jimi hendrix monterey festival

Estate ’67, California, Festival di Monterey. È il primo grande evento di rock della Storia, organizzato dagli artisti stessi.
Gli Who hanno appena concluso la performance a loro modo, devastando strumenti, amplificatori, lasciando il palcoscenico un campo di battaglia al tramonto di un massacro.
In mezzo a quelle macerie si fa strada Brian Jones, chitarrista storico dei Rolling Stones, per annunciare i prossimi artisti: è una band guidata da un eccentrico ragazzo americano, un indecifrabile meticcio, tra Cherokee e Afro, che è emigrato in Inghilterra e da qualche mese sta rivoluzionando il modo di fare musica. Si chiama Jimi Hendrix e la sua Jimi Hendrix Experience.

Jimi Hendrix in concerto – Credits: web

La leggenda di una discussione in camerino

All’inizio di quella serata, prima dell’inizio del Festival, Jimi passa molto tempo chiuso in camerino insieme al chitarrista degli Who, Pete Townsend: si dice che discutano su quale dei due gruppi si esibirà per primo.
Nella logica artistica, l’ambizione è entrare in scena per ultimi, in modo da regalarla pubblico quel gran finale che lasci un segno indelebile nella sua mente e, soprattutto, che  riduca gli altri musicisti a dei meri comprimari. Ma non quella sera.

Quella sera, infatti, chi suonerà per primo avrà la possibilità di distruggere il set e dimostrarsi il genio con l’idea originale, saziando e consumando tutto il desiderio liberatorio del pubblico: l’ultimo sarà solo una pallida copia. 

Alcuni dicono che dentro quel camerino volino parole grosse, altri che si arrivi alle mani. Ma sono soltanto leggende.
Quello che è certo è che Townsed esce soddisfatto da quell’incontro e scende dal palcoscenico distrutto, convinto di aver vinto la sua battaglia.

Il rito sacrificatorio di Hendrix al Festival di Monterey – Credits: web

Il sacrificio

Ma quando tra le macerie si fanno strada  Hendrix e la sua band, sul suo volto non c’è alcuna espressione di preoccupazione, né i tratti di un uomo sconfitto.
Inizia la sua classica, travolgente performance, regala al pubblico la sua meravigliosa versione di Like a rolling stone di Dylan, lo penetra con Purple Haze, lo eccita con Foxy Lady e, infine, si prepara a imprimergli sulla pelle l’esplosività dell’ultimo pezzo, Wild Thing.


A un tratto, però, nel pieno di un delirio musicale, mentre la batteria di Mitchell s’imbizzarrisce crivellata di colpi e il basso di Redding tuona in trance, Jimi adagia a terra con cura la sua chitarra che continua ad emettere il riverbero elettrico degli accordi, come il gemito di un animale ferito. Gli si inginocchia di fronte, fissandola e seguendone il suono con le mani. Poi si alza e raccoglie una bottiglietta di benzina dietro la batteria: la svuota sul corpo inerme della chitarra e si piega per baciarla. Infine, senza smettere di fissarla, sfrega un cerino sulla sua scatola per gettarlo infiammato a far divampare un incendio. La chitarra brucia e continua a suonare, come se stia gridando, emettendo il suono ancestrale del fuoco.

Il pubblico guarda esterrefatto come assistesse a un rito sacrificale, in bilico tra terrore e piacere, tra sacrilegio e privilegio, tra delirio spirituale e sensuale dissacrazione: qualcuno ha le mani tra i capelli, altri le hanno davanti alla bocca, quasi a difendersi, quasi a nascondersi, e tutti hanno negli occhi le fiamme e nelle orecchie il suono del fuoco.

Sotto al palco, come il resto del pubblico, Townsend assiste attonito.
Gli si avvicina Mama Cass, leader dei Mamas & the Papas: “Sta rubando la tua interpretazione”, gli sussurra provocandolo.
Lui non sposta lo sguardo dal palco, negli occhi ha il riverbero delle fiamme: “Non sta rubando nessuna interpretazione”, risponde, “è semplicemente se stesso“.

Hendrix sorride in studio di registrazione – Credits: web

La pulsione irrefrenabile per la musica: genio e innocenza

Hendrix è semplicemente questo: pulsione istintiva e insaziabile per la musica.
Lo è nel bene e nel male.

Perché una simile purezza è il motore di una capacità espressiva costante e debordante, ma anche di una innocenza al limite dell’ingenuità.
Jimi è un bambino che vuole solo giocare, giocare con la sua chitarra a creare musica mai ascoltata prima, musica che squarci il reale quotidiano: “Musica dura, che picchi forte sull’anima in modo da aprirla”, come dice lui stesso.

Ma ogni gioco ha le sue regole e questo lui lo ignora, o preferisce ignorarlo. Forse perché non sono le regole della musica, ma quelle della discografia che della musica si ciba, con la scusa di cibarla.

Jimi è completanente disinteressato ad altro che non sia esprimersi, privo di mire economiche che non siano funzionali alla sua creazione: in balia degli squali della discografia, firma contratti senza pensarci, a volte senza neppure leggerli.

L’immagine di copertina dell’album Electric Ladyland – Credits: web

Electric Ladyland, il disco definitivo

Per questo si troveranno sul mercato decine e decine di dischi a mome Hendrix. Eppure la sua discografia è composta da soli tre album, tre capolavori che hanno cambiato il modo stesso di fare musica, incisi in soli due anni, tra il 1967 e il 1968.


Ma anche dentro un mondo simile, interessato più al denaro che alla musica, la purezza di Hendrix non cede la sua libertà. E nel momento in cui sceglie di realizzare il suo disco perfetto, Electric Ladyland, si chiude in studio nel tentativo ostinato di riprodurre il sound e il groove che ha dentro la testa, chiude le porte ai discografici e arriva ad autoprodursi e autofinanziarsi.

Jimi non è più un bambino, è cresciuto in fretta e non vuole avere più limiti. Vuole la libertà assoluta di creare il suo capolavoro definitivo. Vuole usare tutta la sua ossessività compositiva, usarla fino alla pedanteria. Anche sacrificando per la sua furia compositiva quell’emotività selvaggia attraverso cui sta già cambiando la musica.

È la sfida impossibile di ogni artista, l’utopia stessa dell’arte: dare una forma al flusso incontrollabile della coscienza, concretezza all’intoccabilità del divenire, sollevare il velo che ricopre l’intelligibile. Unire corpo e mente, la violenza del silenzio e la quiete del rumore per farne musica.

Forse proprio lui può riuscirci.
Lui che ha cambiato in una manciata di anni il modo di fare e pensare la musica.
Lui che è morto come uno sbandato qualunque, il 18 Settembre di 50 anni fa, ucciso dalla solita banalità del male.
Lui che ha dato suono al fuoco.
Forse proprio lui ci è riuscito.

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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