimo non indifferente che stenta a trapelare, con la stessa genuinità, nelle più recenti produzioni arabe (l’ultimo caso forse più paradossale è il thriller iraniano Holy Spider di Ali Abbasi, eccessivamente debitore di un registro narrativo, tematico e dialogico occidentale, in particolar modo statunitense – il calco di Zodiac è più che esplicito. Soluzioni certamente efficaci sul piano scenico, specie se configurate in una visione commerciale, ma che a tratti rischiano di sbiadire il sottofondo culturale del racconto).
Un corpo politico
Attraverso il dramma individuale di Houria, Meddour getta luce sul dolore collettivo di uno sfondo sociale, ancora irrorato di crepe e storture, dalla passività delle istituzioni, con cui si condona indirettamente un’educazione misogina, fino ad arrivare alle iniquità materiali. Paradigmatica in questo senso è la parabola del personaggio di Sonia, la migliore amica di Houria, costretta anche lei come tanti connazionali a lasciarsi alle spalle disillusa il proprio Paese per poter approdare in Europa. Suo malgrado, le sue poche possibilità e le innumerevoli richieste di visto respinte la indurranno a rivolgersi a degli scafisti.
Tra picchi record di disoccupazione, il costo della vita sopraelevato e l’instabilità politica, ne emerge un quadro problematico a cui la gestione migratoria non sembra voler far da contraltare: solo quest’anno oltre 400 algerini, in balia dei traffici irregolari, hanno tragicamente perso la vita nel Mediterraneo.
A queste aberrazioni e violenze fatica a rispondere una comunità ‘afona’, annichilita ma tuttavia bramosa di rinascita. Houria e il suo mutismo divengono quindi gli ideali depositari di un popolo insofferente alla fervente ricerca di nuove pratiche di riscatto. In assenza della voce, sarà infatti il corpo ad assurgere a strumento di ribellione.
Un’esperienza che, nella sua vocazione politica, non può trascendere dal valore del collettivo.
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