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Visita a casa Scaldati, il “sarto” del teatro italiano

Franco Scaldati CREDITS Francesco Ferla
Franco Scaldati CREDITS Francesco Ferla
I primi di giugno l’immenso e inestimabile patrimonio culturale teatrale del drammaturgo e attore Franco Scaldati ha lasciato Palermo alla volta della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, dove verrà digitalizzato e valorizzato alla giusta maniera. Un’occasione persa per la Sicilia tutta.
Lo scorso agosto ho avuto la fortuna di visitare la casa del “sarto” del teatro italiano, di seguito il mio racconto.

Alle spalle di Corso Finocchiaro Aprile, nel cuore pulsante della città di Palermo, in una viuzza poco trafficata, si trova casa Scaldati. L’ultimo nido dove il drammaturgo ha lavorato, provato gli spettacoli con la sua compagnia e soprattutto vissuto con la sua famiglia prima di morire. Ed è proprio la sua famiglia ad accogliermi sulla porta di casa, la tenera moglie e i due figli, Giuseppe e Gabriele. Nello studio del padre, i due hanno raccolto tutti i materiali che sono riusciti a recuperare da diversi luoghi con l’idea di affidare l’immensa eredità fisica del drammaturgo a un ente che si occupi della digitalizzazione degli innumerevoli copioni, dattiloscritti, manoscritti, locandine, quaderni, appunti e “pizzini” di ogni genere.

Il recupero dei materiali

Durante i sette anni dalla scomparsa di Scaldati, i figli hanno compiuto un’impressionante opera di recupero, ancor prima che archiviazione dei testi, poiché il drammaturgo non custodiva tutti i suoi scritti nello studio, ma li lasciava spesso nei luoghi occasionali in cui organizzava prove, messe in scena, collaborazioni.

Gabriele e Giuseppe hanno catalogato i manoscritti e i dattiloscritti trovati e recuperati rispettando un ordine cronologico, laddove c’erano precise indicazioni, dividendo le opere per titolo in faldoni diversi che racchiudono le varie riscritture dei singoli testi.

Lo studio del “sarto”  

L’ultimo studio di Scaldati si apre su una lunga libreria a parete, biblioteca personale delle letture che i figli ci dicono essere le preferite del padre, dove si spazia da Dumas ai fumetti di Tex e Dylan Dog, a titoli vari di saggistica e romanzi gialli.

A sinistra un’altra libreria più piccola ospita i libri editi del drammaturgo e i testi che lo riguardano, di fianco un’intera parete è dedicata ai faldoni che rappresentano il vero e proprio archivio materiale e al centro troneggia la scrivania in legno su cui Scaldati ha lavorato gli ultimi anni della sua vita. In una vetrinetta è custodita la sua macchina da scrivere, i figli mi confidano che il foglio bianco inserito è l’ultimo messo lì dalle stesse mani del drammaturgo.

L’ultima macchina da scrivere di Franco Scaldati

L’artigianalità del fare teatro

Si percepisce una certa emozione stando nella “bottega” del “sarto” del teatro italiano, si sente molto l’atmosfera artigianale del fare teatro, l’umiltà del luogo e la quotidianità di cui si circondava durante il suo lavoro. Gabriele e Giuseppe mi spiegano che, non avendo mai avuto uno spazio proprio dove poter lavorare, lo studio di casa era anche la sede delle prove della compagnia, nelle lunghe serate di allestimento degli spettacoli.

Facendo capolino dalla porta la moglie aggiunge che la giornata tipo del marito era strutturata secondo un preciso criterio che seguiva puntigliosamente: dopo aver fatto colazione sfogliava i quotidiani alla scrivania e iniziava a scrivere. Si fermava solo per pranzare e tornava nello studio a scrivere fino a tardo pomeriggio, quando staccava per le prove degli spettacoli. All’apparenza burbero, nel ricordo dei cari Scaldati era un uomo buono, gentile, molto generoso con la famiglia e gli amici.

La scrittura perennemente in itinere

Scaldati aveva un amore infinito per l’artigianalità della scrittura: tornava incessantemente sui testi apportando correzioni, aggiungendo versi, tagliandone altri, fino a creare nuove e diverse riscritture integrali della stessa opera.

Questo particolare dato emerge forte dalla visione di alcuni dei faldoni, dove in mezzo alla pila di fogli è visibile a colpo d’occhio il segno del bianchetto che cambia le parole impresse sulla pagina, e la penna nera che aggiunge porzioni di testo ai dattiloscritti.

Esemplare il caso di Totò e Vicè, l’opera forse più conosciuta, portata in giro per l’Italia dagli attori Enzo Vetrano e Stefano Randisi, di cui ho potuto visionare varie versioni, catalogate in ordine cronologico.

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Estratto dai dattiloscritti di Totò e Vicè

Ma è arrivando ai manoscritti che la particolarità della metodologia di scrittura di Scaldati emerge in tutta la sua forza grafica. Sui quaderni scritti a mano il drammaturgo scatenava tutta la sua fantasia per così dire geometrica nel porre i versi sulla pagina, scritti con una grafia molto disegnata, precisa, ordinata, quasi impossibile da comprendere per la ridotta dimensione.

