Un solo disco. Un’opera prima che non sapeva di essere anche ultima, ma che contiene in sé il gioco paradossale dell’esistenza umana: la finitezza mortale che si slancia verso l’immortalità.

E, a volte, la raggiunge. Seppure per il tempo fugace di un attimo, seppure per il tempo ristretto di un album.

Alcuni quell’attimo lo chiamano “Grazia”. Anche Jeff Buckley lo ha chiamato così, Grace. Non soltanto il nome del suo unico disco, ma il titolo perfetto per la sua breve, immortale, vita.

La copertina dell’album Grace (1994) – Credits: web

Una questione di geni e disposizione

Il 17 novembre del 1966, nel cuore storico e geografico della rivoluzione culturale, la California, due musicisti hanno un figlio. Si chiamano Mary e Tim: lei una violoncellista e pianista classica, lui un leggendario songwriter del folk sperimentale americano. Per questo, Jeff nasce dentro la musica.

E, sempre al suo interno, cresce.

Perchè quando suo padre, Tim Buckley, lascia la moglie per trovare fortuna a New York, Jeff non è ancora nato. Una distanza che, crescendo, cerca di colmare con la musica, come uno sfogo e come una liberazione.

Il suo padre adottivo, infatti, gli regala una chitarra e il disco dei Led Zeppelin, Physical Graffity, che gli aprono un nuovo mondo, oltre quello della musica classica, portato in dono sua madre.

Jeff Buckley – Credits: web

Molto più di un’ombra

Una mattina di primavera, sua madre gli annuncia: domani conoscerai tuo padre. È il 1975, Jeff ha solo 9 anni, ma è un tempo infinito che sente parlare di quell’uomo. E ancora non sa se amarlo o odiarlo.

La mattina seguente, senza fare alcuna domanda, il piccolo Jeff sale obbediente in macchina e parte alla scoperta delle proprie radici.

Mentre stringe la mano di sua madre, in mezzo al pubblico chiassoso e stravagante, Jeff ha lo sguardo fisso sul palco.

Sopra c’è un uomo magro che si alza e si siede imbracciando una chitarra, chinandosi su di essa e facendola piangere. La sua voce è straniante, a tratti profonda, a tratti infantile, si lancia oltre il tono che sembra sopportare, ma non stona mai, creando un’attraente atmosfera psichedelica.

Le luci sono basse alle spalle di quell’uomo che sua madre gli ha indicato essere suo padre: è poco più di un’ombra dalla platea, ma i giovani occhi di Jeff lo guardano ardendo.

Quando finisce la musica Jeff ha ancora lo sguardo fisso sul palco. Sa che tra pochi istanti conoscerà finalmente quell’ombra.

La sua piccola mano stretta in quella di sua madre trema per questo, ma lui la segue in silenzio nel backstage.

Jeff lo vede in ginocchio mettere con cura la chitarra nella sua custodia e mentre gli si avvicina, ogni passo che fa ha l’impressione di conoscerlo sempre di più. Finché Tim solleva la testa e i loro occhi s’incontrano e si riconoscono.

Il piccolo Jeff è ormai di fronte a quell’uomo, a quell’ombra improvvisamente diradata e non si accorge nemmeno di aver lasciato la mano della madre e di aver fatto un passo in avanti, finendo tra le sue braccia.

Qualcuno giura che quell’abbraccio durò 10 minuti. Ma non importa. Perchè alcuni gesti non si misurano attraverso il tempo, ma con l’intensità.

E per chi li guardava, quello fu il tempo che durò quell’abbraccio, non avendo dall’esterno alcuno strumento per calcolare l’intensità.

Poco più di un mese dopo, in una notte di giugno, il corpo di Tim viene ritrovato senza vita, stroncato da una miscela fatale di eroina e alcol.

Jeff Buckley e Tim Buckley – Credits: web

Da un abbraccio alla musica

A 9 anni Jeff ha già scoperto quale sarà il suo destino.

