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Aftersun | La vacanza con mio padre che non ho mai dimenticato

Aftersun. A24, Mubi.
Aftersun. A24, Mubi.

Aftersun è il film d’esordio della regista scozzese Charlotte Wells. Aftersun è l’accesso ad un ricordo così potente da far stare male: il racconto di una vacanza apparentemente come tante altre, che però diventerà unica per Sophie, che ricorderà per sempre quel viaggio in Turchia con suo padre e quel gusto di fissare la memoria su dispositivi di ripresa per non dimenticare la consistenza del momento.

L’istantanea di un’estate negli anni ’90

Il film di Wells è stato da molti definito uno dei migliori del 2022. Autobiografico, dal grande impatto emotivo, Aftersun è un debutto che colpisce al cuore chi lo guarda, ma soprattutto che travolge chi si ritrova inghiottito da ricordi simili, dalla nostalgia degli spensierati (ma solo in apparenza) anni ’90. Filmati in bassa definizione e canzoni vintage, come Drinking in L.A. di Bran Van 3000, che risuonano negli spazi dell’albergo in cui padre (Paul Mescal) e figlia (Frankie Corio) trascorrono qualche giorno di vacanza, sprigionano la bellezza di una storia essenziale, eppure straziante.

Sophie ha 11 anni, è ancora una bambina ma sente che qualcosa sta cambiando, vive nel limbo di un’estate decisiva in cui l’infanzia viene lasciata indietro. Suo padre, Calum, ha 30 anni e non fa che metterla in imbarazzo con le sue strane mosse di Tai Chi e la convinzione di essere un bravo ballerino. Parlano tra un gioco e l’altro, si confidano in modo goffo come solo una bambina e un papà potrebbero fare. Registrano con una videocamera i momenti più belli.

Come una polaroid sbiadita in cui i contorni dei sorrisi piano piano si sciolgono per colpa del tempo, quei giorni sono luminosi, intensi, complessi, ma celano ciò che Sophie ha paura di raccontare a Calum, e ciò che Calum non racconta a nessuno. Perché essere un bravo genitore è non farla scottare nelle ore calde e spalmarle ogni sera il doposole (aftersun) sul viso, quel viso sorridente con occhi che stravedono per l’unico uomo a cui prestano attenzione.

Aftersun. A24, Mubi.

Le ombre di un padre

Ciò che guardiamo non sta succedendo in quel momento: è la rielaborazione di un insieme di esperienze che, come la luce sulla spiaggia, cambia colore di continuo. E tra un flash e l’altro della Turchia e del bikini tie dye di Sophie c’è la donna adulta, all’età di Calum all’epoca del viaggio, che si fa strada in una discoteca dove accecanti luci bianche illuminano a ritmo di musica il locale. Dove scorge il profilo di un uomo che le ricorda il genitore.

Lei sa cosa è successo dopo, chi dei due ha deciso se rimanere o scappare da Edimburgo. Sa quante altre volte si sono detti ancora “ti voglio bene” prima di una partenza. Noi no, eppure, come se fossimo nella mente della donna, troviamo disseminate durante la proiezione mentale di quel ricordo le ombre di un uomo, che solo dopo individuiamo come tali.

La tristezza di Calum è silenziosa e si manifesta con noncuranza. In più di un momento sembra che poco gli importi di vivere e che l’unico motivo per cui continuare ad esserci sia Sophie e nessun altro. In bilico sulla ringhiera del balcone della stanza d’albergo, steso su un tappeto troppo costoso appena acquistato: Calum piange di nascosto e insegue un senso di fine che fa paura.

Aftersun. A24, Mubi.

Cortocircuito/Controcampo

La vita porta altrove. Lontano da quel resort in Turchia dove infanzia e adolescenza si sono fuse e sovrapposte in modo irreversibile. Lontano dai colori delle t-shirt e dalla musica brutta che li ha resi felici. La nostalgia è quella malattia degli adulti dalla quale è difficile guarire: il numero dei ricordi inizia a superare quello degli istanti da voler ricordare e Sophie ha dentro un mai detto irrisolto appuntito come un vetro rotto.