Soprattutto i quaderni dei primi anni risultano scritti con una grafia così minuta da sembrare quasi dei puntini in successione, il che potrebbe portare a supporre una capacità di memoria eidetica di Scaldati, ossia la visualizzazione mentale delle parole sulla pagina dopo una visione di pochi istanti, con grande nitidezza e precisione di memorizzazione.

Pagine scritte a mano da F. Scaldati

Un’altra ipotesi della ragione del particolarissimo metodo di scrittura per così dire “a puntini” del drammaturgo potrebbe essere invece quella di impedire in questo modo la lettura ai più, preservandola da occhi indiscreti. 

La compagnia Scaldati, di cui l’attore Melino Imparato è il presidente e il figlio maggiore Giuseppe Scaldati il vicepresidente, è tuttora attiva e continua a organizzare eventi, repliche degli spettacoli e a mantenere vivo il ricordo del drammaturgo incontrandosi immancabilmente ogni lunedì sera nello studio di casa Scaldati.

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Robert De Niro, talento e carattere di un grande interprete

Robert De Niro by Nathan Congleton su licenza CC BY-NC-SA 2.0

Robert De Niro ha recitato almeno in uno dei vostri film preferiti. È quasi un dato di fatto, considerando che dagli anni Sessanta a oggi ha preso parte a oltre cento film, alcuni dei quali veri e propri capolavori della storia del cinema. E non uso il termine a sproposito, parlo di Taxi Driver, Toro Scatenato, Il Padrino, Il cacciatore

Cinquant’anni di carriera di Robert De Niro

Figlio d’arte, padre e madre entrambi dediti a pittura e poesia, si dedica molto giovane alla recitazione, diventando uno degli allievi più noti di Lee Strasberg e Stella Adler. È quindi un attore del metodo Stanislavski, come spesso viene ricordato in occasione dei suoi ruoli più celebri: si immerge dentro le psicologie dei personaggi. Per Taxi Driver iniziò a parlare con marcato accento del Midwest e ottenne una vera licenza da tassista a New York. Per New York, New York, con Liza Minelli, imparò realmente a suonare il sassofono per apparire più credibile.

Ogni ruolo ha progressivamente arricchito l’immagine di Robert De Niro, nutrendosi al contempo della sua inconfondibile mimica, della sua gestualità, di un carattere innato e immutato. Da un certo punto di vista è impossibile separarlo dai grandi ruoli gangster pensati su misura per lui da Martin Scorsese. Da Jimmy di Quei bravi ragazzi all’ultimo Frank di The Irishman, passando attraverso, naturalmente, il ruolo del giovane Vito Corleone per Coppola o di Al Capone negli Intoccabili di De Palma. Eppure non è nemmeno difficile pensare De Niro in altri panni, dal comico al drammatico.

Mean Streets (Martin Scorsese, 1973) - CREDITS: web
Mean Streets (Martin Scorsese, 1973) – CREDITS: web

È così radicato nel nostro immaginario che a volte ci sorprende ritrovarlo in forme e modi inaspettati nel presente. È ciò che è successo a me, per esempio, guardando Joker di Todd Phillips. Il palese riferimento a Re per una notte o le numerosissime micro-citazioni di Taxi Driver mi sono esplose davanti agli occhi solo a film terminato, lasciandomi di fatto senza parole. Mi sono resa conto in quel momento, infatti, di come Travis Bickle si fosse trasformato nella mia mente in un archetipo, in cui avevo automaticamente (quindi senza rifletterci) incasellato anche il personaggio di Joaquin Phoenix.

Le prime volte di Robert De Niro

Mean Streets, il primo film di Scorsese in cui recita un Robert De Niro semi-sconosciuto è già il dodicesimo della sua carriera, nel 1973. Le prime apparizioni in assoluto – e di solito non accreditate – risalgono alla metà degli anni Sessanta, quando l’attore era tra le comparse di Tre camere a Manhattan (1965) e I giovani lupi (1968) di Marcel Carné. E nonostante sia già particolare il fatto che un allievo dell’Actors’ Studio abbia esordito con un affermato regista francese, la storia del debutto di De Niro è ancora più complessa.

È infatti Oggi sposi di Brian De Palma il film che segna il suo ingresso su un set. Il film, però, fu girato nel 1963 e distribuito solo nel 1969, persino dopo Ciao America! (1968), in cui De Niro ottiene la prima parte da co-protagonista. Fu però grazie a Mean Streets e alla sua memorabile interpretazione, che ottenne subito dopo la parte ne Il padrinoParte II, e il resto è storia.

De Niro in una scena di Oggi Sposi di Brian De Palma - CREDITS: IMDB.com
De Niro (destra) in una scena di Oggi Sposi di Brian De Palma – CREDITS: IMDB.com

Oltre la fama: teatro e regia

In cinquant’anni di carriera non si è dedicato, tuttavia, esclusivamente alla recitazione cinematografica. Pochi sanno, forse, che ha recitato a teatro per circa vent’anni, fino al 1986, senza raggiungere chiaramente la stessa fama ottenuta con i film. Come spesso accade nel mondo del cinema, ha inoltre provato a stare contemporaneamente davanti e dietro la macchina da presa, sperimentando la regia. La sua opera prima fu Bronx, nel 1993, un omaggio alle sue origini italoamericane e al filone gangster ad esse riconducibile. Il soggetto di questo crime drama, particolarmente apprezzato dalla critica, fu tratto da A Bronx Tale, celebre pièce teatrale di Chazz Palmintieri, che recita anche nel film con De Niro.

