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The boys in the band | L’opera di Mart Crowley debutta a Roma

The Boys in the Band, Sala Umberto

The Boys in the Band del commediografo americano Mart Crowley arriva a Roma: da ieri fino al primo maggio 2022 sarà possibile vedere lo spettacolo alla Sala Umberto con la regia di Giorgio Bozzo e la traduzione e l’adattamento di Costantino della Gherardesca.

Michael, Harold, Emory, Bernard, Larry, Hank, Donald, Alan e il giovane cowboy sono i protagonisti di uno dei testi teatrali più importanti della cultura LGBTQ+. I loro interpreti, ieri, in occasione del debutto a Roma, hanno riportato a noi la carica emotiva, distruttiva e consapevole della pièce che debuttò a New York nell’off-Brodway nel 1968.

The boys in the band: ieri

Gli attori in scena non stanno solo recitando, ma si assumono la responsabilità di raccontare una storia ancora oggi importante e viva. Una festa di compleanno, quella del sottotitolo: Festa per il compleanno del caro amico Harold, non è che l’occasione per un serrato massacro teso a sfaldarsi l’uno con l’altro, pezzo per pezzo, solo per poi ritrovarsi.

L’autore è il drammaturgo Mart Crowley. Dopo il 1968, nel 1970 l’opera diventò un film, Festa per il compleanno del caro amico Harold, di cui Crowley curò la sceneggiatura per la regia di William Friedkin. Nel 2018 The Boys in the Band ha festeggiato 50 anni e il regista Joe Mantello ne ha diretto il revival, con la produzione di Ryan Murphy, riportandolo a Broadway. Nel 2020 torna a traslarsi in un film, con lo stesso cast artistico e tecnico del recente allestimento teatrale.

A due anni da quella trasposizione così intensa la versione italiana a firma di Giorgio Bozzo va in scena per la prima volta nel giugno 2019 con sei anteprime allo Spazio Teatro 89. A seguire con una replica speciale all’interno del PAC – Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, una a Firenze il primo dicembre 2019 e al Teatro Nuovo di Milano, per poi fermarsi a causa della pandemia.

The boys in the band: oggi

Lo spazio del palco della Sala Umberto è allestito come l’appartamento di New York di Michael (Francesco Aricò), organizzatore della festa per i 32 anni di Harold (Paolo Garghentino). Due uomini diversi ma simili, in eterno conflitto, due amici che non riescono a fare i conti con le loro verità (e il mondo che li circonda).

Con loro la coppia formata da Hank (Ettore Nicoletti) e Larry (Federico Antonello), poi Donald (Gabrio Gentilini), Emory (Angelo Di Figlia) e Bernard (Alberto Malanchino).

Si aggiungeranno alla festa un cowboy ingaggiato come “regalo” speciale (Jacopo Adolini), e una vecchia ombra del passato di Michael, Alan, suo amico al college (Samuele Cavallo).

The boys in the band, Sala Umberto, Roma

Nove uomini calcano la scena e prendono confidenza con quello spazio che per la prima volta li accoglie: le voci si armonizzano, gli spazi si riempiono. Il debutto del loro The boys in the band, oggi, funziona nei silenzi prosciuganti del testo originale ma anche in quelle esplosioni di urla e sincerità che arrivano fino a noi provocando dolore come una ferita ancora sanguinante, soprattutto grazie al ruolo complesso del padrone di casa, Michael, che orchestra il flusso narrativo grazie all’interpretazione di Francesco Aricò. Non a caso Michael è la presenza autobiografica di Mart Crowley.

La regia e l’adattamento

Il lavoro di Giorgio Bozzo si unisce all’adattamento di Costantino della Gherardesca, insieme riportano la traduzione di The Boys in the Band curando la bellezza dei momenti leggeri e scagliandoci addosso l’aggressiva esigenza di vivere padroni della propria libertà, perfettamente espressa dal cast. Non capita spesso di far parte di una storia così significativa, se assisterete alla “festa di Harold”, non smetterà più di far parte di voi.

Info utili

SALA UMBERTO
martedì – sabato h. 21.00 / domenica h.17.00
Via della Mercede, 50, 00187 Roma

Tutte le info qui.

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I BOREALI: torna il festival di Iperborea dedicato alla cultura nordica

I boreali 2022
I boreali 2022

Dal 29 aprile al 1 maggio tornerà, nella sua ottava edizione, il festival nordico I boreali, organizzato da Iperborea, con la collaborazione del Teatro Franco Parenti e il patrocinio del Comune di Milano.

