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Caleidoscopio, cosa funziona e cosa si inceppa nella serie-esperimento Netflix

Caleidoscopio Netflix
Kaleidoscope. Giancarlo Esposito as Leo Pap in episode “Blue” of Kaleidoscope. Cr. Courtesy of Netflix © 2022

Non numeri ma colori, gli episodi di Caleidoscopio possono essere guardati in ordine casuale o scegliendone uno proprio, che sia cronologico o da classica detective story, con i flashback puntuali a ogni colpo di scena. A ulteriore conferma del fatto che ciascuno degli otto episodi possa essere guardato a sé, senza intaccare il resto, è il fatto che ogni utente Netflix abbia una lista diversa, con l’eccezione del finale, l’episodio Bianco, idealmente uguale per tutti.

L’intera promozione della serie vende la formula caleidoscopica, a partire da titolo, ancor prima che il contenuto. È un gioco, un puzzle da costruire a piacimento, al di là di quel che viene fuori.

Il grande colpo

In termini tecnici, Caleidoscopio è una serie “heist”, ossia una storia che ruota attorno a un grande colpo da mettere a segno, un gruppo di abili ladri e molta azione intorno. L’elemento che mette insieme il gruppo e attira l’attenzione del pubblico è sempre il/la mastermind, ruolo in questo caso in parte ricoperto Giancarlo Esposito (Leo Pap/Ray Vernon). È lui cioè che pianifica nei minimi dettagli e con grande intelligenza il grande colpo da 7 miliardi di dollari. Dire di più sarebbe un fastidioso spoiler.

Easter egg, avanti e indietro nel tempo

In base all’ordine che si sceglie o che capita, la storia di questo eterogeneo gruppo di ladri si stratifica con dettagli minimi ma essenziali: oggetti, gioielli, volti, disegni su t-shirt. Sembrano insignificanti easter egg e invece nascondono colpi di scena. È chiaro, tuttavia, che un ordine cronologico c’è ed è parte integrante della storia, soprattutto quando si scava nel passato dei protagonisti. Abituato a una struttura lineare, il pubblico tende a sommare gli indizi che individua man mano, perciò viene da chiedersi se l’esperimento abbia davvero senso, se lo scopo con cui si guarda la storia è quello di “rimetterla in ordine” in ogni caso.

In breve

Caleidoscopio fa per voi se cercate una serie in cui Giancarlo Esposito sia finalmente protagonista e se le incursioni fra passato e presente – piccoli spoiler di cui ci si accorge dopo – non disturbano la vostra visione anzi incrementano la vostra curiosità. Troverete in questi otto episodi un divertente passatempo che tuttavia, anche per la loro struttura, inciampano in una scrittura che, per reggere l’esperimento, dovrebbe essere perfetta e di una logica inattaccabile. Purtroppo non lo è, ma conquista ugualmente fino al binge-watching.

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Glass Onion: A Knives Out Mystery, un nuovo caso nel segno di Benoit Blanc

Glass Onion. Netflix
Glass Onion. Netflix

È stato uno degli eventi caratterizzanti lo scorso anno, inseritosi nella chiusura perfetta di quello che è stato un anno prolifico e di rinascita per il cinema (ma anche per le piattaforme streaming). Sto parlando di Glass Onion, secondo capitolo della saga mistery di Knives Out, che è arrivato su Netflix il 23 dicembre, dopo essere passato nelle sale cinematografiche l’ultima settimana di novembre.

Spetta di nuovo a Rian Johnson il compito di dirigere un nuovo cast di stelle composto da Kate Hudson, Dave Bautista, Madelyn Clin, Edward Norton, Kathryn Hahn, Janelle Monáe, Leslie Odom Jr. e Jessica Henwick, con il ritorno di Daniel Craig nei panni del detective Blanc.

Glass Onion: un ritorno coi fiocchi

Benoit Blanc (Daniel Craig) viene invitato dal miliardario Miles Bron (Edward Norton) a un’esclusiva vacanza su un’isola greca, insieme al gruppo di amici – altrettanto benestanti – di Bron, con lo scopo di partecipare a una particolare cena con delitto.

Quello che però l’eterogeneo gruppo non sa è che ciò che si preannunciava come un semplice gioco assumerà ben presto toni inquietanti: alcune terribili verità verranno presto smascherate. Rian Johnson torna nei panni di sceneggiatore e regista nel secondo capitolo del fortunato Knives Out, che nel 2019 aveva ristabilito le sorti del genere giallo.

Nuovo anno, nuovo mistero e ovviamente un nuovo caso da risolvere. Candidato a due Golden Globe, Glass Onion ribalta ancora una volta le carte in tavola seminate dal suo predecessore, alzando i toni e l’asticella di una storia che fa di intrecci e colpi di scena il suo nucleo.

Dai primi minuti è facile intuire il peso del cambiamento sottointeso e quasi d’obbligo che ogni sequel degno di essere chiamato tale è “costretto” a sostenere. Se in molti casi nuoce e mina l’intera stabilità di una saga, qui non è così e dalle fondamenta poste con Knives Out, la prima impalcatura di una saga di successo prende forma, plasmata da un regista che sa il fatto suo.

Avete mai giocato a Cluedo?

Daniel Craig si cala in una nuova indagine nel ruolo dell’irriverente Benoit Blanc: detective che racchiude alcune delle caratteristiche migliori degli investigatori più celebri dei racconti gialli – quali Hercule Poiroit e Sherlock Holmes – e che funge da catalizzatore determinante della linea di narrazione contenuta all’interno dell’intero lungometraggio. Una vera e propria forza della natura, che trova la sua massima espressione in un racconto dalle tinte più impegnate e intriganti.