Il secondo e per il momento ultimo esperimento dietro la macchina da presa fu poi nel 2006 con The Good Sheperd – L’ombra del potere. I protagonisti sono senza dubbio Matt Damon e Angelina Jolie, ma De Niro non a rinuncia una piccola parte. L’idea iniziale riguardo questo progetto era quella di una trilogia. Si è parlato a lungo di un possibile sequel, o persino di un ripensamento del format in serie tv. De Niro avrebbe dovuto dirigerne il pilot ma sono anni che comunque tutto tace su questo fronte. Sarebbe comunque interessante vederlo cimentarsi in un ulteriore ambito dell’industria dello spettacolo e “sfidare” il colosso della serialità televisiva.

Altre frontiere del cinema per De Niro

Si può dire infatti che finora Robert De Niro abbia davvero fatto di tutto, persino il doppiatore. I seguaci più appassionati sapranno già, infatti, che è stato uno dei personaggi animati di Shark Tale, accanto a Martin Scorsese e Will Smith. In veste di doppiatore, inoltre, è legato a uno dei più grandi artisti italiani: è la voce di Massimo Troisi nella versione statunitense di Il postino. E se non lo sapevate scommetto che ora siete curiosi di vedere (e ascoltare) questa strana combinazione.

Infatti, nonostante in Italia siamo abituati, purtroppo, a sentire su di lui la voce di Ferruccio Amendola (o più recente) di Stefano De Sando, la vocalità, il timbro e l’espressività di Robert De Niro sono inconfondibili, parte essenziale e irripetibile del suo stesso talento.

De Niro, interprete del suo presente

Negli ultimi anni Robert De Niro è stato spesso criticato per aver accettato di partecipare a film mediocri. I cinefili puristi spesso non gli perdonano le commedie grottesche o gli action movie in cui in qualche modo scimmiotta se stesso. Probabilmente le critiche più aspre sono arrivate dopo Nonno scatenato (2016), che in effetti è un film delirante e volutamente stupido. È però anche un’estrema dichiarazione di libertà da parte del grande attore. Una dichiarazione che non arriva nemmeno all’improvviso. Nel tempo De Niro ha infatti ricercato ruoli leggeri, come a voler sgretolare l’immagine ieratica di sé che i capolavori del passato gli avevano conferito.

Oggi i grandi film di cui è stato protagonista ci sembrano quasi dei monumenti, opere intoccabili e maestose, pensate per lasciare un segno nella storia del cinema. Ma non è propriamente così. De Niro nasce artisticamente insieme alla New Hollywood, insieme ai “movie brats”, i ragazzacci che rivoluzionano il cinema classico degli studios. De Palma, Scorsese e Coppola lo scelgono come volto del loro nuovo cinema, ricordandoci che De Niro ha sempre recitato nello spirito del (suo) presente, non in vista dell’immortalità. E ancora oggi fa lo stesso, anche se con il peso della sua grande carriera alle spalle.

Da Cape Fear a oggi

Robert De Niro in Cape Fear - Il promontorio della paura (Scorsese, 1991) - CREDITS: IMDB.com
Robert De Niro in Cape Fear – Il promontorio della paura (Scorsese, 1991) – CREDITS: IMDB.com

Dopo Cape Fear – Il promontorio della paura (1991) Robert De Niro fu quasi dimenticato dalla critica per vent’anni. Eppure ha continuato a recitare ininterrottamente. La sua carriera è stata in certo senso spezzata in due, per ragioni contingenti. Il talento di De Niro infatti rimane immutato, ciò che cambia sono solo i contesti e soprattutto i registi. Una nuova fase della sua carriera, almeno per la critica, si è aperta tra il 2012 e il 2013, con il ruolo di Pat Solitano Senior ne Il lato positivo di David O. Russell. Nelle vesti un po’ bizzarre di padre di famiglia De Niro ottiene infatti la prima (e ultima) nomination agli Oscar dopo ben ventun anni, se si esclude quella come produttore per The Irishman.

Conoscendo a fondo il mondo del cinema, infatti, De Niro nel tempo si è dedicato anche a progetti più impegnativi, dal punto di vista della produzione e del circuito dei festival. Negli anni è diventato sempre più prestigioso, per esempio, il TriBeCa Film Festival, da lui fondato dopo l’11 settembre 2001 per far rinascere la comunità intorno alle zone di Manhattan colpite dalla tragedia.

Dopo Amsterdam, sempre di David O. Russell e pochi altri titoli, una nuova grande occasione per vederlo sul grande schermo è Killers of the Flower Moon, il film di Martin Scorsese presentato a Cannes lo scorso maggio 2023.

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“Summertime”, prima e piccola scommessa internazionale di Netflix Italia

Summertime, Netflix - CREDITS: Stefania Rosini/Netflix

Lo ammetto, Netflix Italia non mi ha ancora conquistata. Baby è intollerabile già dal concept, La luna nera ha deluso ogni possibile aspettativa, Skam non è che un adattamento. L’ultima mia speranza era Curon, ma magari di quello parleremo un’altra volta. Su questa scia avevo volontariamente tralasciato il teen drama adattato da Tre metri sopra il cielo. Parlo naturalmente di Summertime e, benché non abbia ancora capito per quale motivo dissotterri la storia di Moccia, devo dire che ha almeno oltrepassato le mie aspettative.