Per chi non lo conoscesse, si tratta di una serie di eventi dedicati alla cultura nordica: si parlerà di letteratura, cinema, musica, attualità, food, letture e laboratori.

Dal 2015 il festival ha raggiunto molte città italiane, quest’anno dopo Milano raggiungerà Urbino, collaborando con il festival Urbino e la città del libro. I boreali è il più grande (e l’unico) festival italiano che si occupa interamente del Nord Europa, inoltre tutti gli eventi del festival saranno svolti in presenza (al Cafè Rouge del Teatro Franco Parenti) ma anche trasmessi in live streaming sul sito iboreali.it e sul canale Youtube di Iperborea.

Di cosa si parlerà?

Vi illustreremo brevemente i punti più importanti del programma, organizzato attraverso interventi di scrittori ed esperti di cultura nordica, insieme alle proiezioni di alcuni film (con la collaborazione del Cinemino di Milano).

Letteratura

Procedendo per gradi, si parte dalla letteratura: la serata inaugurale (venerdì 29 aprile ore 18:30) sarà dedicata a Mathjis Deen, giornalista e scrittore olandese, famoso per il libro Per antiche strade (Iperborea, 2020). Saranno presenti anche altri importanti autori e autrici come Vigdis Hjorth (per la prima volta in Italia) che esplorerà il genere dell’autofiction con il romanzo Lontananza (Fazi, 2021). Si proseguirà sabato 30 aprile con Frank Westermann e l’antropologo Andrea Staid, parlando di Noi, umani: un viaggio che cercherà di scoprire cos’è che ci rende veramente umani, attraverso la paleoantropologia.

Passando agli eventi speciali, importante citarne alcuni interessanti come l’incontro (organizzato con Il Post) dedicato alle questioni di genere e al modello nordeuropeo, trattando il libro Questioni di un certo genere, con la presenza della psicologa svedese Jenny Jägerfeld e della linguista Siri Nergaard. Alle 12 di sabato 30 aprile vi sarà un interessante intervento a cura dell’Istituto nordico di Milano, con Luisella Sari e Anna Brannstrom, dedicato alla cultura e mitologia nordica nelle produzioni delle serie tv Vikings e Ragnarok.

Cinema e musica

Molto particolare e interessante è anche la parte cinematografica, con la proiezione di due film al Cinemino di Milano: il 29 aprile alle ore 21 ci sarà Scompartimento n.6 – In viaggio con il destino (film che ha rappresentato la Finlandia al Premio Oscar 2022) e il 30 aprile alle 21 Lamb (opera islandese vincitrice del Premio Originalità al Festival di Cannes 2021).

Si conclude con la musica: Federico Bernocchi guiderà gli spettatori in un viaggio attraverso il Black Metal norvegese, musica rivoluzionaria diventata famosa in Norvegia verso la fine degli anni Ottanta (domenica 1 maggio ore 18).

Durante queste giornate sarà anche possibile gustare un nordic brunch curato da GUD, potrete trovare il programma completo del festival qui.

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MOON KNIGHT 1X05 – Asylum

MOON KNIGHT
Oscar Isaac as Marc Spector/Steven Grant in Marvel Studios' MOON KNIGHT, exclusively on Disney+. Photo by Csaba Aknay. ©Marvel Studios 2022. All Rights Reserved.

Come ogni mercoledì, continua il consueto appuntamento con la serie tv Moon Knight, arrivata al penultimo episodio. Questa volta Marc e Steven sono impegnati in un viaggio introspettivo in quello che è il loro passato, indagando sulle scelte che hanno compiuto e che hanno influenzato il loro cammino.

Tanta confusione

Dopo la fine che ci era stata presentata la scorsa settimana, l’unica costante rimasta nella testa di noi spettatori è stata una: perplessità. Come mai Steven e Marc sono due persone distinte? Come mai sembrano trovarsi in un manicomio? Tutto quello che ci è stato mostrato fino ad ora è accaduto davvero oppure è stata tutta una macchinazione creata dal cervello del nostro protagonista? Dopo una settimana, passata a fare teorie e supposizioni, le nostre domande trovano finalmente una risposta, anche se la confusione non svanisce.

Marc e Steven si rendono conto di essere morti dopo che Harrow (Ethan Hawke) gli ha inferto un colpo mortale di arma da fuoco, e scoprono di essere nel regno dell’aldilà, in attesa del loro giudizio prima di unirsi a tutte le altre anime. Un regno che però ha un aspetto alquanto bizzarro; ci troviamo infatti in un manicomio guidato da Harrow che ne è il capo, composto da stanze dietro a cui si celano momenti chiave del passato del protagonista. Quello che però aveva l’intento di risultare chiaro, è in realtà più complesso si quel che credevamo. Si crea così una penultima puntata che, più che indirizzarsi verso una chiusura, sembra l’inizio di qualcos’altro.