Non sappiamo cosa è successo tra lei e Calum dopo quell’estate, la bambina, ormai adulta, si sveglia la mattina del suo compleanno e guarda i filmini registrati nei giorni insieme.

Nella discoteca bianca e nera l’uomo che aveva visto da lontano era proprio Calum, o la sua proiezione, o un sogno rivelatore. La Sophie adulta lo abbraccia, lo allontana. Si scontrano, si stringono in un groviglio di amore e violenza, risentimento e mancanza. Una manciata di scene devastanti in cui quel poco che si vede esplode in un incontro/scontro che è in fondo una fantasia, o un desiderio mai realizzato.

Della vacanza rimangono vari nastri e sul finale una bambina che saluta il papà. Sophie si osserva, campo e controcampo di passato e presente si valutano.

SPOILER – La regista però vuole mostrare anche un altro controcampo, ovvero Calum dietro alla videocamera, che guarda la figlia di fronte a sé salire sull’aereo che la riporterà a casa dalla madre. Abbassa la videocamera, interrompe la ripresa, percorre il corridoio dell’aeroporto uscendo da una porticina affacciata su quella sala di luci accecanti, il rave/visione di Sophie in cui ha imparato a conservare anche le ombre di suo padre. Lì vivono tutte quelle sensazioni a cui ha dato un senso solo dopo. Dopo la Turchia, dopo il ritorno a casa, dopo la polaroid sbiadita di una serata con l’uomo che allontanava la nostalgia ballando con lei Under Pressure.

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“Verità” – La vita bugiarda degli adulti

Verità La vita bugiarda degli adulti
La Vita Bugiarda Degli Adulti. (L to R) Giordana Marengo as Giovanna, Valeria Golino as Vittoria in episode 106 of La Vita Bugiarda Degli Adulti. Cr. Eduardo Castaldo/Netflix © 2022

Indelebile e profondo, l’ultimo episodio di La vita bugiarda degli adulti, “Verità”, merita un approfondimento a parte. È quello che, più degli altri, una volta che hanno inizio i titoli di coda, si fatica ad accettare. Sarà per quella crudeltà che deriva dal tratto della penna di Elena Ferrante e che Edoardo De Angelis ha saputo rielaborare con la medesima intensità, ma la rivelazione della verità (esattamente come viene intitolato l’episodio) fa sempre molto male, specialmente se amara.

Una bugia, perché è bella

Giovanna (Giordana Marengo), la giovane protagonista, si interfaccia un’ultima volta con zia Vittoria (Valeria Golino) e scopre che anche quella donna, che ai suoi occhi sembrava l’unica ad agire senza dover crogiolarsi nel manto oscuro della menzogna, in realtà ha mentito. La nipote, in un battito di ciglia, perde ogni considerazione positiva nei confronti della zia, riponendola immediatamente nel cassetto degli “oggetti da dimenticare”, insieme agli altri adulti.

Quella zia che tanto si era eretta a paladina dell’amore e della verità, non era altro che una bugiarda, esattamente come tutti. Si faceva vanto di non essere più stata con nessun altro dopo il suo amato Enzo, e invece, con opera di omissione spudorata, rivela a Giovanna, che in cambio di qualche favore, si ritagliava del tempo in compagnia di altri uomini. 

Il momento topico della rivelazione segue con la domanda sconcertata della nipote: “Zia ma perché mi hai detto una bugia?” e Vittoria, con fare assolutamente sciolto e disinvolto le risponde “Perché è bella”, condannandosi definitivamente al lato oscuro e menzognero degli adulti.

Il finale offerto dalla serie mostra la risposta della verità, che si ribella alla vita bugiarda. Una scelta, che coraggiosamente viene presa da Giovanna e dall’amica Ida (Azzurra Mennella), di allontanarsi da Napoli, e dalla falsità incontrollabile, perseguendo nuove strade, lontane ed incontaminate. 

