Finalmente questo 16 novembre uscirà nei nostri cinema il nuovo film di Ken Loach, The Old Oak. Presentato in anteprima lo scorso maggio in concorso al Festival di Cannes, il film è la summa poetica dell’opera del regista, un lascito di speranza e solidarietà che ha deciso di affidare all’intera umanità.
Il momento dell’incontro
In un’abbandonata località mineraria ormai in declino arrivano dei rifugiati siriani. L’incontro tra il gestore del pub “The Old Oak”, TJ Ballantyne (Dave Turner) e Yara (Ebla Mari), una giovane ragazza siriana, porterà, dopo aspre vicissitudini, alla rinascita della comunità sul piano umano e culturale.
Distillato della sua arte più diretta e attuale, il film mostra un’umanità ferita, lacerata, che però sceglie di intraprendere la via della solidarietà comune. Per Loach l’incontro tra i popoli comincia con la reciproca accettazione, fondamento di ogni relazione tra genti di diverse culture.
Da vero regista “operaio”, il maestro ritrae con immensa poesia un’umanità amalgamata, simile, che al momento dell’incontro ha sempre due possibilità: tirarsi contro i propri problemi e le proprie paure, o condividere tutto, gioie e dolori, affanni e celebrazioni, incertezze e vittorie.
A differenza di quei film che ostentano la miseria irriducibile e l’ineluttabilità del peggio o il buonismo scanzonato da fiaba, The Old Oak tratteggia una società contemporanea che stringe gelosamente quel poco che ancora possiede scegliendo però di condividerlo. La maturità completa del regista si avverte in questa volontà di non negare allo spettatore, e quindi al mondo, la speranza di un domani migliore, di un domani di accettazione, comprensione e fraternità.
Il segno della riflessione
Il film si compone di una serie di scene che sfumano sempre nel nero totale, un profondo secondo di puro nero. Con esso Loach ci dà la possibilità di riflettere su quanto abbiamo visto, di soppesare le parole dei protagonisti; non è un dito accusatorio, ma un vero e proprio momento di silenzio interiore. Il film non cerca il nostro pianto ma la coscienza e l’a nostra ‘attenzione. Quel 2016 iniziale non ci conforta, nessun passato è mai stato così tristemente attuale.
Loach inocula la speranza nella società e la fa germogliare: è il momento della festa conviviale che TJ e Yara creano per la comunità, quello che infonde nuova vita nel terreno dei rapporti. All’insegna della solidarietà umana, dell’aiuto reciproco, la comunità si dà un nuovo volto e una nuova anima.
E Loach pure ci mostra come questa anima sia fragile, apparentemente pronta a crollare di fronte alla fine del benessere, ma anche salda di fronte alle tragedie: anziché chiudere il film nel nichilismo fatale (come in Io, Daniel Blake, 2016), lo apre alla speranza, un sentimento che passa attraverso la gioia e il dolore, la festa e il lutto.
In breve
È nella casa delle possibilità che l’essere umano ha avuto occasione di dimostrarsi degno dei migliori aggettivi che possono descriverlo, ed è la soglia di quella casa che questo film varca.
Esistono molti più popoli sofferenti di quelli che vediamo nei nostri quartieri, e non dobbiamo pesare il nostro dolore o il loro per capire se esiste una ragione e se qualcuno la possiede, bisogna solo accettarsi reciprocamente all’insegna della solidarietà. Che poi è il messaggio di questo grande film.
Continuate a seguire su FRAMED per rimanere aggiornati/e sulle novità in sala. Siamo anche su Instagram, Facebook e Telegram!