Un passato che comincia a raccontarsi

Fino ad ora del passato di Marc/Steven sapevamo poco o nulla. Presentato sempre in frammenti e mai analizzato a fondo, il ritratto completo che avevamo potuto crearci del protagonista era parziale. Con questo episodio tutto cambia perché proprio questo passato è il protagonista principale, e grazie a vari flashback “nascosti” dietro alle porte del manicomio, abbiamo potuto scoprire l’origine del disturbo dissociativo di Marc, le circostanze che lo hanno favorito, la sua personalità principale, il rapporto con sua madre (molto spesso nominata da Steven), ma soprattutto l’origine di Moon Knight.

Gli amanti dei fumetti, ma anche chi, in cerca di risposte, era andato ad indagare sulla storia di questo eroe, già sapevano il come e il perché della trasformazione di Marc in Moon Knight, ma nella serie era stato solo accennato nel secondo episodio e mai era mostrato. Finalmente, anche se in una breve sequenza, troviamo una risposta anche a questo.

Curioso rimane senza dubbio il trattamento fornito a tale questione. Da una serie tv con questo titolo, d’altronde, tutti si aspettavano un prodotto incentrato su di lui e sulle sue imprese, questione invece passata in secondo piano, e di Moon Knight a tratti nemmeno l’ombra.

Un confronto sempre più palese

La bravura di Oscar Isaac nei panni del protagonista è ormai sempre più palese e papabile, soprattutto in questo episodio dove Marc e Steven ci vengono mostrati per la prima volta separati. Le differenze tra le due personalità sono maggiormente visibili e gli scambi di battute tra i due sono alcuni dei momenti migliori della puntata. Scopriamo così che Marc è la personalità dominante mentre Steven è l’alter ego rubato da un film per nascondersi dalla realtà negativa che circondava il Marc bambino. 

Affrontare il proprio passato e ristabilire l’equilibrio sono le chiavi per poter tornare tra i vivi, ma inaspettato è il destino di Steven. Quest’ultimo infatti deve scomparire per poter permettere a Marc di salvare il mondo: proprio il momento in cui Steven si sacrifica dopo una piccola battaglia, che costituisce l’unico momento d’azione presente (e quello più coinvolgente), lascia a bocca aperta, mentre il finale con Marc in un campo di grano illuminato da una luce giallastra, triste e demoralizzato, confonde e lascia un amaro in bocca, con la percezione che in questa serie nulla di rilevante sia accaduto.

Difficile è senza dubbio il compito dell’ultima puntata, che dovrà dare una risposta adeguata e un finale meritevole ad una serie che con i primi due episodi era riuscita a catturare l’attenzione di molti, andandosi poi a perdere con il tempo, creando un prodotto buono ma a tratti troppo dispersivo.

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Esterno Notte di Marco Bellocchio – Trailer e uscita

Esterno Notte di Marco Bellocchio

È stata finalmente annunciata la data d’uscita di Esterno Notte, la nuova serie tv scritta e diretta da Marco Bellocchio. L’opera, che sarà presentata al Festival di Cannes nella sezione Première, arriverà inizialmente come film nelle sale diviso in due parti, la prima il 18 maggio, la seconda il 9 giugno 2022 e solo in autunno vedrà la sua trasposizione in formato seriale su RAI 1.

Scritta da Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino, e diretta da Marco Bellocchio, con nel cast Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro al quale si affiancheranno Margherita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi, Gabriel Montesi e Daniela Marra.

Esterno Notte, di Marco Bellocchio

Esterno Notte – La trama

1978. L’Italia è dilaniata da una guerra civile. Da una parte le Brigate Rosse, la principale delle organizzazioni armate di estrema sinistra, e dall’altra lo Stato. Violenza di piazza, rapimenti, gambizzazioni, scontri a fuoco, attentati. Sta per insediarsi, per la prima volta in un paese occidentale un governo sostenuto dal Partito Comunista (PCI), in un’epocale alleanza con lo storico baluardo conservatore della Nazione, la Democrazia Cristiana (DC). Aldo Moro, il Presidente della DC, è il principale fautore di questo accordo, che segna un passo decisivo nel reciproco riconoscimento tra i due partiti più importanti d’Italia. Proprio nel giorno dell’insediamento del governo che con la sua abilità politica è riuscito a costruire, il 16 marzo 1978, sulla strada che lo porta in Parlamento, Aldo Moro viene rapito con un agguato che ne annienta l’intera scorta. È un attacco diretto al cuore dello Stato. La sua prigionia durerà cinquantacinque giorni, scanditi dalle lettere di Moro e dai comunicati dei brigatisti: cinquantacinque giorni di speranza, paura, trattative, fallimenti, buone intenzioni e cattive azioni. Cinquantacinque giorni al termine dei quali il suo cadavere verrà abbandonato in un’automobile nel pieno centro di Roma, esattamente a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI. 