Diversamente accade per zia Vittoria che è destinata al tormento, alla tristezza e a ritornare in quei luoghi che lei stessa ha sempre detto di disprezzare, ma che in realtà, in fondo, le appartengono. Luoghi in cui Vittoria è costretta a tornare per sempre e in cui si fa spazio la borghesia falsa, costituita da persone, che devono dimostrare continuamente a loro stesse il proprio valore. Ciò accade perché la vita è esattamente come emerge dal dialogo tra Antonio Capuano e Fabietto Schisa, in È stata la mano di Dio, alla fine si ritorna sempre a sé stessi, al proprio dolore, e nessuno può ingannare il proprio fallimento. È ciò che subisce zia Vittoria, il ritorno al suo fallimento, nei luoghi che lei ha sempre odiato.

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Tutti Fenomeni – Il concerto all’Hiroshima Mon Amour

Tutti Fenomeni tour 2023
Tutti Fenomeni tour 2023

Tutti Fenomeni in concerto all’Hiroshima Mon Amour di Torino il 12 gennaio accende le luci di scena e spegne il circo dello spettacolo pop.

Reduce da due album complessi, sfaccettati e poliedrici, pieni di influenze dall’alto del prog italiano, della Bibbia e della letteratura greca, dal basso del glorioso passato come quinto Tauro Boys, da Tutti Fenomeni ci si aspetterebbe uno Spettacolo. E invece no. Non c’è niente di fenomenale, niente di pop, niente di superfluo oltre ai singoli pezzi in tracklist, fatti e finiti. La magia è sotto al palco.

Si varcano le soglie della sala Majakovskij tra una Tuborg in bicchieri di plastica e una giacca di Humana Vintage buttata in un angolo e si entra in una strana marmellata di tamarri e hipster, boomer e liceali. Un’accozzaglia di background e gusti che poco sembrano avere a che fare tra di loro.

Eppure tutti cantano le stesse canzoni, ballano sulle stesse note e gridano gli stessi cori chiamando questo o quel brano che ancora non è uscito dalla scaletta. In un bizzarro spirito retrò, nessun cellulare in vista, solo qualche anacronistica fotocamera digitale portatile che flasha sulle amiche abbracciate, le nuche con i mullet e i gin tonic.

Brindiamo alla mia e alla tua generazione

Si va a vedere Tutti Fenomeni per dare una forma allo spettacolo che accade in studio, fuori da occhi indiscreti. Dove si cucinano sonorità elettroniche dalle architetture spigolose, ostili ad un primo ascolto distratto; narrazioni epiche mescolate a battute su Tinder sotto la cappa del nichilismo e il disincanto esistenziale.

Acchiappa il pubblico al grido di: “Siamo una generazione di merda o no?”. Eccome se lo siamo, rispondono i baby boomers, i millenials e gli zoomers insieme.

Tutti Fenomeni sul palco fa il minimo indispensabile, ed è giusto così. Sorride di fronte alla folla acclamante ma non ringrazia, si fa toccare dagli irriducibili delle prime file, ma prima chiede il perché, con un adorabile, sprezzante snobismo. Il bis lo deve fare, ma suona i brani che gli pare, perché sì.

Lo spirito è tutto qui: intellettuale paraculo con un pizzico di gusto trap, che infatti piace ai fan dei Pippo Sowlo e di Nello Taver, ma pure a quelli di Lucio Battisti.

Tutti Fenomeni è l’ultimo indie rimasto in uno scenario post-apocalittico post-Calcutta, in cui non c’è più spazio per i brutti outfit, gli occhiali da sole, le canne sul palco.

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Jonathan Majors prima del MCU: The Last Black Man in San Francisco

The Last Black Man in San Francisco

Prima che diventi solo Kang il Conquistatore del Marvel Cinematic Universe – già visto in Loki e presto sul grande schermo con il prossimo Ant-Man, scoprite chi è Jonathan Majors. Protagonista di una serie straordinaria come Lovecraft Country, la sua carriera inizia a teatro e nel cinema indipendente. Attira per la prima volta l’attenzione della critica con il ruolo di Mont in The Last Black Man in San Francisco, un film-da-Sundance, surreale, super indie, un po’ sopra le righe, di una bellezza delicata proprio come il suo personaggio.