Come Summertime costruisce il suo appeal

Summertime è chiaramente una storia per ragazzi, un racconto del primo amore, delle prime cotte, delle avventure estive. Qualcosa che tutti prima o poi abbiamo vissuto e a cui, generalmente, associamo bei ricordi, di spensieratezza e tenerezza. È un aspetto da non sottovalutare, perché tocca subito le corde dell’emotività. Aggiungiamo poi una splendida fotografia da videoclip, protagonisti molto instagrammabili, una playlist aggiornatissima di indie e trap ed è fatta. La formula magica acchiappa-millennials è pronta!

Nell’insieme funziona tutto anche se niente è perfetto. Summertime trova il suo equilibrio fra i temi cari ai teenager e gli archetipi delle commedie romantiche e semplicemente piace così. Infatti è stata rinnovata per una seconda stagione già un mese dopo il lancio. Fra i suoi pregi c’è sicuramente il tentativo di svecchiare la fiction italiana. 

Si riconosce una precisa scelta estetica e ideologica che rifiuta la retorica intorno all’omosessualità e alla multiculturalità.  Sofia è lesbica, Summer è nera, sono dati di fatto che influenzano in minima parte la trama, “normalizzando” personaggi che siamo abituati a ingabbiare in fastidiosi stereotipi. Ciò non toglie che sarebbe stato preferibile un maggiore approfondimento psicologico, soprattutto per quel che riguarda Summer e una parte consistente della sua identità.

Summertime, Netflix - CREDITS: web
Summertime, Netflix – CREDITS: web

Tanti difetti in una bella confezione

A dire il vero questa superficialità psicologica si riscontra in molti altri personaggi, creando una serie di effetti a cascata. Primo fra questi è la risoluzione frettolosa delle storyline che risultano incomplete o prive di uno sviluppo lineare. Una seconda conseguenza è la recitazione fuori misura, troppo intensa o troppo piatta. Probabilmente è un problema di inesperienza dei giovani attori (a eccezione di Andrea Lattanzi, un talento che tengo d’occhio già da Manuel). O si potrebbe azzardare anche a dire che sia un problema di regia. 

A volte la direzione sembra infatti debole, poco attenta agli scambi meccanici di battute e troppo innamorata dei primi piani muti, da copertina. A questo si aggiunge il mix caotico di cadenze regionali, strascicate e marcate, che può risultare fastidioso. Non tanto in sé ma perché nel tentativo di restituire una presunta immediatezza della quotidianità finisce, invece, per appesantire il tutto. 

Nel complesso, tuttavia, non si tratta di questioni irrisolvibili. Summertime ha anzi un buon margine di miglioramento da sfruttare al massimo sul piano internazionale. Bisogna forse scommetterci un po’ di più, creare dinamiche e personaggi più credibili. Una volta constatato l’interesse del pubblico, è il caso di riempire questa bella confezione con sceneggiature solide e dialoghi più realistici. Se riuscirò a guardare la seconda stagione senza alzare gli occhi al cielo quando gli adolescenti parlano fra loro, il risultato sarà già più che ottimo.

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Lovecraft Country, la nuova serie horror HBO

Lovecraft Country, HBO - CREDITS: web

Arriva oggi sugli schermi statunitensi la nuova serie prodotta da Jordan Peele, Lovecraft Country. Come molti film della Monkeypaw Productions (Scappa – Get Out, Noi) anche quest’ultimo lavoro firmato da Misha Green, coniuga gli stilemi dell’horror alle più urgenti questioni sociali.

La serie si basa infatti sull’omonimo romanzo di Matt Ruff (2016) che racconta il segregazionismo statunitense e l’era del Jim Crow attraverso i mostri dell’immaginario del celebre H.P. Lovecraft. Nella forma di un road trip, i dieci episodi raccontano il viaggio dei tre protagonisti attraverso gli Stati Uniti, che presto si trasforma in una lotta alla sopravvivenza.

L’idea centrale è quella di una doppia minaccia: quella sovrannaturale delle creature di Lovecraft e quella fin troppo umana della segregazione. Da un lato i personaggi fuggono da mostri terrificanti, dall’altro si difendono dalla paura e dagli attacchi dell’America bianca e razzista.

Il genere horror si presta particolarmente a progetti di questo tipo, che intendono portare nel dibattito collettivo questioni sociali urgenti. Attraverso la rappresentazione allegorica e mostruosa delle paure sociali, infatti, danno forma a un vero e proprio filone stilistico. È una tendenza che in realtà esiste da La notte dei morti viventi di Romero, ma che negli ultimi anni si è rinnovata per parlare appositamente delle tensioni civili negli Stati Uniti.

Dalle prime immagini sembra già una serie che non abbiamo intenzione di lasciarci sfuggire. Non solo per l’incantevole estetica anni ’50, ma soprattutto per capire se l’effetto-Peele riesce anche nel format seriale.

https://www.youtube.com/watch?v=dvamPJp17Ds
Trailer HBO di Lovecraft Country

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We Are Who We Are di Luca Guadagnino

We Are Who We Are - Sky, HBO
We Are Who We Are - Luca Guadagnino, Sky-HBO

Probabilmente We Are Who We Are è una delle serie più attese dell’autunno 2020, diretta da Luca Guadagnino e prodotta da Sky e Hbo. Arriverà in Italia il 9 ottobre su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv.