Il Trailer di Esterno Notte

Qui potete trovare il trailer della prima serie tv di Marco Bellocchio, prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment, società del gruppo Fremantle, con Simone Gattoni per Kavac Film, in collaborazione con Rai Fiction, in coproduzione con Arte France.

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Atlantis – Premonizioni di guerra

Atlantis

Nel 2019 Atlantis di Valentyn Vasyanovych vinceva la sezione Orizzonti di Venezia76 per poi essere sostanzialmente dimenticato. Dopo oltre 50 giorni di guerra tra Ucraina e Russia è arrivato nelle sale italiane con Wanted Cinema per tre giorni di proiezioni-evento. Ancora troppo pochi, a dirla tutta. Perché non se ne parla ancora abbastanza.

Una spaventosa premonizione

La pace in Donbass è un miraggio dal 2014. Non è quindi così strano che un film provi a immaginare, nel 2019, come sarebbe l’Ucraina dopo un’ipotetica guerra contro la Russia. Quel che oggi, invece, lascia senza parole e senza respiro è come e quanto la distopia di Vasyanovych somigli alle immagini dei telegiornali, tre anni dopo. Dal razionamento dell’acqua ai corpi nelle fosse comuni. Tutto urla che questa guerra era nell’aria e che la realtà, spesso, è molto più terrificante di qualsiasi immaginazione.

Scelte di regia e di stile

Vasyanovych opta per un cast di non professionisti. Veri soldati, veterani, volontari, che hanno visto con i loro occhi l’escalation in Ucraina orientale. Anche il protagonista, Andriy Rymaryk, è un ex combattente del Donbass. Insieme costruiscono un racconto più vero del vero. Crudo e brutale.

Il film è racchiuso tra due inquadrature in termocamera, stranianti e al tempo stesso efficaci per entrare e uscire dall’ottica del conflitto. Le sequenze sono poche e prolungate, spesso a camera fissa, e costringono il pubblico a fare da testimone attonito di ciò che accade intorno, osservando la vita ormai svuotata e grigia di chi è sopravvissuto. Atlantis è infatti la ricostruzione immaginaria di Mariupol nel 2025, un anno dopo la “fine della guerra”. Non c’è altro che distruzione e morte e il pubblico non può che diventarne parte, soprattutto sapendo che nello stesso, identico tempo in cui guarda il film, qualcosa di molto simile accade davvero.

In breve

Atlantis è quel presagio di cui spesso l’arte è capace. Quello spirito colto ancor prima che si concretizzi. Per questo spaventa, per questo è al tempo stesso necessario accoglierlo.

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«La luce non veda i miei oscuri e segreti desideri» | Macbeth di Joel Coen

The Tragedy of Macbeth

Stars, hide yours fires,
Let not light see my black and deep desires

Atto I, Scena IV

Macbeth è la tragedia del potere che ipnotizza e che logora, dei desideri inconfessabili, persino a se stessi. Macbeth è la tragedia del potere che ipnotizza e che logora, dei desideri inconfessabili, persino a se stessi. Ogni adattamento scava nella profondità umana, toccando e turbando lo spettatore. La versione di Joel Coen non è da meno e conta, inoltre, su una coppia protagonista straordinaria, che anche da sola avrebbe fatto l’intero film: Denzel Washington e Frances McDormand.

Joel Coen, alla prima regia senza il fratello, sceglie di rispettare gran parte del testo originale shakespeariano e lavorare per lo più sulla forma, sfruttando gli strumenti del cinema in una struttura fortemente teatrale.

Joel Coen e Frances McDormand – Courtesy of Apple

Luci e ombre, colpa e desiderio

Sagome scure emergono dalla nebbia. Il bianco e il nero scelto dal DOP Bruno Delbonnel riflette nella forma quello che è il contenuto della tragedia: il conflitto interiore fra la colpa e la brama. La notte, l’oscurità, il buio ricorrono di continuo nelle parole ma soprattutto nelle immagini di questo Macbeth, che si scarnifica e rinuncia a ogni orpello facendosi solo luce e ombra, proiezione della mente. La scenografia è falsamente assente, mancano cioè i mobili, i prop, le decorazioni. Tutto si riduce all’essenziale ma diventa ancora più importante l’architettura e lo spazio entro cui si muovono i personaggi.

