Ottant’anni e la capacità di assumersi ancora dei rischi, mettendosi in discussione, è ciò che è servito a Martin Scorsese per arrivare alla sintesi definitiva del suo cinema e al tempo stesso un nuovo inizio: Killers of the Flower Moon. L’occasione dell’anteprima mondiale, nonostante l’uscita in sala sia prevista in autunno, è il Festival di Cannes, con cui Scorsese ha un legame particolare a partire dalla presentazione in Quinzaine di Mean Streets e quella Palma d’oro del 1976 a Taxi Driver che (purtroppo) non si trasformò nell’Oscar a miglior film l’anno seguente.
Martin Scorsese a Cannes viene accolto da Maestro e cinefilo qual è, Fuori Concorso per sua stessa decisione, nonostante il posto in gara offerto da Thierry Frémaux. Killers of the Flower Moon sarebbe in ogni caso fuori misura per qualsiasi competizione.
Un’opera colossale, non solo per la durata (3 ore e 26 minuti, la versione proiettata al Festival) ma per il lavoro di ricerca, di ricostruzione storica, di scrittura e di messa in scena attraverso diversi generi, dal western al murder mystery fino procedural drama: un film che così com’è può diventare un manuale di teorie e tecniche del cinema.
Nel sangue, la Nascita di una nazione
Se si potesse tornare indietro nel tempo e scambiare The Birth of a Nation di D.W. Griffith con Killers of the Flower Moon cosa sarebbero oggi gli Stati Uniti? Forse un Paese molto più consapevole delle proprie contraddizioni e della violenza in cui affondano le sue radici.
L’idea che muove Martin Scorsese e il co-sceneggiatore Eric Roth è l’adattamento dell’omonimo libro di David Grann (2017), tradotto in italiano come Gli assassini della terra rossa, un thriller in forma di saggio giornalistico, non un vero e proprio romanzo, ispirato al massacro del popolo Osage tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Ciò che diventa Killers of the Flower Moon dopo anni di riscrittura e lo stop forzato durante il Covid, è una storia diversa, letta da un punto di vista inedito e costruito interamente da Scorsese e Roth, quello dei due protagonisti Leonardo DiCaprio e Lily Gladstone.
Il nucleo rimane identico: la Osage Nation, dopo la scoperta del petrolio nella sua terra, diventa la popolazione più ricca al mondo pro capite. L’oro nero attira numerosi lavoratori bianchi di bassa estrazione sociale che, attraverso matrimoni di interesse con le donne Osage, puntano a usufruire delle loro ricchezze. Per ottenerne i pieni diritti, tuttavia, orchestrano una serie di omicidi mirati a sterminare l’intera popolazione.
Il racconto di Grann si focalizza soprattutto sull’intervento dell’FBI che avviene quando lo sterminio raggiunge una tale portata da non poter essere più occultato. Scorsese e Roth, anche su suggerimento di DiCaprio, ne spostano il fuoco, modellando il film sui personaggi che nel libro hanno meno voce, ma che in realtà sono il centro dell’intera vicenda: gli Osage.
Mollie ed Ernest, il cuore della storia
Mollie Kyle Cobb (Lily Gladstone) ed Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) si innamorano a prima vista, dal momento in cui lei siede sul sedile posteriore dell’auto di lui, autista improvvisato. Molto più consapevole, sveglia e intelligente di Ernest, Mollie sa che dentro quell’innamoramento sincero c’è anche da parte dell’uomo un desiderio ancora più forte per la ricchezza e il denaro, ma lo accetta da subito. Lo mette in chiaro, così come delinea immediatamente i rapporti di forza all’interno della coppia. Ernest è l’uomo bianco, avido e saccheggiatore, ma è lei che sa come muoversi nella sua terra, fra la sua gente.
La lealtà di Ernest nei confronti di Mollie, anche quando macchiata da un tradimento che fino alla fine si nasconde e si giustifica dietro l’ottusità (e l’apparente ingenuità) dell’uomo, è ciò che crea l’anima del film: una storia d’amore profondo che spinge in avanti la narrazione pur viaggiando su un binario parallelo, come nel cinema hollywoodiano classico.
