L'ultima volta che siamo stati bambini Ph @Andrea-Miconi
L'ultima volta che siamo stati bambini Ph @Andrea-Miconi

L’ultima volta che siamo stati bambini, basato sull’omonimo romanzo di Fabio Bartolomei, è il film esordio alla regia di Claudio Bisio, in sala dal 12 ottobre e distribuito da Medusa Film.

L’attore e in questo caso regista, attraverso il film commemora il rastrellamento del ghetto di Roma, avvenuto nell’ottobre del 1943, racconta l’abominio dell’Olocausto, e lo fa attraverso gli occhi puri e inconsapevoli di quattro bambini, protagonisti dell’opera.

La trama

Roma, estate 1943. Quattro bambini giocano alla guerra mentre attorno esplodono le bombe, quelle vere. Italo (Alessio Di Domenico) è il ricco figlio del Federale, Cosimo (Vincenzo Sebastiani) ha il papà al confino e una fame atavica, Vanda (Carlotta De Leonardis) è orfana e credente, Riccardo (Lorenzo McGovern Zaini) viene da un’agiata famiglia ebrea. Sono diversi ma non lo sanno e tra loro nasce una grandissima amicizia. Per loro tutto è gioco, combattono in cortile una fantasiosa guerra fatta di missioni avventurose ed eroismi, poi però fanno patti “di sputo” e non “di sangue” per paura di tagliarsi.

Un giorno di ottobre il ragazzino ebreo viene portato via dai tedeschi insieme ad oltre mille persone del Ghetto. Grazie al padre Federale di Italo, i tre amici credono di sapere dov’è e, per onorare il loro patto d’amicizia, decidono di partire in segreto per convincere i tedeschi a liberare il loro amico. L’ennesima missione fantasiosa entra nella realtà, i tre bambini viaggiano soli in un’Italia sfinita dalla guerra, fra soldati, disertori, truppe di tedeschi occupanti, popolazioni provate e affamate. I tre bambini non sono del tutto soli, due adulti partono a cercarli per riportarli a casa: Agnese (Marianna Fontana), suora dell’orfanotrofio in cui vive Vanda, e Vittorio (Federico Cesari), fratello di Italo. Lei cristianamente odia la violenza e lui è un eroe di guerra fascista: sono diversi e, al contrario dei bambini, lo sanno benissimo infatti litigano tutto il tempo.

Il doppio viaggio dei bambini e degli adulti nell’Italia lacerata sarà incanto e terrore, poesia e privazioni, scoperta della vita e rischi di morte, fino al sorprendente finale.

Un viaggio tra fanciullezza e consapevolezza

Un esordio alla regia che convince, tanto. Una mano leggera, sottile che racconta la guerra attraverso lo sguardo puro dei bambini. Al “Bisio regista” si riconosce questo, la delicatezza nel narrare di atrocità e di morte senza il bisogno di farle vedere, una stupefacente abilità nel saper toccare i punti esatti dell’emotività e della commozione discernendo dalla violenza, che paradossalmente è uno degli elementi caratterizzanti del conflitto bellico.

La narrazione lavora sul contrasto delle emozioni, il riso, il pianto, l’ironia e il dolore, tutto alimentato esclusivamente dall’uso di immagini liete, grate, scevre dal livore e dal risentimento. In fondo, il mondo visto dagli occhi di un bambino, non è mai brutto e cattivo, e questo Bisio lo sa molto bene e lo racconta con altrettanta convinzione e potenza. I fanciulli vivono la guerra, ma non la fanno, sono coperti da quella splendida aurea di inconsapevolezza che li protegge dal male, dall’orrore e dalla realtà degli adulti.

L’ultima volta che siamo stati bambini adotta il genere del “road movie”, del viaggio fisico e introspettivo, in cui il tragitto è definito dalla ferrovia che da Roma dovrebbe condurre in Germania. Una storia che verte su un duplice binario, quello dei bambini, costretti a crescere in fretta per reggere il peso degli eventi, e quello di Vittorio e Agnese, gli adulti, che al contrario procedono spediti verso lo sprazzo impercettibile della spensieratezza del fanciullino, quello del Pascoli, che chiede impunemente di essere liberato dagli assetti convenzionali etici, politici e religiosi, manifestando pienamente l’istinto atavico e primordiale.

Il gioco, l’unico elemento di salvezza

Il regista milanese punta sul gioco, quel mezzo fruitore di meraviglie, che segna le linee guida per la salvezza. Una circostanza già proposta nel film La vita è bella di Roberto Benigni, in cui l’illusione e l’immaginazione si fanno intercapedini di luce nel bel mezzo dell’oscurità dell’orrore e della morte.

Il “gioco” è coefficiente essenziale per la poetica del regista, giocano i bambini, giocano gli adulti, lo fanno per tenere viva la speranza, per resistere, per sopportare al meglio la vita, ma la necessità di giocare richiede sempre una buona dose di serietà e mai di superficialità, altrimenti ci si può far male, molto male, e alle volte si può anche morire.

In breve

Un film esordio che convince grazie alla pacatezza e all’onestà. Una favola, soprattutto per grandi, che si adorna di tenerezza, senza trascendere mai nel pietismo e nel falso moralismo. Nonostante lo sfondo proponga un’Italia devastata, Claudio Bisio, dietro la macchina da presa, dona al pubblico un’opera gentile, aggraziata, e ci ricorda che l’immaginazione e la fantasia, sono l’unica arma possibile in grado di rivaleggiare la natura avversa degli uomini, quelli adulti.

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Annamaria Martinisi
Sono il risultato di un incastro perfetto tra la razionalità della Legge e la creatività del cinema e la letteratura. La mia seconda vita è iniziata dopo aver visto, per la prima volta, “Vertigo” di Hitchcock e dopo aver letto “Le avventure di Tom Sawyer” di Mark Twain. Mi nutro di conoscenza, tramite una costante curiosità verso qualunque cosa ed il miglior modo per condividerla con gli altri è la scrittura, l’unico strumento grazie al quale mi sento sempre nel posto giusto al momento giusto.

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