Le fiamme del 1968

Daphne aveva solo dodici anni.

Quell’estate sua madre l’aveva mandata in un collegio internazionale, a Copenhagen. Erano anni turbolenti, in particolare quell’anno, in particolare quell’estate, quella del 1968. Già tre anni prima, dall’altra parte dell’oceano, a San Francisco, era esplosa una rivoluzione sociale e culturale senza precedenti che si stava allargando inesorabile fino a incendiare l’Europa.

Nei suoi dodici anni, Daphne era appesa a un filo: il filo della sua famiglia, della morale conservatrice di quell’Italia ancora incatenata ai suoi anni ’50, il filo di sua madre.

Ma dalla finestra della sua stanza, nell’austero collegio danese, le fiamme di quell’incendio inarrestabile le s’innalzavano di fronte agli occhi sempre più alte.

E, spesso, riuscivano a superare il limite della finestra, invadendo la stanza. Succedeva nel momento preciso in cui Catherine tornava dalle sue fughe serali. Dalla finestra, nella penombra, Daphne scorgeva per primi i suoi capelli rossi, quelli che quotidianamente raccoglieva con cura in trecce, ogni sera tornavano sciolti, spettinati, sudati. E quando si avvicinava alla candela che Daphne le teneva accesa sul comodino, riusciva a vedere solo in parte le lentiggini sulla pelle diafana del suo viso, quelle che prima di scappare aveva coperto con cura col trucco.

Anche Catherine aveva solo dodici anni e anche lei era appesa al filo morale dei suoi genitori. Ma l’incendio al difuori sembrava divamparle dentro, cibando le fiamme della sua irrequietezza adolescenziale.

Di nascosto fumava, di nascosto beveva, di nascosto usciva la sera, scappando dalla finestra della stanza e, da lì, fuori dal collegio, nel mondo.

Led Zeppelin nel 1968 – Credits: web

La tentazione

Tutte le sere Daphne guardava Catherine uscire dopo aver fatto vincere i rimproveri che sua madre le faceva nella propria mente. Tutte le sere la aspettava sveglia, con quella candela accesa sul comodino per farsi raccontare ogni singolo istante di quello che aveva vissuto.

Ma non quella sera, non quella sera del 7 settembre 1968. “C’è una band che viene dall’Inghilterra”, le aveva detto Catherine, “fanno musica nuova, libera, dura”: hard rock, l’aveva definita. E i rimproveri di sua madre si erano fatti più lontani.

Daphne aveva solo dodici anni e la musica che conosceva era quella italiana che ascoltava sdraiata sul tappeto alla grande radio del salotto di casa, mentre sua madre stirava. Musica leggera, la chiamano: si era sempre chiesta il perché. E ora le parole di Catherine sembravano finalmente offrirle una risposta, promettendole il suo opposto.

Solo una notte”, le aveva ripetuto Catherine, “solo questa notte”.

E la voce di sua madre era sparita.

I Led Zeppelin durante il loro primo tour – Credits: web

La libertà

Era la sera del 7 settembre 1968 quando Daphne seguì la sua amica fuori dalla finestra. E, da lì, fuori dal collegio, nel mondo, fino a quel locale affollato di persone, fumo e rumore: fino a quella chitarra elettrica che la travolse con due semplici accordi, a quel basso che le riempì la gabbia toracica, a quel grido acuto che le inarcò la pelle, fino a quella rullata di batteria che fece esplodere la musica, incendiandole il cuore.

Ma dodici anni sono troppo pochi per riconoscere quella band, anche se nessuna età era abbastanza per farlo. Non quella sera, almeno. Perchè quel 7 settembre 1968 era anche il loro primo concerto.

Daphne aveva solo dodici anni quella sera in cui comprese per la prima volta cosa fosse la libertà. E lo fece grazie ai Led Zeppelin.

Robert Plant and Jimmy Page dei Led Zeppelin – Credits_ Laurance Ratner/WireImage)

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Alessio Tommasoli
Chiamatemi pure trentenne, giovane adulto, o millennial, se preferite. L'importante è che mi consideriate parte di una generazione di irriverenti, che dopo gli Oasis ha scoperto i Radiohead, di pigri, che dopo il Grande Lebowsky ha amato Non è un paese per vecchi. Ritenetemi pure parte di quella generazione che ha toccato per la prima volta la musica con gli 883, ma sappiate che ha anche pianto la morte di Battisti, De André, Gaber, Daniele, Dalla. Una generazione di irresponsabili e disillusi, cui è stato insegnato a sognare e che ha dovuto imparare da sé a sopportare il dolore dei sogni spezzati. Una generazione che, tuttavia, non può arrendersi, perché ancora non ha nulla, se non la forza più grande: saper ridere, di se stessa e del mondo assurdo in cui è gettata. Consideratemi un filosofo - nel senso prosaico del termine, dottore di ricerca e professore – che, immerso in questa generazione, cerca da sempre la via pratica del filosofare per prolungare ostinatamente quella risata, e non ha trovato di meglio che il cinema, la musica, l'arte per farlo. Forse perché, in realtà, non esiste niente, davvero niente  di meglio.

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