Leonardo DiCaprio – che inizialmente avrebbe dovuto interpretare l’agente FBI Tom White, sostituito poi da Jesse Plemons – si presta totalmente al ruolo. Si abbrutisce, non solo perché rinuncia alla sua bellezza costruendosi una maschera di rughe, ghigni e denti marci, ma perché accetta di sporcarsi metaforicamente e di assumere un ruolo ambiguo, con cui fino alla fine si fatica ad allinearsi. Dei sei personaggi interpretati per Scorsese, Ernest è quello più maturo, quello in cui DiCaprio rischia di più e, di conseguenza, vince di più, riuscendo a costruire un personaggio complesso e stratificato, per certi versi stupido e ingenuo, per altri scaltro e rapido, sia amorevole sia freddo, gentile e violento: un enigma.
Molto più lineare, invece, è il percorso della Mollie di Lily Gladstone. Coerente fino alla fine con la descrizione che King William Hale (Robert De Niro) dà degli Osage all’inizio. È una donna brillante, consapevole di sé, sicura di sé, silenziosa osservatrice, stoico punto di riferimento della sua gente. Il modo in cui Gladstone le dà corpo è destinato a essere ricordato a lungo (si spera anche attraverso una nomination agli Oscar), per la regalità, la forza e la decisione della donna che – in un film in cui DiCaprio e De Niro recitano di nuovo finalmente insieme dopo 30 anni – si prende tutta la scena.
Scorsese ne fa l’assoluta protagonista di Killers of the Flower Moon, l’elemento di sorpresa in un’opera che già si prospettava grande e che grazie a lei diventa perfetta.
King Hale, il ritorno di Robert De Niro
Se Lily Gladstone è la vera gemma di Killers of the Flower Moon e Leonardo DiCaprio trova il modo di ritagliarsi (e suggerire) un ruolo inedito in cui splendere, qual è il posto di Robert De Niro in questo film?
Scorsese inizia a lavorare alla sceneggiatura nello stesso anno in cui il libro di Grann viene pubblicato, il 2017. Molto prima dell’uscita di The Irishman (2019).
Killers of the Flower Moon dunque avrebbe dovuto essere in origine il progetto del ritorno della coppia Scorsese-De Niro dopo circa vent’anni, procrastinato e rimandato fino al post-pandemia.
Diventa quest’anno la decima collaborazione fra regista e attore, a cinquant’anni esatti da Mean Streets (1973), e dà al film qualcosa che nient’altro avrebbe potuto dare, un valore aggiunto che si infiltra tra le maglie della trama e che ne prescinde, ne vive al di fuori. È quella libertà che De Niro ha specialmente quando lavora con Scorsese e che gli permette di creare personaggi straordinari, oscuri, riprovevoli, a volte anche terrificanti ma mai rifiutati dal pubblico.
Dopo cinque decenni insieme, al tempo stesso, De Niro è così consapevole del punto in cui si trova, soprattutto in relazione a Scorsese, da poter essere l’unico attore in grado di alleggerire il tono del film, con battute intrise di un’ironia irresistibile con cui il suo King Hale si erge al di sopra del nipote Ernest, sottolineando così anche il rapporto di forza scelto da Scorsese per i suoi attori-feticcio.
De Niro, in altre parole, non è il vecchio sole che si lascia eclissare facilmente. Il suo King Hale è il burattinaio che controlla tutti i fili, il vero antagonista che si nasconde dietro una falsa cordialità. È il lupo pronto a sbranare chiunque, mentre Ernest, per quanto provi a contrastarlo, non ne ha la forza fino in fondo.
Così mentre DiCaprio insiste sul dramma morale del suo Ernest, la scelta tra l’amore e il denaro, De Niro non costruisce alcuna crisi interiore per il suo personaggio. Resta il crudele calcolatore che è fin dall’inizio, sta solo al pubblico scoprirlo, ritrovando così anche la grandezza di uno dei migliori attori di questo secolo (annacquata da ruoli non alla sua altezza almeno negli ultimi dieci anni).