Una città da salvare

L’ultimo uomo nero a San Francisco non è Mont, è il suo amico Jimmy (Jimmy Fails). E non è davvero l’ultimo in senso apocalittico. Non c’è nessuna fine del mondo in vista, nonostante i pesci della baia abbiano improvvisamente qualche occhio in più e gli uomini bianchi si aggirino con le tute anticontaminazione nei quartieri di periferia. Sono questi gli elementi surreali che dettano l’umore generale del film, sospeso tra una fantasia dai contorni sfocati e una realtà lucidissima.

Jimmy è l’ultimo uomo nero perché è l’ultimo che resiste alla gentrificazione. Vuole tornare nella casa della sua infanzia, quella nel quartiere di Fillmore, ormai abitato solo da bianchi. Lì c’è la villetta con “il cappello da strega” che gli appartiene, custodita nella memoria e a cui intende tornare. Decide così di occuparla insieme a Mont e continuare a prendersene cura come fosse cosa viva e pulsante, parte stessa di sé.

Una storia vera

Jimmy Fails è il nome del personaggio e dell’attore che lo interpreta. Non è un caso. Jimmy infatti, come autore del soggetto, ha voluto raccontare in parte la sua storia, aiutato dall’amico regista Joe Talbot, al suo esordio cinematografico. Per realizzare The Last Black Man in San Francisco i due hanno avviato una campagna di crowdfunding su Kickstarter, conclusasi nel migliore dei modi possibile quando Danny Glover, grande attore originario di San Francisco, ha abbracciato il progetto, entrando in una piccola parte, il nonno di Mont.

Per il ruolo di Mont, appunto, la scelta è ricaduta su Jonathan Majors che ne ha fatto un personaggio complesso, persino da descrivere. Mont rimane un passo indietro, sempre accanto a Jimmy. È gentile, premuroso, attento, sensibile a tal punto da sembrare quasi stralunato, immerso in una dimensione tutta sua. Eppure è sempre molto lucido e razionale, un osservatore attento che assorbe tutto ciò che gli accade intorno e lo riversa nei suoi personaggi, nei suoi drammi teatrali. La sua fisicità imponente, unita alla scelta di vestirlo sempre fuori dal tempo, tra il dandy e i vecchi vestiti del nonno – in contrasto con la modernità di Jimmy – lo rendono un personaggio stridente. È la sua capacità di fare attrito con tutto il resto, tuttavia, a farne un co-protagonista memorabile.

The Last Black Man in San Francisco è disponibile su Netflix. Per altre recensioni continua a seguire FRAMEDSiamo su FacebookInstagram Telegram.

Quando il videogioco incontra la serie televisiva: l’arrivo di The Last of Us

The Last of Us videogioco
The Last of Us. Naughty Dog

Il 15 gennaio 2023 (il 16 in Italia) arriverà la nuova serie HBO The Last of Us, realizzata da Craig Mazin e Neil Druckmann, quest’ultimo anche co-presidente di Naughty Dog, la casa videoludica ideatrice del gioco omonimo.

Joel (Pedro Pascal) ed Ellie (Bella Ramsey) si dovranno fare strada in un’America colpita da un’epidemia che ha trasformato le persone, affrontando le circostanze più difficili e brutali con il solo scopo di sopravvivere.

Questa prima stagione di The Last of Us è tratta dalla versione del videogioco del 2013 che, per chi non lo sapesse, segnò un’intera generazione della storia dei videogiochi, entrando nel cuore di tantissimi fan. Uno dei titoli più acquistati e più premiati di sempre nel settore, con oltre 250 riconoscimenti.

Le modalità di gioco erano abbastanza semplici: lo scopo era sopravvivere. Semplicemente sopravvivere. Detta così forse sembra facile, ma non lo è mai se devi contare su poche risorse (pochi medicinali, oggetti e strumenti improvvisati, trovati in giro) e confrontarti con nemici agguerriti in un mondo ostile.