Il regista torna a raccontare l’adolescenza e la complicata affermazione della propria identità, attraverso la sessualità e i rapporti conflittuali con la famiglia. Dopo Call Me by Your Name, Guadagnino ritrae con la stessa intensità realtà codificate in cui rivela scorci eterei di sospensione delle regole, vissuti come capitoli poetici di una tappa imprescindibile della vita.

In questo caso a sovrapporsi sono le esperienze di Fraser (Jack Dylan Grazer) e Caitlin (Jordan Kristine Seamón), due adolescenti americani, entrambi figli di militari, destinati a crescere in una base militare in Italia. Lui introverso quattordicenne figlio di una coppia omosessuale (Chloë Sevigny e Alice Braga), lei problematica e audace, molto legata al padre.

La serie, in tutto 8 episodi, è scritta dallo stesso Guadagnino insieme allo scrittore Paolo Giordano (La solitudine dei numeri primi, 2008) e la sceneggiatrice Francesca Manieri (Vergine giurata, Il primo re). Fa inoltre parte della selezione ufficiale della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2020.

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“I may destroy you” è la serie dell’anno?

Michaela Coel, I May Destroy You - CREDITS: web

In Italia è ancora inedita, ma I May Destroy You ha già fatto breccia nel cuore di chiunque sia riuscito a vederla in anteprima. Rilasciata a giugno negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, costituisce a livello produttivo anche una grande collaborazione tra HBO e BBC. Autrice, sceneggiatrice e co-regista è Michaela Coel, già nota per la serie comico-grottesca Chewing Gum, da lei creata per Netflix.

In questa seconda serie Coel cambia decisamente tono, raccontando il trauma personale di una violenza e il lungo processo di elaborazione. I tratti comici non mancano, ma si tratta di un umorismo necessariamente più cupo e in linea con la drammaticità della trama. Non vogliamo ancora spoilerare troppo, in attesa di una data italiana, ma intanto proponiamo i due diversissimi trailer per il pubblico statunitense (HBO) e quello inglese (BBC).

I May Destroy You, il trailer HBO

È evidente che la versione HBO punti a spiegare il contenuto e l’evoluzione dei 12 episodi, presentando in maniera piuttosto lineare sia i personaggi sia gli eventi. Il trailer inglese, invece, mira a evocare lo stato d’animo della protagonista, la confusione, la perdita del controllo sulla propria vita. Come spiega Michaela Coel alla BBC, infatti: «La serie ruota attorno a quel momento in cui ti è stato rubato il consenso e hai perso il potere di prendere una decisione. Puntarsi il dito contro e incolpare se stessi è la cosa più inutile» .

I May Destroy You, trailer BBC

I May Destroy You, un necessario passaparola

Sembra strano ma ancora in Italia se ne parla relativamente poco, anche se I May Destroy You è già considerata uno dei prodotti migliori dell’anno. Proprio perché nata dall’esperienza della stessa autrice e interprete, affronta temi delicati e caldi senza cadere nella trappola di facili stereotipi. Ogni personaggio è complesso, al di là delle azioni che compie o che subisce: non si parla solo di vittime e carnefici.

Ha le carte in regola per diventare il caso della stagione e noi spargiamo la voce, nella speranza che I May Destroy You trovi un pubblico reattivo e preparato ad accogliere una serie che riserva sorprese stilistiche e un carico emotivo non indifferente. Presto, si spera visto il successo già registrato, arriverà la data italiana.

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Le avventure di Bridget Jones fra libri e film cult. Il perché di un successo mondiale

Il diario di Bridget Jones - CREDITS: web

Quarantena per me ha fatto coppia fissa con Recupero, inteso come pratica giornaliera e finalmente dilatata nel tempo (non avendo molte altre incombenze) per dedicare spazio, fisico e mentale, a tutti quei libri e film persi, visti distrattamente, incontrati durante una fase della vita sbagliata o, come nel caso del tema di questo articolo, amati profondamente e rispolverati in questo presente storico (che in realtà è già passato, se pensiamo ad alcuni mesi fa) così eccezionale quanto sul filo di un equilibrio instabile.

Complice la programmazione “maggiolina” del mercoledì di La5, mi sono imbattuta, con tutta una serie di feels non indifferenti, nella bionda e cicciottella eroina delle girls degli anni 90/primi 00. Immensamente british, straordinariamente simpatica, frizzante e molto piccante. Sto parlando dell’iconica Miss Bridget Jones.

Locandina originale di “Bridget Jones’s diary” CREDITS: web

Conosciuta dai più grazie alle pellicole che l’hanno consacrata al grande schermo con il viso di Renée Zellweger, forse tutti non sanno che il “fenomeno” Bridget Jones nasce dalle pagine dei romanzi della giornalista inglese Helen Fielding, facenti parte ancor prima di una rubrica fissa su The Indipendent e The Daily Telegraph. La stessa madre di Bridget ha collaborato alla sceneggiatura dei tre film tratti, seppur parzialmente, dai suoi libri, contribuendo a farne un successo mondiale.