Soffitti alti, stanze vuote, pareti opprimenti proprio perché così nude. Un’angoscia che solo l’Espressionismo tedesco è riuscito a trasformare in stile e canone e che qui si tenta, al più, di omaggiare.

Il Bardo immortale

Il testo di William Shakespeare risuona intatto nelle interpretazioni di Washington e McDormand. Joel Coen sceglie di non adattare la tragedia, ma lascia che i due grandi attori la interpretino secondo la loro moderna sensibilità. È così che i versi antichi assumono un’identità diversa e creano un attrito peculiare con chi li recita. A tratti sembra quasi di assistere a uno studio dei personaggi in cui la personalità dirompente dei due protagonisti si fonde con le figure simboliche di Macbeth e la sua Lady.

Sono pochi gli elementi con cui Coen si discosta dalla tragedia originale ma sono anche quelli che incuriosiscono di più.

Prima di tutto il regista sceglie di rappresentare le tre streghe attraverso il corpo e lo voce di un’unica interprete, la straordinaria Kathryn Hunter, la cui inquietante performance rimane aggrappata alla pelle, impossibile da dimenticare.

Kathryn Hunter in Macbeth

Una e trina, Hunter diventa tutte e tre le streghe, assumendo quasi una forma oltre l’umano. Già solo il suo incipit del film vale un mese di abbonamento a AppleTV+ per questo Macbeth.

Coen inoltre sceglie di dare un ruolo molto più ampio al personaggio di Ross (Alex Hassell), che nel portamento e nelle azioni assume un a centralità rilevante sia rispetto alla trama sia rispetto all’impatto sul pubblico.

In breve

Il Macbeth di Joel Coen è una meravigliosa costruzione estetica che prova a riformulare le basi di un classico senza riuscire del tutto a entrare in un canone ben definito. Non è un semplice adattamento, non è una rappresentazione rivoluzionaria. Rimane in un limbo a metà. E non lo aiuta il fatto che sia visibile su una piattaforma streaming ancora di nicchia. Forse arriverà il tempo in cui il grande pubblico sarà pronto ad apprezzarlo.

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The Northman | Un Amleto destinato al Valhalla

The Northman
Alexander Skarsgård stars as Amleth in director Robert Eggers’ Viking epic THE NORTHMAN, a Focus Features release. Credit: Aidan Monaghan / © 2022 Focus Features, LLC

Da due anni aspettavo il nuovo film di Robert Eggers: The Northman. Un terzo lungometraggio per coronare questa sorta di santa trilogia “illuminata” completata dai precedenti The Witch e The Lighthouse.

Ma The Northman non è esattamente ciò che mi aspettavo: meno ispirato degli altri lavori del regista, si sviluppa sulle note crude di una narrazione che ricorda Valhalla Rising (Nicolas Winding Refn, 2009) e, seppur teso all’immaginario shakespeariano, non mostra nulla che con un drago o due non abbiamo già visto in Game of Thrones. Se pensate che sia troppo esagerata vi accompagno per mano nell’abbastanza piatto viaggio verso il Valhalla.

Il rischio di ripercorrere il destino di Amleto

The Northman intraprende due strade rischiose e parallele, che si incontrano e si compenetrano donandoci un’opera che da una parte è il frutto di una ricerca storica curata e dall’altro la rielaborazione di una delle tragedie più riprese e reinterpretate dal cinema e non solo. Quindi a lasciare che a metà strada scaturisca lo scontro è la mancata efficacia di uno sguardo che porti qualcosa di nuovo, pur rispettando il punto di partenza. Eggers non si rifà solo all’Amleto shakespeariano, ma influenza la narrazione inserendo anche i tratti di quello appartenente al romanticismo scandinavo.

Amleth (Alexander Skarsgård), il protagonista, è un un principe norreno del X° secolo, un uomo del nord rimasto senza padre, che è destinato a vendicarlo, accecato dagli insegnamenti ricevuti quando era solo un bambino. Vuole uccidere suo zio, Fjölnir (Claes Bang) assassino in questo caso del genitore, e liberare sua madre, Gudrún (Nicole Kidman), “costretta” a prenderlo come nuovo consorte.