Il film che Scorsese non ha mai fatto
Killers of the Flower Moon porta la firma riconoscibile di Martin Scorsese, ossia la presenza di tutti gli elementi classici del cinema tradizionale (inquadrature, movimenti di macchina, grammatica cinematografica) rielaborati però in forme e sequenze inedite, solo sue.
Continuano a esserci i ralenti – quello iniziale sugli Osage ricoperti di petrolio è pura meraviglia – e continuano a esserci le esplosioni inaspettate di violenza, seguite dalla macchina da presa come un occhio non troppo vicino né troppo lontano. Testimone, né coinvolto né indifferente.
Immancabili, anche per la formazione di Scorsese, sono le citazioni ai grandi film del passato, soprattutto i western, ma a sorprendere sono le numerose autocitazioni: dai riflessi di Mollie ed Ernest nello specchietto retrovisore, come in Taxi Driver, alla rivelazione della cospirazione contro gli Osage, che rispecchia quella della rapina in Goodfellas. Immagini e sequenze che hanno reso il cinema di Scorsese immortale riecheggiano qui per sua stessa volontà, come sussidiario della sua filmografia.
Eppure c’è ancora qualcosa che rende Killers of the Flower Moon il film che Scorsese non aveva ancora mai fatto. Nella sua lunga carriera, quella in cui – citando King Vidor – ha detto spesso di aver fatto un film “per se stesso e un film per loro”(per gli studios di Hollywood), anno dopo anno in cerca di approvazione, Scorsese ha esplorato diverse tipologie di cinema.
Ha parlato molto di se stesso e a se stesso, raccontando Little Italy e i suoi gangster, tanto nella finzione quanto nei documentari. Allargando lo sguardo oltre i confini di Lower Mahattan, ha raccontato spesso, in generale, la sua New York, popolata da un’umanità complessa e unica nel suo genere. Ha esplorato nel profondo il tema della religione, anche oltre i confini del suo cattolicesimo (Kundun ne è un noto esempio spesso dimenticato). Si è dedicato a tutto ciò che lo appassiona e lo coinvolge in prima persona, musica compresa, con numerosi film e documentari sui grandi artisti del Novecento, da Bob Dylan ai Rolling Stones.
Ciò che non aveva mai fatto prima di Killers of the Flower Moon era esporsi a tal punto per qualcosa che non lo riguarda così da vicino ma che lo coinvolge, politicamente, in quanto cittadino degli Stati Uniti.
Per la prima volta Scorsese si schiera in modo duro e lo fa contro una violenza antica, il sangue versato per fondare il suo stesso Paese. Sceglie di farlo stravolgendo una storia già scritta nel libro di Grann, dando voce agli Osage nella loro stessa lingua, che fa imparare anche a De Niro e DiCaprio. Sceglie di farlo mettendoci la faccia, recitando in camera le ultime battute del film, in un momento di meta-cinema straordinario, in cui chi racconta fa davvero i conti con ciò che racconta e chiede al pubblico di schierarsi a sua volta.
Per tanti può essere “solo un film”, ma Killers of the Flower Moon è un nuovo mito di fondazione degli Stati Uniti, consapevole questa volta della violenza che ne sta alla base. È la storia degli Osage, ma è la storia di ogni cittadino statunitense, raccontata dal vero punto di vista di chi ne è stato vittima e a cui Scorsese si è rivolto in prima persona prima di riscrivere interamente la sceneggiatura.
Un autore come lui, a questo punto della sua carriera e della sua vita, non aveva nemmeno bisogno di scoprire e abbracciare le politiche della rappresentazione, eppure ne ha capito ugualmente la vitale importanza. È questo che gli ha permesso di catturare in Killers of the Flower Moon lo spirito del tempo ed è questo che consegnerà il film all’elenco dei capolavori della storia del cinema.
Se questa è un’esagerazione, lo scoprirete solo a ottobre in sala (e poi su Apple TV+).