La nascita del fenomeno Bridget Jones

Partiamo da un po’ di numeri e date significative. Considerato il successo della rubrica della Fielding, nel 1995 esce il primo romanzo Il diario di Bridget Jones, che in pochi anni viene tradotto in sette lingue, diventando un best sellers da oltre 10 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Quattro anni dopo l’autrice prosegue la saga dando alla luce il sequel Che pasticcio, Bridget Jones! Allo scoccare del nuovo millennio, il cinema si accorge dell’incredibile successo letterario e così, arriva la commedia tutta britannica diretta da Sharon Maguire, con la quale la Zellweger guadagnerà anche una nomination agli Oscar del 2002.

Il film riscuote un enorme successo di pubblico, arrivando ad incassare oltre 180 milioni di dollari, a fronte del budget iniziale di soli 26 milioni. Ad affiancare l’attrice un cast d’eccezione: da un lato il tenebroso e affascinante Colin Firth, dall’altra lo spregiudicato e sexy Hugh Grant. Il fortunato trio si ritroverà pochi anni dopo anche nel secondo capitolo cinematografico, dando vita a nuove avventure e triangoli amorosi tratti dal secondo romanzo. È a questo punto che le sorti letterarie/cinematografiche della saga si dividono.

La Fielding aspetterà ben quattordici anni per “partorire” un terzo romanzo, Bridget Jones. Un amore di ragazzo, il quale non sarà mai adattato per lo schermo. Nel 2016 però, quasi a sorpresa, arriva nelle sale cinematografiche Bridget Jones’s baby, tratto dal quarto libro della saga, che fa un passo indietro di tredici anni rispetto al terzo libro, narrativamente parlando. Insomma, le sorti della single pasticciona più amata della Gran Bretagna si fanno sempre più complesse e frammentate, e ci sono addirittura voci su un quarto film, rumors ad oggi non confermati.

Tutti pazzi per Bridget Jones!

Ma qual è il segreto del successo planetario e crossmediale fra letteratura e cinema di Bridget Jones? Innanzitutto la single più amata del mondo è un modello di girl power, concetto molto in voga negli anni ’90 e che oggi sta nuovamente tornando in auge.

La modalità narrativa con la quale Bridget decide di raccontare la sua vita, analizzando pro e contro di ogni situazione, stilando infinite to do/not to do list che puntualmente tradirà, scervellandosi sui significati reconditi delle relazioni con l’altro sesso, è il diario. Fedele compagno di ogni ragazza che sia cresciuta in un periodo ancora libero da smartphone, social network, world wide web e via scorrendo, il diario accompagna la vita di Bridget come un fedele amico, forse l’unico che le resta vicino senza remore in una società che, in fondo, ha paura della solitudine, teme di ritrovarsi al buio e di guardarsi allo specchio in una notte di luna piena.

Il morbo della “singletudine” che affligge la povera Bridget, sempre alle prese con il girovita e le calorie ingerite durante il giorno, non è altro che l’ansia da prestazione che ci infligge in qualche modo il nostro tempo, scandito da tappe quasi obbligate nella vita di ogni donna: laurea, carriera, matrimonio, figli. Simbolica e quasi catartica allora risulta la scena del secondo film in cui Bridget, guardando fuori dalla finestra, sola a casa, vede illuminarsi a macchia d’olio le finestre di altre case popolate da famiglie e coppie felici, sulle note di una struggente versione di Sorry seems to be the hardest word.

Colin Firth, Renée Zellweger e Hugh Grant, Il diario di Bridget Jones -CREDITS: web
Colin Firth, Renée Zellweger e Hugh Grant, Il diario di Bridget Jones -CREDITS: web

Fra avventure sentimentali e british humour

Ma via la tristezza! Le vicende di Bridget fra libri e film raccontano anche, e soprattutto, gli esilaranti e a tratti imbarazzanti e al limite dell’irreale rapporti con i due uomini della sua vita, coloro che la accompagneranno (nel bene e nel male) attraverso quasi l’intera parabola narrativa (ad eccezione del terzo capitolo cinematografico in cui spunta l’omonimo Dottor Stranamore di Grey’s Anatomy, il bellissimo Patrick Dempsey).

Daniel Cleaver e Mark Darcy: uno l’opposto dell’altro. Bello e dannato il primo, sempre alla ricerca di nuove avventure, lavorative e sentimentali, un moderno Don Giovanni audace e sicuro di sé, ma anche molto divertente. Serio e apparentemente ingessato il secondo, impegnato avvocato specializzato in diritti civili, è colui che Bridget sceglierà come compagno per la vita (non consideratelo uno spoiler, stiamo parlando di una saga abbastanza “vintage”). Incorniciano il mondo colorato e disordinato di Bridget gli inseparabili amici, uno zoo di esemplari più unici che rari: la dolce Jude, fissata con i manuali zen e di auto aiuto tipo Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere, sempre alle prese con qualche relazione sbagliata, la femminista Shazzer, “cazzuta” e risoluta nel considerare gli uomini come una specie a parte, e l’eclettico Tom, omosessuale e un tantino fuori le righe, al limite del nevrotico.