A tutti i personaggi viene data una propria e ben definita identificazione, andando di conseguenza oltre a quella che può rischiare di divenire una presentazione superficiale. Glass Onion è una cena con delitto che va oltre la messa in scena, superando i propri confini e delineando un nuovo orizzonte all’interno del cinema giallo. Un Cluedo cinematografico che riesce a oltrepassare la bidimensionalità, passando dal gioco da tavolo al linguaggio cinematografico, profilando nei minimi dettagli ciascuno dei suoi partecipanti.

Glass Onion. Netflix

Glass Onion: un sistema fragile quanto un vetro

Nonostante la trama si fondi su una sceneggiatura priva di fronzoli, abile e concisa, è innegabile la presenza di una componente di smascheramento e di denuncia nei confronti di un sistema altamente corrotto.

La ricchezza dei protagonisti viene ostentata fino al limite, mostrata in tutte le sue sfaccettature, arrivando a delineare le sorti di una struttura sociale che fa del potere e dell’inganno le proprie armi predilette. Arma a doppio taglio e difficile da maneggiare, la ricchezza si palesa nella sua forma peggiore ed è la causa di tutto ciò che di marcio ribolle nel gruppo.

La lettura etica non manca e trova nella storia la sua massima espressione nella rappresentazione dei protagonisti. Antitesi di Knives Out, Glass Onion mostra quanto in realtà un sistema all’apparenza stabile e fortificato sia la maschera perfetta di un mondo frivolo e fragile, come un vetro.

Tema ricorrente nella narrazione è proprio il vetro, ma soprattutto quanto il materiale sia imprevedibile e difficile da maneggiare. La fine del film è l’ultimo atto di disgregazione ed impotenza di fronte ad una rottura permanente di un equilibrio erroneo, nei confronti di cui l’essere umano, inerme, non può far altro che rimanere a guardare.

Una nota per i fan dei gialli: in Glass Onion c’è l’ultima apparizione della nostra amata Angela Lansbury.

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La vita bugiarda degli adulti | Crescere per diventare cosa, per somigliare a chi?

La vita bugiarda degli adulti
La Vita Bugiarda Degli Adulti. (L to R) Valeria Golino as Vittoria, Giordana Marengo as Giovanna in episode 103 of La Vita Bugiarda Degli Adulti. Cr. Eduardo Castaldo/Netflix © 2022

Dal 4 gennaio è disponibile su Netflix la nuova serie La vita bugiarda degli adulti, di Edoardo De Angelis, ispirata al libro di Elena Ferrante, pubblicato nel 2019 da E/O.

Sinossi 

Napoli, anni ’90. Giovanna Trada (una bravissima Giordana Marengo) è un’adolescente ribelle e borghese, in cerca della propria identità. Legge molto, è intelligente, caparbia, sveglia, nonostante il suo calante rendimento scolastico. Il padre Andrea (Alessandro Preziosi), la paragona un giorno a sua sorella, zia Vittoria (Valeria Golino), il cui volto è censurato in tutte le fotografie di famiglia. La giovane è fortemente incuriosita dalla zia, tanto da volerla conoscere. Così le due si incontrano in un quartiere popolare e periferico di Napoli e da quel momento iniziano a costruire un forte legame, che condurrà Giovanna a scoprire tantissimi segreti della sua famiglia.

La falsa realtà “adulta” 

La vita bugiarda degli adulti è un racconto di formazione rivolto a tutti, senza distinzione d’età e di genere. Si muove dentro una vita mendace, all’interno e all’esterno dei personaggi, servendosi della menzogna, per definire il percorso di crescita, di scoperta e riscoperta di Giovanna e del mondo che la circonda. 

Edoardo De Angelis, con l’intervento nella sceneggiatura di Laura Paolucci, Francesco Piccolo e la stessa autrice del libro, traspone in una serie la penna acuminata di Elena Ferrante, ottenendo un buon risultato.

Rimanendo fedele alle pagine del romanzo, il regista maneggia con cura l’irriverenza dei sentimenti struggenti, come l’umiliazione, la dignità, il coraggio, rendendoli sensoriali, tattili. Un vessillo di verità celato sotto il manto delle bugie degli adulti.

Al centro della narrazione troviamo due figure meravigliose, estremamente affascinanti, Giovanna e zia Vittoria, uguali nella forma e nella sostanza, tranne che per la macchia finale di quest’ultima, vittima della falsità del mondo adulto, incline a mistificare la realtà della vita. La vita, tuttavia, rimane semplicemente la vita, e scorre a prescindere dai falsi miti e dalle favole ipocrite, fittizie, contraddittorie dei “grandi”, che vengono raccontate esclusivamente per abbellirla.

Da questa fitta rete di menzogne, la giovane protagonista, trae linfa e trafuga ceneri dalle quali riemergere e ricostruire la propria identità, mediante la rivelazione finale della verità. 

“Per essere donna devi fare cap e cess, devi farti male”, incita zia Vittoria. Parole che suonano come rito di iniziazione alla vita adulta, condannata alle grinfie della fandonia. Un passaggio generazionale ruvido, spigoloso e brutale.

La libertà della figura femminile

La regia pone l’attenzione sulla figura femminile impetuosa, ribelle e che di fronte alla cruda realtà degli uomini, decide di non affidarsi alla falsa diligenza, di doversi “preservare” e “conservare”. 

Giovanna e Vittoria rappresentano due facce della stessa medaglia.