Nel giugno del 2020, molti anni dopo, esce The Last of Us 2, il sequel, anche questo fa incetta di premi, colpendo sempre per la sua narrativa e le modalità di gioco. Al momento, tuttavia, non è stato reso noto se anche questo titolo diverrà parte dell’adattamento televisivo. Una seconda stagione dipenderà dal successo della prima.

La speranza può nascere anche in un mondo in rovina

Cosa ha reso così popolare The Last of Us da arrivare addirittura alla produzione di una serie tv in cui, va detto, è stato speso un budget non indifferente?

Le circostanze in cui si muovono i personaggi nel gioco non sono poi così “innovative”: gli zombie, un’epidemia e uno scenario post-apocalittico che nel cinema americano è già visto e rivisto. Tuttavia Neil Druckmann (appassionato di storytelling) e Naughty Dog sono riusciti a creare una storia a suo modo originale.

Il rapporto che si crea tra Joel e Ellie è il vero cuore pulsante della trama del gioco, curioso sarà vedere come questo verrà sviluppato nella serie televisiva, perché è chiaro che parliamo di due media diversi con esigenze narrative ben differenti sia per forme sia per ritmi.

The Last of Us è un viaggio, un lungo e difficile viaggio che porta il giocatore ad affezionarsi ai protagonisti vivendo insieme a loro i momenti peggiori, provando quei sentimenti di desolazione e terrore tipici del genere, ma attraverso un legame saldo e ben gestito tra i protagonisti che regalerà anche momenti commoventi ed emozionanti.

Ci saranno differenze sostanziali tra videogioco e serie televisiva? La storia sarà comprensibile a tutti?

È più che normale che vi siano dei piccoli cambiamenti, in quanto adattare la scrittura di un videogioco è ben diversa dall’adattamento di una serie televisiva. Lo stesso discorso si potrebbe fare anche con quei film che vengono tratti dai romanzi e dalla letteratura.

Sarebbe impossibile (e anche sbagliato) pretendere l’identità fra le due storie, anzi, è giusto che la serie tv mostri a modo suo quella storia che ha fatto innamorare milioni di fan. Tuttavia Druckmann e Mazin hanno assicurato che non ci saranno stravolgimenti di trama e rimarranno fedeli al videogioco, a differenza di Game of Thrones, paragone utilizzato dallo stesso Druckmann in accezione (ovviamente) negativa.

Di seguito una dichiarazione di Craig Mazin:

Druckmann, in quanto creatore del gioco, e io, in quanto fan del gioco, ci siamo presi cura di tutti i fan, ma anche di tutte le persone che non hanno giocato al gioco e che hanno bisogno di un’esperienza televisiva che sia globale e connessa a se stessa, e che non dia l’idea che sia necessario giocare un gioco per poterla capire

Queste parole rispondono a un’altra importante domanda: dovete aver giocato il videogioco per comprendere la serie? Assolutamente no, sarà comprensibile per chiunque, ma sarà anche subito riconoscibile ai fan, già impressionati positivamente. Dai primi trailer, in effetti, gli scenari dell’America in rovina sembrano quasi dei fotogrammi dello stesso videogioco.

Le aspettative sono alte e il cast promette davvero bene, ma ciò che entusiasma di più è che The Last of Us è un eccellente esempio di come i videogiochi, da medium “di nicchia” per appassionati, riescano a invadere anche l’intrattenimento televisivo, cinematografico e letterario.

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Le vele scarlatte (L’envol) | La mistica del femminile

Le vele scarlatte (L'Envol), 01 Distribution
Le vele scarlatte (L'Envol), 01 Distribution

Liberamente tratto dal romanzo dell’autore russo Aleksandr Grin, Vele scarlatte (1923), il nuovo film di Pietro Marcello intitolato Le vele scarlatte (L’envol) vive di una lirica vibrante, che si mette al servizio di una storia in cui la “magia” femminile è alla base della favola che il regista sceglie di raccontare.

Lungometraggio d’apertura alla Quinzaine des Réalisateurs del 75º Festival di Cannes e girato interamente nel nord della Francia, Le vele scarlatte è la storia di una famiglia, di un padre e di sua figlia. Un film “femmina”, come ha detto lo stesso Pietro Marcello, in cui le donne cercano il loro posto, trovandolo in una società che continua ad ostacolarne i successi.