Bridget è poi, e non è un dato di poca importanza, una donna inglese. Soprattutto i libri, sono conditi, anzi positivamente infarciti, di quel sottile e adorabile humour che restituisce al lettore l’atmosfera british tanto cara a chi ama l’Inghilterra, e soprattutto la London Calling dei The Clash, divenuta il simbolo degli amanti della fumosa e incantevole città sul Tamigi. Dalle considerazioni sulle condizioni atmosferiche, in cui l’estate è “garantita” forse (e nemmeno) solo un giorno o due ad agosto, durante i quali i londinesi non sanno bene che fare nel timore che ritorni la pioggia, passando per la passione sfrenata per i completi di tweed della madre di Bridget (interpretata magistralmente sul grande schermo da Gemma Jones), arrivando alla formalità apparente che contraddistingue le feste di Natale o Pasqua, durante le quali basta un niente per far emergere misunderstanding o improvvisi litigi fra gli astanti.

Il girl power che ci piace

La narrazione del fenomeno letterario Bridget Jones ricopre circa vent’anni della vita della protagonista, e leggendo i libri in successione e volendo fare un discorso ampio, non si può fare a meno di pensare che essi siano uno spaccato dei cambiamenti epocali che ha vissuto la nostra società negli ultimi due decenni. Non solo in merito all’accettazione del singolo e se vogliamo del diverso (declinato in tutte le sue accezioni), della sua realizzazione personale, professionale e affettiva, ma anche del cambiamento delle relazioni e dei rapporti interpersonali, sempre più mediati da uno schermo, da un account o da un filtro Instagram.

Saper prendere il meglio dal presente senza preoccuparsi più del necessario sul come e sul se: questo è uno degli insegnamenti di Bridget Jones, iconica eroina di coloro nate e cresciute a cavallo fra i due millenni, immensamente incasinati, irrimediabilmente concatenati e distanti anni luce allo stesso tempo.

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Proibizionismo a tempo di Covid e bolero

Cover Tuyo, Rodrigo Amarante, Narcos - CREDITS: web

Vai in vacanza durante l’estate del Covid e sei subito dentro Narcos.

Non immaginatevi Medellin, la Colombia o le palme esotiche: sono in Albania. La Nazione che fino a qualche mese fa vantava numeri di contagio da far invidia a un’Italia al picco della pandemia. La nazione che, prima di qualsiasi altra, ha evitato la diffusione attuando lo stesso lockdown totale che attuava un’Italia già in ginocchio, mentre gli altri paesi ancora ridevano. La stessa nazione che ci ha mandato aiuti e una flotta di medici specializzati da impiegare negli ospedali Covid.

Una nazione che oggi ha riaperto tutto e che, come molte, è dovuta tornare a chiudere, nei limiti concessi dal pericolo di un crollo economico. Chiudere i bar, fulcro fondamentale dell’economia albanese, dopo le otto di sera: questo è il nuovo, lieve, lockdown.
Ma la cultura albanese è troppo simile a quella italiana per non trovare in un divieto l’idea geniale che lo aggiri. Ecco allora che i bar, dopo le otto della sera, spengono la musica.

Il Proibizionismo del XXI secolo

Ma siamo al mare, sulla spiaggia, la luna piena, le stelle, i fuochi accesi sulla sabbia, i cocktail in mano e i cuscini sotto la schiena: si può davvero rinunciare alla musica? Cellulari e amplificatori wireless: benedetto (e beato) chi li ha inventati. Il cameriere del bar, tra un cocktail e una birra consegnate agli assetati, getta un occhio alla strada, qualche metro indietro, alla ricerca delle luci lampeggianti blu della polizia.
In realtà, non sappiamo bene cosa dovremmo fare se comparissero all’orizzonte. Non sappiamo se basti spegnere la musica, oppure sia necessario alzarsi di scatto e dileguarsi, come nella mitica epoca del Proibizionismo.
Niente di tutto questo, perché i bassi profondi degli amplificatori sembrano andare al ritmo delle fiamme che ardono illuminando l’alcol nei bicchieri e liberando un fumo misterioso che si solleva verso il cielo notturno, come a voler raggiungere la luna.

Tuyo, titoli di testa Narcos – CREDITS: Netflix

Un bolero sulla spiaggia

È allora che le note sinuose del bolero di Rodrigo Amarante iniziano a danzare seguendo le lievi increspature brillanti del mare: il Tuyo di Narcos, quel pezzo talmente bello che ti ha sempre impedito di spingere il tasto “skip” all’inizio di ogni nuova puntata.
Ed ecco, nella realtà della vita, il gioco perfetto della sceneggiatura di Narcos: l’attrazione e la repulsione, l’immedesimazione e la condanna morale verso il re dei narcotrafficanti.
Di fronte a quel fuoco, col cocktail in mano, sdraiato su un cuscino sulla sabbia, sotto un tetto di stelle e il palcoscenico del mare, Pablo Escobar è un eroe perseguitato dalla morale protestante e capitalistica degli Stati Uniti.
Mentre le ultime note della chitarra di Tuyo si dilatano senza che nessuno abbia il coraggio di interromperle, il volto del cameriere si illumina improvvisamente di una luce blu.
Mancava una manciata di note è sarebbe finito come doveva quel meraviglioso bolero sulla spiaggia notturna. Ma forse, in fondo, è giusto così. Ucciso Escobar, giustizia è fatta: spenta la musica, il lockdown è rispettato.

Una bella serata, comunque sia andata

Mentre ci dileguiamo dalla spiaggia, qualcuno ammette che, comunque sia finita, è stata una bella serata.
Qualcun altro gli risponde con un vecchio detto albanese: a che serve la bellezza se sulla neve bianca poi ci cacano i cani?