La più giovane, ancora incontaminata, mentre la zia, in quanto adulta, ormai intrappolata nel vortice della verità, soltanto apparente. 

Due protagoniste, che incarnano le tipiche personalità narrate dalla Ferrante. Dirompenti, incisive, intellettualmente virtuose ed oneste, e che non temono mai il giudizio altrui. Donne, al pari di figure mitologiche, nonostante le loro fragilità, che si sentono libere di amare, di odiare, di desiderare e farsi desiderare. 

Una femminilità che non chiede di essere presa per mano e di essere protetta, ma solo di essere libera: una libertà manifestata nel rapporto con gli uomini, nella vita e nella scelta di voler credere, o meno, alle bugie.

“Napoli di sopra” e” Napoli di sotto”

Così come L’amica geniale, anche in La vita bugiarda degli adulti Napoli riveste il ruolo da co-protagonista. La città dai mille volti, dalle mille sfumature, fatta di strade, rioni, quartieri borghesi e periferici, che riflette precisamente l’individualità di Giovanna e zia Vittoria.

La “Napoli di sopra” è il Vomero, ricca, colta, “per bene”, abitata da professori intellettuali di sinistra, che non hanno nulla di cui preoccuparsi, se non del loro aspetto artefatto. Poi c’è però la “Napoli di sotto”, dimenticata da tutti, perfino da Dio, che vacilla tra il popolare ed il grottesco e dove la zia reietta è nata e cresciuta.

Due luoghi concettualmente distanti, ma che trovano definizione e motivo di esistenza l’uno nell’altro, diversi ma necessariamente complementari. Il Vomero, dall’alto, guarda il Pascone (Poggioreale), ma lo fa con silente ammirazione, rimanendone ammaliato da quella mistica pragmaticità, che solo un luogo di periferia può sprigionare.

È esattamente ciò che accade tra Giovanna e Vittoria. Apparentemente lontane, culturalmente diverse, ma legate inevitabilmente dallo stesso desiderio di libertà e di ribellione. Ma se per l’adolescente, la libertà è ancora raggiungibile, grazie alla corsa verso altri luoghi, per la zia, ormai è troppo tardi. Non c’è scampo per agli adulti, dalla loro vita bugiarda.

Illustrazione di Giuditta Matteucci

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I’M OPEN, COME IN – Intervista a Colombo

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Colombo. Intervista di Alessio Tommasoli

Per la nostra rubrica dedicata agli incontri con artisti emergenti del panorama musicale italiano, stavolta parliamo con Colombo. Partiamo da alcune essenziali domande, “per farci entrare dentro” il suo mondo, per dirla con le parole dei Pearl Jam: I’m Open, Come In, a cura di Alessio Tommasoli.

Il suo singolo Wild Nights è un riferimento alla poesia omonima di Emily Dickinson e a To love thee year by year, della stessa poetessa.

Da dove nasce la tua passione per Emily Dickinson?

Pur non essendo un vero appassionato di poesia, Emily Dickinson mi ha colpito da subito per diversi motivi: la sua storia personale; il parlare di temi universali come amore, vita, morte, in un modo che trascende il tempo e le epoche; l’estrema musicalità, potrei dire il “sound” delle sue poesie. Ho pensato da subito che sarebbe stato bello cantarle.

Unisci due sue poesie e ne fai un brano pop: pensi che lei avrebbe apprezzato?

A Emily interessava che le sue parole potessero arrivare al mondo, in qualunque modo, quindi forse avrebbe apprezzato. In ogni caso credo di non aver troppo decontestualizzato le sue opere, anzi spero di averle utilizzate in modo rispettoso.

La base musicale prende spunto dalla sinfonia di Dvořák intitolata Dal Nuovo Mondo, il tuo nome d’arte è Colombo. Qualche legame particolare con gli Stati Uniti o è solo un caso?

Colombo in realtà non si riferisce all’esploratore ma all’animale, per il suo spirito di adattamento. Non ho legami personali con gli Stati Uniti ma la sinfonia di Dvořák sì, perché fu scritta mentre il compositore lavorava a New York. Era una sinfonia che guardava al mondo futuro, un po’ come le poesie di Emily Dickinson.

Ascolta qui Wild Nights e continua a seguire FRAMED su FacebookInstagram Telegram.

I miserabili, la forza redentrice della miseria

I miserabili

La prima volta che compare nel testo la parola “miserabile” è riferita a un ladro, la seconda a un magistrato che ha esercitato il potere di vita e di morte. “I Miserabili”, opera cui Victor Hugo dedicò diciassette anni e che lui stesso considerava il suo capolavoro, è una critica spietata alle impalcature sociali, alle storture del diritto penale e ai sistemi di potere. È un «poema, più che romanzo», come scrisse Baudelaire, «un libro di carità» che vuole spingere il lettore a rielaborare il concetto di miseria, soprattutto nella sua accezione infamante.

Il sacrificio di Fantine, costretta al martirio dalla vigliaccheria dei profittatori. Le peripezie di Cosette, vittima inconsapevole della crudeltà umana. La ribellione di Marius ai costrutti familiari e sociali. La purezza di Gavroche, che cantando affronta i colpi della mitraglia. Hugo si serve di scene memorabili e personaggi immaginari, ma rappresentativi, per sollevare casi di grande complessità sociale. Le considerazioni sulla giustizia che vuole solo punire, sul sistema carcerario che spesso prende cittadini in difficoltà e sforna criminali, sulle stigmatizzazioni sociali che costringono all’isolamento denunciano l’inerzia della classe dominante nel garantire a tutti diritti e condizioni di vita umani. E le riflessioni che ne scaturiscono, per grandi tratti, mantengono ancora intatta la propria attualità.