Trovare una figlia – Sinossi

Subito dopo la prima guerra mondiale, il soldato Raphaël (Raphaël Thiéry), torna a casa per raggiungere il luogo dove aveva lasciato la sua amata. Al suo posto troverà una figlia ancora piccolissima, Juliette, cresciuta da una donna, Adeline (Noémie Lvovsky), che offre anche all’uomo un posto dove stare nella fattoria dove quasi tutto il film si svolgerà.

Juliette vive in mezzo alla natura e ha una sensibilità spiccata, è appassionata di canto e musica e non lascia mai il padre, verso cui nutre un grande amore. Raphaël è un uomo buono ma molto sfortunato, che intaglia giocattoli in legno e protegge la figlia da chi potrebbe farle del male, da chi tempo addietro ha fatto del male a sua madre.

Le vele scarlatte sono frutto di una profezia, il simbolo di un viaggio, della crescita della ragazza e del suo futuro lontano da lì. Il folklore e il misticismo della terra e del femminile rivivono nel percorso della Juliette che diventa donna (l’esordiente Juliette Jouan), si innamora e trova la sua strada.

Le vele scarlatte (L’Envol), 01 Distribution

La forza visiva di un racconto che vuole rimanere semplice

La passione per le immagini d’archivio non è nuova nella produzione di Pietro Marcello e anche qui (come nel suo precedente Martin Eden, 2019) la ricercatezza di flash visivi e di tasselli da intersecare alla storia di finzione produce un coinvolgimento emotivo e visivo legato proprio alla poesia finale di tale accostamento.

Emerge l’amore per gli archivi dell’autore, che è poi un sentimento di rispetto e devozione per la nostra storia visuale: ne Le vele scarlatte filmati d’epoca girati negli stessi luoghi della crescita di Juliette si mischiano alle riprese attuali. La sovrapposizione rivela anche vari omaggi al cinema, come ad esempio con l’inserimento di alcune immagini tratte del film di Julien Duvivier Au Bonheur des dames (1930). In molti momenti la ricostruzione storica è affidata proprio alla vera Storia, che emerge tra le sequenze per dare a chi guarda quelle suggestioni. Il risultato è un coinvolgimento immediato, semplice e diretto.

Rileggere il passato attraverso le idee del presente

Parlare di emancipazione femminile suona quasi retorico, ma non nel contesto scritto per il film in cui Pietro Marcello inserisce un’attualizzazione della novella di cento anni fa. A differenza del testo di Grin, la madre di Juliette non muore di polmonite ma in seguito a uno stupro. Nella stessa ottica anche il personaggio dell’aviatore Jean (Louis Garrel), di cui la protagonista si innamora, è molto diverso dal libro.

Nell’ambientazione viva e quasi incantata che ospita la crescita di Juliette, le donne sono la forza che governa il destino del mondo. Sono “streghe” che poggiano piedi nudi sull’erba bagnata, sono in contatto con la natura e hanno visioni di ciò che succederà, come la maga del bosco che per la prima volta le menzionerà le vele scarlatte. La potenza del film sta nella semplicità dello sguardo, femminile e leggero, ma anche mistico e poetico, quello di Juliette che decide come vivere.

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Una relazione per un’Accademia | La lacerazione fra umano e animale nell’adattamento di Kafka all’Argot

Una relazione per un’Accademia. Tommaso Ragno all'Argot Studio
Una relazione per un’Accademia. Tommaso Ragno all'Argot Studio

Tre faretti freddi su una sedia dalla struttura singolare, un po’ sgabello un po’ trespolo: di lì a poco scranno perfetto da cui il protagonista si esporrà all’Accademia, ossia a noi spettatori. Lo sguardo vaga nei pochi minuti che servono alla sala del Teatro Argot, a Trastevere, per riempirsi.

