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Il 4 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia due diverse generazioni di speleologi accompagneranno sul red carpet il regista Michelangelo Frammartino, in concorso col suo terzo lungometraggio, Il buco. Film in cui si rievoca appunto la spedizione del 1961 che si spinse coraggiosamente ad esplorare l’Abisso del Bifurto, una grotta profonda quasi 700 metri.

Frammartino, già acclamato per film come Il dono (2003) e Le quattro volte (2010), sarà accompagnato dalla co-sceneggiatrice Giovanna Giuliani, dal direttore della fotografia Renato Berta e dagli speleologi che hanno preso parte al film. Accanto a loro, due protagonisti della spedizione di allora, Giuseppe De Matteis e Giulio Gècchele. Fu proprio quest’ultimo a ispirare l’idea del film a Frammartino, durante un campo speleologico cui avevano partecipato entrambi.

Un nuovo viaggio del regista e docente di cinema nella “sua” Calabria, raccontata con uno sguardo al confine tra finzione e documentario. Mettendo sullo stesso piano figure umane, animali ed elementi del paesaggio, rinunciando quasi totalmente ai dialoghi e alle musiche.

Una poetica che, stavolta, sceglie un particolare momento della nostra Storia e lo focalizza da un punto di vista inconsueto. Mettendosi alla prova anche dal punto di vista tecnico, essendo il film girato in gran parte nella vera grotta del Bifurto.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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