La narrazione segue l’acrobatico destino di Jean Valjean, che si intreccia a quello della Francia fino a divenire epopea. Condannato per aver rubato un pezzo di pane, sconterà diciannove anni al bagno penale, uscendone sfigurato. Rifiutato dalla società, grazie alla santità di un vescovo diventerà il più grande esempio di virtù di tutta l’opera. E mentre l’ex forzato, con azioni provvidenziali, offre riparo agli oppressi, la società non gli concede il perdono.

Lo perseguita l’ispettore Javert, inflessibile servitore della giustizia dedito ad affollare carceri. Riuscirà a riconoscere Jean Valjean dietro i suoi travestimenti e i suoi mille volti, accorgendosi solo alla fine della caratura morale di quel «miserabile magnanimo», che gli svelerà «l’abisso in alto», cioè che c’è giustizia anche al di sopra della legge. Si rincorreranno per tutto il romanzo fino a sedere accanto nell’ultima scena. «Lo spettro» e «la statua», uno «fatto di ombra» e l’altro «di pietra».

La felicità, il dolore, la morte, la redenzione, la malvagità, l’amore puro e la rivoluzione. Nel libro c’è tutto. Hugo esplora l’umanità in tutte le sue sfaccettature, le sue grandezze e le sue meschinità. Lo sfondo è la Francia postnapoleonica, della quale si offre un dipinto particolareggiato. E aggiungono valore storico le digressioni sulla battaglia di Waterloo e i moti del 1832. Per questo, la prosa ottocentesca e la stessa mole dell’opera, la sua lettura esige un rispettoso impegno.

Dopo un simile viaggio nella condizione umana, alla fine, l’unico condannato senza appello è Thénardier, che impersona la «miseria morale irreparabile». È questo per Hugo il vero peccato imperdonabile, mentre la povertà e lo stigma che ne deriva sono solo costrutti sociali borghesi. Una condizione imposta che incoraggia il vizio oppure la virtù, a seconda dell’animo di chi è costretto alle «vergogne ingiuste e strazianti rossori della miseria». L’indigenza diventa così una «prova ammirevole e terribile da cui i deboli escono infami e i forti sublimi. Crogiuolo in cui il destino getta un uomo ogni volta che vuol creare un furfante o un semidio».

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The Handmaid’s Tale per chi non ha letto il libro o visto la serie

The Handmaid's Tale

Simbolo di femminismo e capacità visionarie, il romanzo distopico The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood (1985) – scrittrice e attivista canadese – già nel 1990 ha visto il suo primo adattamento cinematografico per la regia di Volker Schlöndorff. Dal 2017 la sua versione più celebre è l’omonima serie tv Hulu, tradotta in italiano come Il racconto dell’ancella, vincitrice di quindici Emmy Awards.

Di cosa parla The Handmaid’s Tale

In un mondo contemporaneo o in un futuro non troppo lontano, che non faticheremmo ad immaginare, la Terra è stremata dall’inquinamento, spolpata di materie prime, arida, secca, morta. Gli esseri umani, di conseguenza, corrono un grave rischio di estinzione: da anni la sterilità è un problema comune. Le donne spesso non riescono a rimanere incinte oppure faticano a portare avanti le gravidanze. In questo contesto si inserisce un gruppo di estremisti religiosi, I figli di Giacobbe, che vede nella situazione un segno divino, una punizione per i peccati, per l’abbandono delle regole morali e degli antichi ruoli sanciti nella Bibbia.

Negli Stati Uniti la situazione si fa sempre più critica, fino allo scoppio della guerra civile in cui I figli di Giacobbe prendono il potere con un colpo di stato, instaurando la Repubblica di Gilead, una dittatura teocratica di ispirazione biblica. Lo scopo principale di Gilead è proteggere la procreazione e risanare il mondo. I valori su cui si fonda sono tratti da passi dell’Antico Testamento, che diventano legge.

Uno dei più importanti è quello su Rachele, la moglie infertile di Giacobbe, che pur di generare un figlio così come da volere di Dio, offre al marito la schiava Bila. Proprio da questo passo nasce la figura dell’Ancella di Gilead, una ragazza fertile che, derubata della dignità e dell’identità, diventa una schiava sessuale dei grandi comandanti, stuprata una volta al mese, durante il periodo di fertilità, per dare alla luce dei figli. Questa violenza avviene durante un rituale, sotto la supervisione delle mogli dei comandanti.

La struttura sociale di Gilead

Nei diversi livelli della società le donne sono suddivise in gruppi identificabili dal colore degli abiti. Blu sono le “Mogli”, sterili e sottomesse, dei Comandanti. Le donne a cui donne spetta il compito di portare avanti la specie, sebbene con figli partorite da altre. Rosse sono le Ancelle, una in ogni famiglia, istruite dalle “Zie” che indossano il marrone scuro. Vestite di grigio chiaro sono invece le “Marta”, donne non fertili che fungono da domestiche. Al di sotto di tutte ci sono le “Non-donne”, peccatrici (spesso omosessuali) e traditrici del governo, mandate nelle Colonie a scavare le macerie tossiche lasciate dalla guerra civile, destinate quindi alla morte. Ultimo gruppo sociale di Gilead sono gli “Occhi”, una specie di polizia segreta che controlla la popolazione e lavora per trovare i ribelli.