Solo altri due neon, più caldi e gialli, completano la scena concentrando, nell’uso dello spazio e nel contrasto di luci e ombre, tutta l’attenzione al centro. Tommaso Ragno entra nei panni di Pietro il Rosso, lo scimpanzé che nel testo di Kafka è obbligato a presentare la relazione per un’accademia che diventa il titolo di questo monologo.

La scimmia ha infatti imparato così bene, in soli cinque anni, a imitare gli uomini da attirare l’attenzione della comunità scientifica e antropologica. I movimenti e i gesti – studiatissimi nei dettagli da Ragno – rimangono quelli dell’animale.

Con le sue nuove capacità dialettiche, tuttavia, Pietro il Rosso è chiamato a raccontare la sua vecchia vita di scimpanzé e ben presto si accorge che la consapevolezza crescente di sé depotenzia la percezione ancestrale del proprio Essere. È difficile, se non impossibile, ripercorrerne le caratteristiche attraverso il linguaggio e la parola. Pietro il Rosso – chiamato così per via della cicatrice di un vecchio sparo dei suoi rapitori, che gli sfiora la guancia lasciando la carne a vista tra la pelliccia – racconta così la sua cattura, la sua prigionia. Spiega come, per trovare una via di fuga che rifiuta di chiamare libertà – concetto soltanto umano – abbia scelto di imitare i suoi aguzzini e intrattenerli con il varietà, invece di morire dentro un’altra qualsiasi gabbia.

Nel suo largo frac, segno tangibile della costrizione della natura – “Io i pantaloni a casa mia li tolgo quando mi pare!” – dentro un abito e una forma precostituiti, Pietro il Rosso si rivolge direttamente alla platea.

La forza dello spazio

Lo spazio ristretto e privo di palco dell’Argot permette di guardarsi negli occhi, di percepire lo sguardo di Pietro/Ragno su di sé, che scava mentre racconta ininterrottamente. Già da quando si spengono le luci il pubblico sembra trattenere il fiato, in un silenzio irreale e totale – quello della prima di giovedì 12 gennaio – che emoziona da subito, perché indice di uno stato d’animo unico e condiviso: platea o Accademia, siamo tutti lì per ascoltare Ragno e il suo Pietro.

Nemmeno il breve squillo di un cellulare rompe l’idillio (spegneteli almeno a teatro, dai!). È così che quando lui getta, letteralmente, giù la maschera per qualche minuto, per raccontare la stessa storia da una prospettiva diversa, il pubblico “resta” ancora con lui, credendogli sempre fino in fondo.

Una relazione per un’accademia è quindi una storia di metamorfosi kafkiana, certo, ma soprattutto una riflessione sulla lacerazione tra umano e animale. Ben chiara in quell’ultima immagine in cui Pietro/Ragno, in piedi sulla sedia, riflette la sua enorme ombra scimmiesca sul fondo della parete. O nel Così parlò Zarathustra di kubrickiana memoria, che sulle note di Strauss segna una nuova evoluzione.

Info utili

Per partecipare alle attività culturali di Argot Studio è necessario effettuare il tesseramento su www.teatroargotstudio.com/tesseramento o presso il botteghino prima dello spettacolo. Per info e prenotazioni chiamare 06 5898111 o scrivere a [email protected]. Maggiori informazioni su: www.teatroargotstudio.com

Biglietti: 10€ intero, tessera associativa 5€

Per altre novità dal Teatro Argot Studio di Roma, di cui FRAMED è media partner, continuate a seguirci anche sui social. Siamo su FacebookInstagram Telegram.

Marcel the Shell with the Shoes On e il desiderio di guardare il mondo come i bambini

Marcel the Shell

Il titolo è già uno scioglilingua, indice dello spirito con cui Marcel the Shell with the Shoes on dovrebbe essere guardato e interpretato. È un gioco di adulti che sognano di tornare bambini ma che, sapendo di non poterlo fare fino in fondo, mantengono sempre la nostalgia di un’attitudine persa per sempre. È il gioco di Dean Fleischer Camp, regista, e Jenny Slate, co-sceneggiatrice e doppiatrice di Marcel (oltre che attrice comica celebre negli Stati Uniti). La coppia torna a lavoro insieme sul lungometraggio, il primo per Fleischer Camp, dopo una serie di fortunati corti con protagonista la piccola conchiglia con le scarpe e un occhio solo.