Dopo un periodo di lontananza da quel lutto e dalla violenza inflitta al padre dal suo stesso fratello, Amleth torna per soddisfare la sua sete di vendetta. Aiutato da Olga (Anya Taylor-Joy), un’Ofelia per nulla folle, mette in scena un teatro orrorifico di carne e sangue. Una rappresentazione molto lontana dallo spettacolo che rivela la colpevolezza di re Claudio, ma frutto della ricerca di Eggers tra i miti, la storia e le tradizioni vichinghe.

Alexander Skarsgård stars as Amleth in director Robert Eggers’ Viking epic THE NORTHMAN, a Focus Features release. Credit: Aidan Monaghan / © 2021 Focus Features, LLC

Con l’aiuto del geniale scrittore e poeta islandese Sjón, ci siamo imbarcati nella realizzazione del film sui Vichinghi storicamente più accurato e radicato di tutti i tempi. Abbiamo lavorato con archeologi e storici, cercando di ricreare le minuzie del mondo fisico, tentando anche di catturare, senza giudizio, il mondo interiore della mente vichinga: le loro credenze, la mitologia e la vita rituale.

Ciò ha significato che in questo film il soprannaturale è realistico quanto l’ordinario, perché per loro è stato così. Le recenti rappresentazioni televisive, cinematografiche e video ludiche della mitologia Vichinga e della cultura norrena sono romanzate e fatte per sembrare appariscenti e cool. Oggi la concezione pubblica di un Vichingo sembra più quella di una rockstar di fantascienza che di una sacerdotessa, una contadina, una guerriera o di una regina dell’antico norreno.

Robert Eggers

L’Amleto di Eggers è tutt’altro che bloccato nella maledizione dell’inazione, “peculiarità” che rende così complesso l’Amleto di Shakespeare: si incastra tra la lettura freudiana e quella post freudiana (che potete approfondire nell’introduzione di Keir Elam nell’Amleto del 2007 edito da Rizzoli), rispettando i violenti e virili dogmi imposti dalla cultura norrena da cui proviene.

Per questa estrema coerenza il regista sacrifica un po’ quella interpretazione visionaria che tanto aspettavamo. Va infatti a prediligere, il tutto con una regia che passa dalla ricerca minuziosa a movimenti privi di coinvolgimento, la scarnificata ripresa della realtà. The Northman assume quasi i tratti del thriller “epico”, e, sebbene l’occulto e il sovrannaturale non manchino, sono contenuti da paletti mitologici e storici piuttosto che liberi nella loro forza visionaria. Tale scelta rende, ahimè, lo svolgimento abbastanza noioso.

Ingvar Sigurdsson as The Sorcerer in director Robert Eggers’ Viking epic THE NORTHMAN, a Focus Features release. Credit: Aidan Monaghan / © 2022 Focus Features, LLC

Dove ritrovo l’onirico sublime di Eggers

A rimanere indimenticabili sono le sequenze dedicate alla rappresentazione dell’elemento magico, in tutti i suoi film presente e strettamente legato alla natura e alla sue forze enigmatiche. Le scene che meglio esprimono tali visioni, in The Northman, sono proprio le più riuscite, poiché le uniche ad unire la tragedia con il mito producendo immagini che lasciano a bocca aperta.

Gli aspetti magici e visionari della storia possono essere interpretati dallo spettatore come realmente accaduti o come stati d’animo.

Neil Price, professore di archeologia britannico e autore specializzato in magia, stregoneria e religione dell’era Vichinga, che ha fatto anche da consulente in The Northman

Disseminate nel film, tali suggestioni visive trasformano la visione diretta di carne e polvere nell’elevazione divina di leggende antiche, che prendono magistralmente forma nel sogno alato di una valchiria diretta verso il Valhalla, o nell’amore tra Amleth e Olga, che sconfina dall’unione dei loro corpi a quella delle loro origini, intrise di magia ancestrale.

Anya Taylor-Joy stars as Olga in director Robert Eggers’ Viking epic THE NORTHMAN, a Focus Features release. Credit: Aidan Monaghan / © 2022 Focus Features, LLC

Grazie alla magia l’inscalfibile Amleth torna dalla Terra della Rus, ormai immerso nell’evoluzione della sua rabbia in sconsiderata violenza e parte di un gruppo di razziatori Vichinghi. Una notte incontra una veggente (Björk), che spezza con la sua voce sibilante quel delirio di massacri e apatica brutalità, riconducendolo al suo destino di vendetta. Solo qui il film si connette ai fantasmi della Danimarca, alle apparizioni di un mondo a metà tra sogno e allucinazione.