June, il filo da seguire per entrare a Gilead

La protagonista, June Osborne, è un’ancella, ribattezzata Difred (in inglese Offred). Il nome nuovo indica la proprietà del Comandante, in questo caso Fred Waterford e della moglie Serena Joy. La serie si sviluppa attorno alle vicende di June, intermezzata da flashback della sua vita precedente a Gilead. La sua storia è il mezzo attraverso cui il pubblico entra nello spazio di Gilead.

The Handmaid’s Tale, così come il romanzo a cui si ispira, pone al centro la condizione della donna, sempre su un piano di inferiorità e sottomissione rispetto all’uomo. Il genere femminile tutto viene privato della voce, attraverso per esempio il divieto di leggere e scrivere, e anche le figure di spicco, come Serena Joy (la moglie di Waterford e proprietaria di June) perdono il ruolo che avevano prima della teocrazia, diventando ombre del potere dei mariti. Serena Joy era uno dei volti fondatori dei Figli di Giacobbe, ne teneva i comizi mentre il marito si limitava a farle da accompagnatore. Nella nuova società che non solo lei ha aiutato a costruire, ma ha in prima persona promosso, è solo suo marito a poter esprimere opinioni e ad avere libertà di azione.

La violenza di Gilead

La violenza è il mezzo principale su cui fonda la repubblica di Gilead, soprattutto quella nei confronti del sesso femminile, che viene perpetuata a tutti i livelli della società. Sono ovviamente le ancelle a personificarne la massima espressione. Private non solo delle libertà, ma della stessa individualità esse non sono più persone, ma oggetti usati per procreare e a cui viene negato anche il ruolo di madre. La negazione della figura femminile è totale, aggravata anche dall’odio delle donne per le donne: un sessismo interiorizzato e messo in atto tra simili, che è espressione del patriarcato.

Sebbene siano i Comandanti quelli che governano realmente e che, come uomini, perpetuano la violenza di genere a livello strutturale, spesso sono infatti le donne a metterla in atto in maniera più forte. È particolare come gli unici personaggi che si pentano del loro ruolo cercando di aiutare June siano infatti due uomini, un Occhio e un Comandante. Le donne, tutte vittime di una società totalitaria, sembrano intente a mantenere il poco di pace che si sono guadagnate, magari solo per fortuna. Non appaiono disposte alle solidarietà e alla ribellione alla dittatura sui loro corpo. È June a diventare paladina della riappropriazione della sessualità femminile e della maternità. Il suo motto, Nolite te bastardes carborundorum – una frase in latino maccheronico traducibile con “Non lasciare che i bastardi ti annientino” – diventa il mantra della protagonista e della serie stessa.

Una metafora essenziale

Le ancelle di Atwood, anche nella versione televisiva, rappresentano da circa quarant’anni una delle più forti trasposizioni letterarie delle vittime di violenza sessuale e di tutte le donne che lottano per la riappropriazione del proprio corpo. È questa la ragione per cui la serie tv, rinnovata per una sesta e ultima stagione, è diventata negli anni il veicolo di un messaggio sociopolitico fondamentale, negli Stati Uniti e non solo. È una netta presa di posizione nel dibattito femminista attuale. Al momento dell’uscita della prima stagione (2017) c’è chi vi ha letto un parallelismo con il contemporaneo movimento #MeToo. C’è anche chi, allargando l’orizzonte, vi ha visto un parallelismo anche con il clima generato dalla politica trumpiana.

Uno degli aspetti più interessanti è quanto The Handmaid’s Tale sia entrato nell’immaginario comune, diventando simbolo riconoscibile delle manifestazioni di piazza per i diritti delle donne. Già nel 2017, alle prime avvisaglie delle limitazioni ai diritti di interruzione della gravidanza negli Stati Uniti (Senate Bill 145), le donne in protesta indossavano vestaglie rosse e copricapi bianchi, la divisa delle Ancelle. Identici gli abiti utilizzati in altre manifestazioni contro leggi proposte da repubblicani o, come avvenuto più tardi nel 2020, contro la nomina della ultraconservatrice Amy Coney Barrett a giudice della Corte Suprema.

Per molte attiviste, per molte donne, il messaggio di The Handmaid’s Tale è più attuale che mai, specialmente in un momento storico in cui è sempre più chiaro che i diritti ottenuti vanno protetti con lotte costanti.

La quinta stagione da non perdere

Dopo quattro stagioni in cui i personaggi rimangono sempre fedeli al ruolo che rivestono sin dall’inizio, in quest’ultima le cose vengono stravolte, spesso anche i personaggi principali, che per la prima volta vediamo cambiare realmente. Sembra infatti che il tema centrale di queste ultime 10 puntate sia la consapevolezza della propria situazione e di quella che è la realtà di Gilead. Diventa quindi necessario prendere una posizione e lottare per un cambiamento fondamentale alla propria salvezza. L’ultima scena si chiude in maniera diametralmente opposta a come era iniziata la serie: una coppia da sempre nemica si trova a diventare alleata. Quella che poteva essere la vista come una fine in realtà è solo l’inizio della chiusura di questa serie che si concluderà con la sesta stagione.

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Notte Fantasma: recensione del film di Fulvio Risuleo

Notte Fantasma. Vision Distribution
Notte Fantasma. Vision Distribution

Notte Fantasma è il terzo lungometraggio di Fulvio Risuleo: un noir dai toni thriller che si svolge nell’arco di una notte, presentato nella sezione Orizzonti Extra della 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia

Tutto in una notte: l’incontro e l’addio tra Tarek e il poliziotto in borghese che vuole arrestarlo. Il primo è un ragazzo che controvoglia ha acquistato del fumo per i suoi amici (e che li sta per raggiungere nella notte silenziosa della periferia romana), il secondo un uomo annoiato, problematico, enigmatico, che fa salire Tarek in macchina per portarlo in centrale dopo averlo trovato in possesso della droga.