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“#BlackAF”, tra mockumentary e ironia del quotidiano

#BlackAF Netflix - photo credit: web

Probabilmente Black as Fuck (o #blackAF) è una di quelle serie che, almeno qui in Italia, spariscono nel calderone del catalogo Netflix. Proprio per questo, però, è arrivato il momento di parlarne, poiché di tratta di una delle idee più divertenti viste in circolazione di recente, un modo alternativo per raccontare la black culture. 

L’idea dietro Black as Fuck

Showrunner e creatore di Black-ish, Kenya Barris mette in scena episodi e discorsi della sua quotidianità attraverso un esilarante mockumentary (un falso documentario). A parte Barris stesso, i ruoli della moglie e dei sei figli sono interpretati da attori professionisti, ma caratteri, personalità e dinamiche corrispondono perfettamente. Per averne conferma, ho sbirciato i vari profili Instagram dei Barris, ritrovando molto di ciò che viene raccontato.

Dietro la macchina da presa c’è la secondogenita Drea (Leyah, nella realtà), futura matricola di una prestigiosa Film School. Drea riprende la quotidianità di casa Barris con una troupe evidentemente esagerata e insistentemente voluta dal padre. Fin da subito sono chiari i toni parossistici e autoironici. Dietro l’umorismo, tuttavia, si nascondono questioni reali e urgenti, abitudini e traumi che hanno in comune sempre lo stesso denominatore: la schiavitù.

Uno stile inconfondibile

Come si nota dal sarcasmo dei titoli di ciascun episodio, la schiavitù è l’argomento ricorrente di ogni nucleo tematico nella serie. Spesso è la soluzione ultima a cui Barris fa riferimento per spiegare le ragioni profonde della black culture: ciò con cui è necessario fare ancora i conti.

Iman Benson (Drea) in una scena di #BlackAF - CREDITS: web
Iman Benson (Drea) in una scena di #BlackAF – CREDITS: web

In molte occasioni, sulle parole di Kenya spesso si sovrappongono frammenti di clip, fotografie o immagini di repertorio che racchiudono gli interventi più “didascalici”. In questi momenti il mockumentary abbandona la commedia e si fa vero e proprio documentario. Dà voce a questioni sociologiche e antropologiche e contemporaneamente dà spazio a nomi, volti e artisti della black community.

Tra risate e “spiegoni”: il vestito della domenica…

Nel primo caso viene subito in mente, tra tanti esempi, il discorso di Kenya riguardo le apparenze, ossia l’intera cultura estetica afroamericana discussa nella prima puntata. Sin dai tempi delle piantagioni, le buone apparenze portavano all’accettazione. I padroni vestivano gli schiavi a festa per andare in chiesa e l’idea del “vestito della domenica” nel tempo si è trasformata. È diventata l’ossessione del raggiungimento di uno standard per lo sguardo bianco, un concetto deviato di “bell’aspetto”, basato sui canoni caucasici.

È qualcosa che ti cambia il DNA, dice Barris, qualcosa che ti fa credere di non essere mai abbastanza. Ma dalla consapevolezza nasce anche il ribaltamento. Per questo motivo dagli anni ‘70 in poi avviene un processo di riappropriazione dell’immagine popolare, attraverso la valorizzazione dell’estetica afro. Dal funky all’hip hop, nel tempo si è creato un intero universo della moda e del costume black, riflesso ancora oggi anche nel linguaggio: swaggy, gucci, fresh, fly…

…e il Juneteenth, naturalmente

L’altro caso su cui vale la pena soffermarsi è l’attenzione riservata agli artisti, ai nomi, alle voci di questa cultura. Non mi riferisco solo al cameo di Issa Rae, Ava DuVernay o Lena Waithe. L’esempio più significativo è quello rappresentato dall’intero terzo episodio, non a caso dedicato al Juneteenth. In Italia non sappiamo praticamente nulla di questa festa afroamericana che commemora la fine della schiavitù dal 19 giugno 1865.

Questo episodio, tuttavia, riesce a spiegarne perfettamente lo spirito. Inoltre ospita come guest star l’artista Knowledge Bennett e una sua opera concettuale, da lui stesso spiegata negli ultimi minuti. Nello tempo di un solo episodio vediamo Marvin Gaye cantare l’inno statunitense, un pittore presentare la sua arte e Barris con la maglia di Kaepernick (celebre giocatore NFL, esonerato per aver protestato durante l’inno nazionale). Tutto mentre un’intera comunità festeggia una festa di indipendenza di cui – probabilmente – non avevamo idea. 

Fermarsi ad ascoltare per capire

E questi sono solo due esempi. La verità è che io ho riempito cinque pagine di appunti cercando di stare dietro a tutto quello che viene detto nella serie. Con pazienza ho deciso di mettere in pausa ogni volta che un nome o un fatto non mi era chiaro, facendo ricerche prima di andare avanti. Non essendo black as fuck, ritengo infatti che questo sia il modo più giusto e semplice per capirne di più.

È necessario affidarsi alle voci dirette di chi cerchiamo di conoscere meglio, portando poi a termine gli spunti di riflessione che nascono da questi incontri. È importante, quindi, cercare le fonti, l’arte, la letteratura specifica. È un lungo viaggio che richiede ascolto e apertura, ma riserva molte scoperte interessanti e cercheremo di farle insieme, su FRAMED.

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