In breve

The Northman non è il film che tanto aspettavamo degno di unirsi a The Witch e The Lighthouse in una santissima trinità di occulte narrazioni. C’è Björk ma solo per pochi istanti, grazie a lei il destino si ribalta ma la sua presenza si dissolve in fretta. Se non fosse per il sogno che prende la forma di una valchiria che galopperà ancora nel vostro inconscio anche dopo la fine del film, non varrebbe la pena continuare a parlarne.

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In Arte son Chisciottə | Dal 28 al 30 aprile all’Argot Studio

In Arte son Chisciottə | Dal 28 al 30 aprile all’Argot Studio
In Arte son Chisciottə | Dal 28 al 30 aprile all’Argot Studio

Ad Argot Studio arriva una delle produzioni teatrali più interessanti del 2021, In Arte son Chisciottə della compagnia aretina Officine della Cultura, nata per lo streaming nel difficile momento dell’interruzione dello spettacolo dal vivo ma riproposta nella stagione in corso per un’edizione capace di coniugare sul palcoscenico e per il pubblico le tante arti, la tante domande e i molteplici mestieri del teatro, compresa la dimensione multimediale.

Una produzione originale, ricca di riflessioni sul nostro tempo pur nell’omaggio ad uno dei romanzi e dei personaggi più noti della storia della letteratura, che per il suo percorso di studio e messinscena è stata recentemente premiata da Agis e Meta nell’ambito del contest nazionale #SociaLive. 

Cast e regia

Dodici i protagonisti in scena in una rappresentazione del vivo, tra quarta parete e quinte mobili, dei tanti residenti di un palcoscenico teatrale e del lavoro di cui sono responsabili, più o meno visibili che siano: dalle attrici Elena Ferri e Luisa Bosi, nei panni di Don Chisciotte e Sancio Panza a I Solisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo per l’incalzante esecuzione dal vivo delle musiche di scena, Luca Roccia Baldini (basso, cajon), Massimo Ferri (chitarra, oud, mandolino), Gianni Micheli (clarinetto, fisarmonica, flauto), Mariel Tahiraj (violino); dalla scenografa Lucia Baricci al tecnico di scena Paolo Bracciali; dalla regia video live di Pierfrancesco BigazziGiulio Dell’Aquila e Stefano Ferri al fonico Gabriele Berioli. A coordinare il tutto la regia di Luca Roccia Baldini con le musiche originali scritte da Massimo Ferri e la drammaturgia di Samuele Boncompagni.

Sarebbe stato di certo lieto Miguel de Cervantes per questo nuovo dialogo intorno al complesso, articolato ed affascinante universo del suo Don Chisciotte che unisce alle imprese già note quella, ulteriore, di raccontare il cavaliere della Mancia al femminile, portando in scena non solo il gioco e il sogno, l’ironia e la speranza ma anche la “questione di genere”, la giustizia, il riscatto, il senso dei diritti, la vita. Il teatro, per dirla con una parola, anzi con una lettera: la “schwa”.

ORARIO SPETTACOLO

28-30 aprile ore 20:30

Informazioni utili

In qualità di media partner di Argot Studio, FRAMED mette mette a disposizione alcuni ingressi a prezzo ridotto. Contattateci per saperne di più. Per l’accesso al Teatro Argot Studio è obbligatorio il possesso di un Green Pass valido e per partecipare alle attività è richiesto il tesseramento (gratuito).

Per partecipare alle attività culturali di Argot Studio è necessario effettuare il tesseramento gratuito su  o presso il botteghino prima dello spettacolo.

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Un figlio – Dramma di un’intera nazione

Un figlio (Bik Eneich - Un Fils) - Di Mehdi Barsaoui
Un figlio (Bik Eneich - Un Fils) - Di Mehdi Barsaoui

Diretto e scritto da Mehdi M. Barsaoui, Un figlio (2019) è il racconto di un dramma familiare che diviene specchio del dramma di un’intera nazione, la Tunisia.

Una storia che viaggia a ritmo spedito, ambientata durante la Rivoluzione popolare in Tunisia del 2010-2011. Non esiste momento per pensare. Quello che accade sullo schermo è già destinato a dover essere accettato, senza possibilità alcuna di poter passare attraverso la riflessione. Non c’è scampo per Fares (Sami Bouajila) e Meriem (Najla ben Abdallah) coppia tunisina moderna ed abbiente, protagonista del film. Una corsa contro il tempo e contro la tragedia. Un gioco di scatole cinesi, in cui la sofferenza emerge da altra sofferenza ed il dolore da altro dolore.