Giungeranno mai alla stazione di polizia? Solo l’arrivo dell’alba vi svelerà il finale, sicuramente non io, perché Notte Fantasma è un’avventura piena di suspense da guardare tutta d’un fiato. La distanza iniziale tra i due protagonisti si andrà via via affievolendo, dopo la condivisione di questa lunga notte insieme, vagando entrambi come fantasmi, da una cena in trattoria ad una passeggiata al cimitero.

La tensione di una notte

In Notte Fantasma molti momenti sembrano trappole oniriche dalle quali è difficile riprendere coscienza. L’incontro tra Tarek (Yothin Clavenzani) e il poliziotto (Edoardo Pesce) inizia come la punizione per una bravata adolescenziale, diventando poco a poco quello che sembra un sequestro di persona immotivato. L’atteggiamento dell’uomo, altalenante e irrequieto, porta lentamente a galla la sua depressione, un congedo dal servizio, una famiglia frammentata.

Lo scambio tra i due si articola tra scatti di rabbia e violenza, soprattutto da parte del poliziotto, che sembra voler insegnare a Tarek quanto sia difficile stare al mondo, avendo la presunzione di riuscirci in poche ore, salvandolo forse dal destino impietoso a cui lui si è ormai abituato.

Edoardo Pesce riesce a forgiare un carattere imprevedibile per un personaggio che si muove sbattendo i piedi sull’orlo di un precipizio. Quel poliziotto ci terrorizza, ma inevitabilmente, come fa Tarek, finiamo per avere compassione di lui.

Illustrazione di Leonardo D’Angeli

La voglia spasmodica che ha il ragazzo di tornare a casa ricorda la notte di Fuori Orario di Martin Scorsese. Quel puzzle di casualità sarà l’avventura dalla quale sia Tarek che il poliziotto usciranno storditi, diversi, legati. La sincerità che si riserva ad uno sconosciuto diventa più profonda di quella nei confronti di un amico.

Autore sia della regia che della sceneggiatura, Risuleo, ci rapisce per poco più di un’ora e mezza grazie alla tensione tangibile e al crescendo di inquietudine di Tarek come risposta all’immotivato rapimento. Le strade della città si svuotano anche di quei pochi avventori notturni, i ristoranti chiudono e il buio è sempre più misterioso, mentre la macchina con i due protagonisti sfreccia verso la mattina, dove nulla apparirà più come all’inizio.

Fulvio Risuleo è anche autore, insieme ad Antonio Pronostico, di Tango, edito da Coconino.

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White Noise (Rumore Bianco)| Baumbach rilegge DeLillo

White Noise
WHITE NOISE Cr: Wilson Webb/NETFLIX © 2022

Film d’apertura della 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, White Noise (Rumore Bianco) è l’adattamento cinematografico che Noah Baumbach fa del romanzo di Don DeLillo (1985), riuscendo nell’impresa

Caotica vita di voci sovrapposte e paure di cui solo chi è uscito dalla modernità può provare: White Noise elabora una tipologia di narrazione per nulla facile da tradurre in un film, alcuni dei più grandi lo hanno sperimentato ottenendo scarsi risultati (come Cosmopolis di David Cronenberg).

Noah Baumbach non solo ci riesce, ma è capace di regalarci un ulteriore livello di coinvolgimento. White Noise è un film che modula con maestria le emozioni di chi guarda e lo fa quasi sottoponendolo a un incantesimo ipnotico della visione. L’adattamento guida le nostre sensazioni, che si sviluppano per l’arco di tutta la durata, in un caleidoscopio confusionario e inarrestabile.

White Noise. Cr. Wilson Webb/Netflix © 2022

Il dramma si sostituisce alla comicità delle situazioni: dalla risata inevitabile di fronte all’ironia della vita ci ritroviamo con le sopracciglia corrucciate in cerca di una soluzione per venir fuori dal senso di paura che ci soffoca come in un incubo.

Il regista dirige un cast formidabile al servizio della parola di DeLillo, punto di riferimento massimo per realizzare quella che nei suoi romanzi è l’esistenza, diretta e istantanea, problematica e lacerata, ricca di ossessioni che rendono gli individui ciò che sono, per metà maschere e per metà mosaici in carne ed ossa fatti di pezzetti di storia passata e contemporaneità sconosciuta.

La coreografia di una famiglia americana

Lo si capisce dai primi momenti: Baumbach ci introduce in una danza di movimenti non subito ascrivibili ad una coreografia. I personaggi, in balia del loro radicato egocentrismo ma anche proiettati verso il mondo esterno in costante cambiamento, si affidano a gesti sicuri e misurati. Come fare la spesa al supermercato, oasi incontrastata del capitalismo in cui la società trova un luogo accogliente, dove poter prendere decisioni contenute, progettato per poter dare l’illusione della scelta.

Quella danza si svela nei titoli di coda, in cui tutto il cast si serve della scenografia del supermercato per mostrare finalmente una coreografia di passi. Come marionette si muovono tra le corsie, al servizio di azioni che si ripetono, ancora e ancora, che fanno parte ormai della loro vita. Su questa idea chiave White Noise si sviluppa, raccontando gli eventi che coinvolgono la famiglia di Jack Gladney (Adam Driver) e sua moglie Babette (Greta Gerwig).

Quella danza è l’adesione silenziosa di esseri umani prigionieri di uno stile di vita al servizio del consumismo e fagocitati dall’attrazione verso incidenti e tragedie, ma sempre a una giusta distanza dalla propria casa.