Dopo quella dolorosa morte, sceglie di riprendere il cognome di suo padre e di iniziare a studiare la musica.

Tutta la musica, dal blues del Mississippi, alla musica devozionale sufi, il qawwali, dalla voce straziata di Nina Simone, all’hard rock: un’insaziabile curiosità verso ogni tipo di suono, forse per arrivare a comprendere il fascino straniante prodotto da Tim Buckley.

A 24 anni anche lui decide di seguire la strada di suo padre cercando fortuna a New York. Ripercorre gli stessi locali dove Tim è diventato grande, come vedesse la strada che li aveva divisi la stessa in grado di riunirli.

Decide di non dire a nessuno di essere suo figlio e, solo, suona la sua musica, evolvendola di serata in serata. Su quella strada che gli ha strappato l’affetto più grande, Jeff sente di dover vivere con la sua musica e di soffrire attraverso di essa ogni mancato ricordo, facendo della sua voce e della sua chitarra un prolungamento della propria interiorità verso il mondo.

Mentre tutto intorno il rock esalta gli eccessi di sesso e droga, lui non ha paura di esprimere il proprio romanticismo, ed esercita una voce angelica, sincera e pura.

Capisce che non è essenziale essere maledetti per comunicare quel dolore che tutti si portano dentro, che la malinconia è più dolce se si estende limpida, trasformando la riflessività in espressione.

Poi, un giorno del 1991 qualcuno gli chiede di partecipare ad un grande concerto di tributo per suo padre, Tim Buckley.

Jeff non risponde subito, si prende del tempo. Ma in fondo sa che è arrivato finalmente il momento.

Si presenta al concerto con un pezzo scritto da Tim proprio per lui e sua madre, I never asked to be your mountain. E sul palco canta queste parole:

“The Flying Pisces sails for time

La Flying Pisces salpa in orario

And tells me of my child

E mi racconta di mio figlio

Wrapped in bitter tales and heartache

Avvolto in racconti amari e sofferenza

He begs for just a smile

Lui chiede solo un sorriso

Please take my hand

Per favore, prendi la mia mano

Leave all your fears behind

Lascia tutte le tue paure alle spalle

I’ve been gone too long

Sono stato via troppo a lungo

Now I’m home to stay

Ora sono a casa per restare

Please don’t leave me

Per favore non lasciarmi

Again this way

Di nuovo in questo modo”

Jeff Buckley e Tim Buckley – Credits: web

E infine, la Grazia

Allora, dopo quel tributo, forse Jeff ha finalmente elaborato il suo dolore. O, meglio, ha capito come trasformarlo in bellezza. In Grazia.

Una goccia pura in un oceano di rumore, lo ha definito Bono Vox.

Per me la grazia è il momento artistico, quello di massima ispirazione”, ha detto una volta in un’intervista, “chiunque l’ha provato, è insito nell’animo umano. È la stessa cosa di quando trascorri un’intera notte a fare l’amore, senza parlare, ma contribuendo insieme ad un’altra persona a costruire un attimo irripetibile”.

Un attimo irripetibile, d’altronde, come quell’abbraccio, un attimo fugace di Grazia.

Jeff Buckley – Credits: web

Solo uno stupido incidente

Qualche anno dopo, in un’afosa notte di maggio, Jeff ha scelto di farsi un bagno nelle acque del fiume Mississippi.

A volte l’assurdità di un evento porta a cercare ostinatamente un senso che lo spieghi. Spesso, però, ci si dimentica che il senso tradisce quasi sempre le aspettative.

Un incidente. Solo uno stupido, maledetto incidente. E quello che rimane è solo la sua Grazia.

In un’intervista, qualche mese prima rideva dicendo: “Non sono un medico, non salvo la gente. Faccio solo musica per intrattenerla”.

Forse lì si sbagliava. Perché quella sua Grazia non intrattiene, ma guarisce l’anima.

Jeff Buckley – credits: web

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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