Antony Starr in una scena di

Si è da poco conclusa la seconda stagione di The Boys, la serie creata da Eric Kripke (dal fumetto omonimo di Garth Ennis e Darick Robertson), distribuita e co-prodotta da Amazon. Ed è un emblematico paradosso (cui per la verità il colosso di Jeff Bezos non è nuovo), visto che si tratta di una delle più crudeli e radicali satire dell’America e, più in generale, sullo strapotere delle multinazionali offerte dall’intrattenimento mainstream contemporaneo.

I nuovi episodi, pur con qualche occasionale forzatura e ridondanza, hanno confermato e approfondito le premesse della dirompente prima stagione. Dove gli eccessi (di violenza e non solo) e l’umorismo nerissimo erano (e sono) tra le principali caratteristiche di un affresco sui supereroi come potrebbero essere nel nostro mondo. Ovvero, qualcosa a metà tra nevrotiche (ma assai più pericolose) star dello show-business e sicari al servizio di una (onni?)potente azienda, la Vought. E dove le imprese (ben poco) eroiche (e non prive di vittime collaterali) sono funzionali ad alimentare la macchina del marketing, quando non più oscure manovre (geo)politiche.

Watchmen e altre perdite d’innocenza

Erin Moriarty in una scena di “The Boys”. Credits: web.

L’idea di base, a dire il vero, deve più di qualcosa al graphic novel Watchmen e ai suoi supereroi per niente eroici catapultati dall’idealismo dei fumetti classici alle coordinate assai più crudeli della realtà. Dove il mito era decostruito mostrandone le (inquietanti) implicazioni sociopolitiche, da un lato, e l’abisso (a)morale degli (anti)eroi sotto la maschera, dall’altro. Ciò che rende The Boys qualcosa di diverso e non meramente derivativo è però, anzitutto, il fatto che tutti questi elementi, trent’anni dopo il capolavoro di Alan Moore e Dave Gibbons, sono ormai dati per assunti.

Più che di decostruire il supereroe, allora, si tratta di aggiornare la decostruzione per farne l’allegoria del nuovo bersaglio. È il mondo degli anni Duemiladieci (e Duemilaventi), ancora più folle e brutale dell’ucronia di Dr. Manhattan & Co. Tenendo conto, in più, che tra Watchmen e The Boys si è affermato, nell’immaginario audiovisivo e non solo, il fenomeno dei cinecomics Marvel Studios e dintorni: ovvero, proprio il rilancio (fuori tempo massimo?) di un’idea più classica e “pura” di supereroe che diventa brand di successo planetario.

In questo senso, i personaggi di The Boys apparentemente più estranei allo spirito corrosivo della serie, ovvero Hughie (Jack Quaid) e la supereroina delusa Starlight (Erin Moriarty), ne costituiscono invece uno degli aspetti più significativi. Rappresentano proprio il punto di vista diviso, quasi schizofrenico, del fruitore (se non del “nerd”) di fronte a un ecosistema mediatico dove i supereroi (almeno al cinema) hanno solo apparentemente riacquistato l’innocenza perduta, per diventare in compenso il volto forse più emblematico dell’intrattenimento mainstream e delle derive che lo caratterizzano. Il dilemma di Hughie e Starlight, insomma, è se possa esistere davvero un “supereroe” nel 2020, alternativo sia al baraccone marketing-centrico dell’industria contemporanea sia al nichilismo iperviolento della (sur)realtà odierna.

Il (super)potere nella (social-)mediacrazia

Aya Cash in una scena di “The Boys”. Credits: web.

L’abilità maggiore della serie di Kripke & Co. (che ha saputo prendersi la giusta dose di autonomia anche dal fumetto di Ennis e Robertson) è comunque quella di riuscire a far transitare per l’allegoria del post-supereroe tutte le principali questioni e contraddizioni che hanno agitato gli USA (e il mondo) negli ultimi anni. Dal MeToo alle lobby religiose passando per il revanscismo trumpiano, di cui il personaggio di Patriota (Antony Starr) è una caricatura grottesca ma tremendamente calzante: anche (e soprattutto) nel suo essere tanto pericoloso quanto manipolabile dal vero burattinaio della serie (che ha il carisma luciferino di Giancarlo Esposito).

Ma soprattutto, nel ritratto (deformato) del presente offertoci dalla serie, conta la centralità della dimensione comunicativo-mediatica, vero terreno di scontro tra i brand (super)umani della Vought e i loro antieroici antagonisti (i “Boys”). Come tutte le principali svolte di quest’ultima stagione hanno ben evidenziato, il punto debole dei divi superforti, iperveloci, invulnerabili e altro ancora sono i like sui social, i punti di popolarità che aumentano o diminuiscono a seconda delle notizie del giorno, i meme favorevoli o ostili che circolano, e via così.

Una gerarchia invertita

Non che non ci sia una realtà molto (anche troppo) concreta oltre i media, in The Boys, dove peraltro il vero palazzo del potere è ormai quello della Vought (altro che tribunali e parlamenti, basti vedere l’episodio 2×07). Ma la gerarchia, proprio come nel nostro mondo, sembra essersi invertita: è la realtà a regolarsi in funzione della comunicazione mediatica, piuttosto che il contrario. E, attraverso un uso efficace della comunicazione, la realtà (anche storica), o per meglio dire la sua percezione, può essere manipolata a piacimento, come dimostra più di tutti il personaggio di Stormfront (Aya Cash).

Senza prendersi mai troppo sul serio, allora, The Boys mira a cogliere l’aspetto chiave (quello comunicativo) delle dinamiche politiche, sociali, economiche che segnano l’orizzonte odierno. Un orizzonte dove il potere è sempre più feroce, ma tanto più dipendente dall’arma a doppio taglio della sua stessa (auto)rappresentazione. E dove l’abbraccio tra distruzione e distrazione di massa si fa sempre più stretto e inestricabile.

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Emanuele Bucci
Gettato nel mondo (più precisamente a Roma, da cui non sono tuttora fuggito) nel 1992. Segnato in (fin troppo) tenera età dalla lettura di “Watchmen”, dall’ascolto di Gaber e dal cinema di gente come Lynch, De Palma e Petri, mi sono laureato in Letteratura Musica e Spettacolo (2014) e in Editoria e Scrittura (2018), con sommo sprezzo di ogni solida prospettiva occupazionale. Principali interessi: film (serie-tv comprese), letteratura (anche da modesto e molesto autore), distopie, allegorie, attivismo politico-culturale. Peggior vizio: leggere i prodotti artistici (quali che siano) alla luce del contesto sociale passato e presente, nella convinzione, per dirla con l’ultimo Pasolini, che «non c’è niente che non sia politica». Maggiore ossessione: l’opera di Pasolini, appunto.

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