White Noise. Cr. Wilson Webb/Netflix © 2022

Trasporre lo stile postmoderno di DeLillo in un film

Il libro di DeLillo è diviso in tre parti, così come il film, ed è uno dei massimi esempi di quello che può essere definito un romanzo postmoderno. Il rumore bianco è quell’affollato sottostrato di elaborazioni mentali (spesso fini a se stesse) intaccate dalla paranoia, il sibilo prodotto dai media, dal capitalismo e dalle nuove tecnologie che vanno a modificare la quotidianità. E la paura delle cospirazioni, il dubbio che ogni cosa fosse migliore prima. Ma soprattutto la paura di morire, onnipresente come un rumore bianco che avvolge ogni cosa senza mostrarsi mai agli occhi.

Ambientato nel 1984, White Noise apre uno squarcio su un’epoca affetta da insicurezze, dove improvvisamente le cose vanno più veloci e i figli sono una nuova generazione di esseri umani più attenti e intelligenti (che parlano come enciclopedie). Un’epoca in cui i grandi miti della modernità sono gli unici punti di riferimento a cui votare la propria attenzione.

White Noise. Cr. Wilson Webb/Netflix © 2022

Nel libro, come nel film, Jack è il massimo esperto di Hitler studies (studi hitleriani), campo di ricerca da lui stesso inventato. Quando con la sua toga nera dona agli studenti vere e proprie performance sul “mito” di una figura storica così controversa, si trasforma, indossando una maschera che toglie prima di tornare a casa, dai figli. Lo stesso vale per Babette, insegnante di ginnastica posturale e madre attenta sempre pronta a confidarsi con suo marito, che però segretamente assume un farmaco sconosciuto chiamato Dylar che le causa preoccupanti vuoti di memoria. Entrambi sono terrorizzati dalla morte, ci pensano costantemente, è il tappeto invisibile su cui le loro certezze da famiglia borghese scivolano.

La cultura americana si sovrappone all’interpretazione di essa, l’indole problematica di donne e uomini moderni (post moderni) si perde nel terrore di essere ingannati: dal governo, dagli alieni, dalla morte. E lasciare che il sentimento primitivo di sopravvivenza metta a tacere per un po’ la necessità di interpretare ogni cosa diventa una possibile boccata d’aria.

La voce di DeLillo e la sua lettura sarcastica di una deriva della società e di chi la compone viene trasposta nel film con attenzione. Le tematiche costanti nella sua letteratura sono tutte presenti nel lavoro di Baumbach, che le fa sue.

L’esposizione alla nube tossica – La paura di morire che diventa tangibile

Nella seconda parte una nube tossica di rifiuti chimici minaccia la città. Proprio qui l’alternanza dei toni della scrittura di DeLillo prende corpo nel film. La modulazione di registro avviene tra la noncuranza di Jack nei confronti di quello che sta per diventare un disastro ambientale al terrore di ammalarsi per un’esposizione di un paio di minuti, e di morire, ovviamente.

La famiglia Gladney diventa effettivamente parte di una folla in fuga, alla ricerca della sopravvivenza. Un gruppo di persone unite da un unico scopo, ma anche trascinate dall’impeto di non morire. Come la folla al seguito dei proclami di Hitler, che allontanava il concetto di morte, noncurante della distruzione altrui. O la folla che secondo il collega di Jack, il prof. Murray Siskind (Don Cheadle), venerava un re come Elvis, alla ricerca di salvezza.

La luce sui personaggi cambia e proietta diversamente l’attenzione, portando la storia dalla comedy al disaster movie, diventando poi un thriller e finendo con la commedia romantica. Il tutto continuamente attraversato da domande, confronti, descrizioni e flussi di coscienza. Dalla necessità di interpretare tutto, sempre. Questo è il postmoderno che diventa cinema.

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Il Pinocchio di Guillermo Del Toro: una favola politica

Una scena del Pinocchio di Guillermo Del Toro. Credits: Netflix.

A neanche mezz’ora dall’inizio del film d’animazione Pinocchio diretto da Guillermo Del Toro con Mark Gustafson (qui la nostra recensione), il burattino, in una delle sue prime, gioiose “disubbidienze” esce di casa per raggiungere il babbo nella chiesa del paese. Un campo lungo ci mostra il protagonista che attraversa, entusiasta e dinoccolato, una via del piccolo centro. A sovrastarlo, tracciate sulla facciata di una casa, un’effigie mussoliniana in elmetto e le parole d’ordine dell’ideologia fascista «credere, obbedire, combattere». È l’immagine che prima e meglio di tutte ci mostra l’operazione compiuta dal cineasta messicano sul testo di Carlo Collodi (pubblicato per la prima volta nel 1883), spostato nell’Italia del Ventennio e riletto in chiave squisitamente politica.

Ed è senz’altro uno degli aspetti più significativi di questa nuova trasposizione del celebre romanzo. Una rivisitazione perfettamente coerente con la poetica del regista de Il labirinto del fauno, ma anche il punto d’arrivo di una tradizione di reinterpretazioni dell’opera originaria che ne hanno, da un lato, rimaneggiato sino al ribaltamento la pedagogia, e dall’altro, liberato i tratti di allegoria satirica, in forma favolistica, di una società che, neanche a dirlo, dal suo dato momento storico riverbera il suo potenziale critico sul nostro presente.