Il falso documentario

Marcel vive in una casa ormai vuota, adibita ad alloggio Airbnb, con l’anziana nonna (Isabella Rossellini). C’erano tante altre conchiglie come lui e la nonna, una volta. Erano una famiglia, una comunità. Tutto è cambiato nel momento in cui gli umani si sono separati, svuotando la casa e portando via da un cassetto, senza saperlo, tutta la vita e gli affetti di Marcel. A raccontarlo è lui stesso, minuscolo e curiosissimo, quando Dean il regista arriva nell’Airbnb e, scoprendo la sua presenza, inizia a riprenderlo.

Colpisce subito l’idea del mockumentary in stop motion, un dialogo fra il regista e la conchiglia che riproduce, o almeno prova a riprodurre, una struttura classica di documentario in cui l’osservatore si fa invisibile e lascia che sia l’osservato a raccontarsi da sé. Ci prova perché in realtà Marcel è incuriosito da tutto, incapace di resistere alla tentazione di fare domande, di scoprire come funziona la videocamera, di far finta che non si crei un legame con Dean.

Così Marcel impara ogni minuto di più, assorbe come una spugna tutto ciò che Dean gli spiega e gli fa scoprire. A loro volta, tutte le domande che fa, incessantemente, insegnano qualcosa a Dean e al pubblico. Insegnano a guardare di nuovo il mondo con la mente libera dei bambini.

La sua vocina – un grande lavoro di Jenny Slate – disarma lo spettatore con tenerezza e spontaneità. Al tempo stesso il suo umorismo – sempre opera di Slate – induce a nuove riflessioni, da punti di vista diversi dal solito. Fa ridere ma anche riflettere, si direbbe con un meme. E commuove.

Il metalinguaggio, del cinema nel cinema, non è poi altro che la ciliegina sulla torta, un gioco cinefilo che rende Marcel the Shell with the Shoes on un film-fenomeno, come spesso accade con i titoli A24. Nel 2022 ha collezionato una quindicina di premi, nel 2023 ha già centrato i due obiettivi più importanti: i Golden Globes e la shortlist degli Oscar. Non vedete l’ora anche voi di conoscere Marcel?

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Titanic torna nelle sale italiane dal 9 febbraio

Titanic torna al cinema
Titanic torna al cinema

Titanic, il film di James Cameron tornerà il 9 febbraio nelle sale italiane in occasione del 25° anniversario.

Per celebrare il suo 25° anniversario, una versione rimasterizzata di Titanic, il film di James Cameron vincitore di 11 Academy Award, tornerà nelle sale cinematografiche in 3D. Con un cast guidato dai vincitori del premio Oscar Leonardo DiCaprio e Kate Winslet, il film è un’epica storia d’amore ricca di azione ambientata nello sfortunato viaggio inaugurale dell’”inaffondabile” Titanic, all’epoca il più grande oggetto in movimento mai costruito.

Titanic ha vinto un record di 11 Academy Award, tra cui miglior film, miglior regia, miglior fotografia, miglior montaggio, miglior scenografia, migliori costumi, miglior colonna sonora originale, miglior canzone originale, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro e migliori effetti speciali. Alla sua prima uscita, nel 1997, il film è diventato il campione d’incassi mondiale numero uno di tutti i tempi ed è attualmente il terzo film di maggior incasso a livello mondiale.

Paramount Pictures e 20th Century Studios presentano una produzione Lightstorm Entertainment, Titanic, con Leonardo DiCaprio, Kate Winslet, Billy Zane, Kathy Bates, Frances Fisher, Bernard Hill, Jonathan Hyde, Danny Nucci, Gloria Stuart, David Warner, Victor Garber e Bill Paxton. 

Scritto e diretto da James Cameron, il film è stato prodotto da Cameron e Jon Landau, mentre Rae Sanchini è la produttrice esecutiva.

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