La trama – Spoiler alert

L’inizio è comune a tanti altri, una madre, un padre ed un figlio, che in una giornata di sole, decidono di trascorrere una gita fuori porta con amici. Durante il viaggio di ritorno verso casa il piccolo Aziz (Youssef Khemiri) si diverte sul sedile posteriore dell’auto a cantare per l’ennesima volta la sua canzone preferita, quando ad un tratto le sorti dell’intera famiglia, sono destinate a cambiare drasticamente a causa di un attacco terroristico che li vedrà coinvolti. Il riso si tramuta in pianto e la calma in tempesta. Nulla sarà più come prima. La tragicità della narrazione colpisce in modo raggelante i coniugi, proprio con la stessa crudeltà del proiettile che colpisce la pancia del loro figlio.

Gira tutto intorno al climax di angoscia che oscilla tra la vita e la morte, aggravato dalle molteplici avversità di una società arcaica, che ostacolano ferocemente la famiglia tunisina.

Quale sarà il destino di queste tre anime? Il legame familiare che le unisce, presto sarà destinato a sgretolarsi.

Sarà un evento infausto a far emergere segreti inconfessabili che si insinueranno nei meandri delle vicissitudini familiari.

La difficile realtà tra leggi arcaiche e patriarcali

Ad infittire l’intreccio di questo dramma vi è il contesto socio-culturale della Tunisia. Una Nazione che nonostante innumerevoli sforzi, al giorno d’oggi, fatica ancora ad emanciparsi. Una dimensione rimasta aggrappata a leggi patriarcali, arcaiche, inadeguate ed impensabili in una società del XXI secolo.

Una forma innaturale di civiltà, dove non è la Legge ad adeguarsi all’uso e costume, ma sono necessariamente gli uomini a doversi adattare ad essa.

Un Paese dove la moglie che tradisce il proprio marito è sottoposta legittimamente a condanna certa ed un trapianto d’organi risulta essere difficile, se non impossibile, perché inquadrato come un gesto poco rispettoso e rispettabile secondo un credo religioso fortemente radicato.

Sono vani i tentativi di uscire da uno schema rigido e soffocante, costituito da imposizioni categoriche ed anacronistiche, legate al suolo e alle radici di quella Terra.

Chi è un padre?

I temi affrontati dal regista tunisino sono forti ed universali: la legislazione obsoleta, l’immagine della donna subordinata alla società patriarcale, il trapianto di organi ed il mercato nero che ne discende. Ma tra tutti, si palesa una delle tematiche più delicate in assoluto, la paternità. Chi è davvero un padre?

Qual è la condizione necessaria per determinare la filiazione e la “patria potestas”? In alcuni casi un esame diagnostico non basta, non è sufficiente per giustificare l’amore viscerale che lega ad un figlio, soprattutto quando lo si sta per perdere per sempre.

Il titolo del lungometraggio è l’emblema del “tutto”, della famiglia, dell’amore, della paura. Un figlio è quella figura, quella forza di attrazione, in grado di inglobare entrambe le figure genitoriali. È tutto ciò che può creare e distruggere gli equilibri all’interno di una coppia. Ogni cosa dipende da lui, dall’energia e dalla passione che ci si mette per crescerlo e vederlo felice, e per il quale ci si sacrificherebbe a qualsiasi costo, anche dei propri valori e della propria dignità, esattamente come accadrà a Fares.

La fotografia rassicurante di Antonie Héberlé

Un figlio ha una scrittura potente, commovente che arriva dritta all’anima. L’intensa interpretazione degli attori protagonisti restituisce un dolore “calmo” e sincero senza mai trascendere nel melodrammatico. Un disagio profondo difficile da sopportare nei 96 minuti di ripresa, e che viene alleggerito grazie alla meravigliosa fotografia Antonie Héberlé capace di donare un respiro ed abbraccio rassicurante. Calda, silenziosa, soave e pacifica, in grado di contrastare un inferno terrificante.

In breve

Un figlio è uno di quei film che si insinua nella pelle e fatica a svanire. Riempie di sensazioni ed interrogativi che appaiono lontani, ma in realtà riguardano e toccano da vicino. Può considerarsi una parabola di cui avremmo bisogno tutti, per non dimenticare mai quanto la nostra libertà sia un dono dipeso esclusivamente dalla fortuna di essere nati nel posto giusto, senza più gravi impedimenti e limitazioni dei diritti.

Un figlio, di Mehdi M. Barsaoui, nelle sale italiane dal 21 Aprile 2022.

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