Favole e fiabe, burattini e ragazzini perbene

Tra le molte e fertili ambiguità strutturali che un testo come Le avventure di Pinocchio presenta e porta con sé nelle varie trasposizioni, c’è sicuramente quella tra fiaba e favola. L’una e l’altra, spesso considerate sinonimi, sono in realtà due generi diversi, dove la prima ci porta tradizionalmente in un mondo altro o comunque visitato dal soprannaturale. L’altra, se risaliamo quantomeno ai testi di Esopo e poi di Fedro, è finalizzata a trasmettere insegnamenti morali e si mantiene, al netto delle apparenze, saldamente ancorata alle leggi, spesso crudeli, della natura e della realtà comunemente intese. Il lupo e l’agnello esopici vengono fatti parlare solo per meglio ribadire l’immutabile gerarchia tra l’uno e l’altro, tra la vittima e il carnefice. Nessun intervento magico o metafisico potrà cambiare le cose.

Pinocchio impiccato in un’illustrazione di Enrico Mazzanti dalla prima edizione del romanzo di Collodi. Credits: web.

Il Pinocchio di Collodi è, a ben vedere, sia una fiaba che una favola. Il magico è presente ed è stata una delle componenti più enfatizzate negli adattamenti (pensiamo solo a quello disneyano), tra fate e metamorfosi di ragazzini in asini. Ma è più spesso la logica della favola a prendersi la scena, almeno sulla pagina scritta. Il burattino parlante serve essenzialmente a parlarci di una società molto concreta in cui è calato e del ruolo che dovrà assumere all’interno di essa.

In modo molto poco magico, il protagonista viene derubato, impiccato, truffato, incarcerato ingiustamente, amnistiato, accusato di furto da un coltivatore che lo costringe a fargli da cane. È maltrattato e rimproverato dagli adulti in carne e ossa ogni volta che domanda qualcosa da mangiare senza offrirsi in cambio come manodopera da sfruttare. La sua è un’educazione ai valori, brutali, di un’Italia contadina povera dove l’universalità dei diritti (anche dell’infanzia) è un concetto assente sul piano teorico e pratico. E l’unico riscatto sociale sta nel lavoro, dentro e fuori le aule scolastiche, per diventare un «ragazzino perbene» (come si autoproclama alla fine il personaggio) perfettamente allineato ai dettami di laboriosità, parsimonia, rispetto degli affetti familiari e ubbidienza alle autorità del contesto in cui vive.

Ma la ricchezza espressiva con cui la favola di Pinocchio veicola la sua morale ha fatto sì che le sue presenze e situazioni allegoriche servissero nel tempo sensibilità e discorsi sociali diversi, quando non opposti. Pensiamo, tra i tanti esempi possibili nella nostra cultura pop, allo sceneggiato Rai (1972) di Luigi Comencini (e Suso Cecchi D’Amico). Siamo nella tv a tutela democristiana, è vero, ma anche nel post-Sessantotto. E così la trasformazione finale del burattino in bambino “vero” non è più un premio alla raggiunta probità ma la dismissione di una pedagogia punitiva sconfessata per bocca del Geppetto di Nino Manfredi.

Nell’album Burattino senza fili (1977) di Edoardo Bennato, i presupposti ideologici del romanzo sono addirittura ribaltati in un elogio della marionetta anarchica contrapposta al ragazzino in carne ed ossa ormai integratosi nel vuoto razionalismo di una società conformista, sessista, guerrafondaia. Persino le riletture meno fortunate del libro, come quelle cinematografiche di Francesco Nuti (OcchioPinocchio, 1994) e Roberto Benigni (Pinocchio, 2002) riflettono comunque un mutato paradigma storico-culturale. Mostrandoci un protagonista che sceglie di fuggire dall’educazione del babbo banchiere (in Nuti) o riservando una particolare simpatia al trasgressivo Lucignolo (in Benigni). Da oltre un secolo, insomma, parlare di Pinocchio significa parlare non solo della società che fu (e che è), ma di come cambia il nostro sguardo su di essa.

Una marionetta eversiva nell’Italia di Mussolini

Guillermo Del Toro non può che trovare terreno fertile nella dialettica di invenzione fantastica e adesione critica a coordinate storiche reali che è la cifra del romanzo di Collodi. In questo senso lo spostamento in avanti dell’ambientazione nel film Netflix funziona da potenziamento della rappresentazione di conformismi e oscurantismi già presenti nell’Italia postunitaria e che il fascismo esalta, facendone strumento di consenso e controllo politico.

Benito Mussolini (al centro) in una scena del Pinocchio di Guillermo Del Toro. Credits: Netflix.

Nel cinema del regista, non a caso, le dittature di destra sono l’espressione al massimo grado di pulsioni autoritarie che possiamo comunque ritrovare in altri contesti. Dagli USA dei perbenisti anni ’50 che depredavano (non solo allora) l’America Latina (La forma dell’acqua) al microcosmo dei luna-park che schiavizzano alcolisti nullatenenti (Nightmare Alley). Il lato oscuro dell’ordinamento sociale si misura in particolare nel trattamento che riserva a quanti considera diversi, irregolari, dissenzienti. Devianti. Come un burattino parlante nell’Italia di Mussolini.

Tanto il fascismo quanto la marionetta vivente, d’altronde, sono figli della medesima tragedia politica: la guerra, che causa la morte del piccolo Carlo, primo figlio del falegname vedovo Geppetto in questa trasposizione. Dalla catastrofe bellica deriva tanto l’involuzione totalitaria di un Paese all’insegna di nazionalismo, militarismo e irreggimentazione delle gerarchie sociali, quanto il suo opposto. Una nuova vita all’insegna della libera, spontanea, infantile messa in dubbio di ogni regola e convenzione.

Il Pinocchio di Del Toro è, inconsapevolmente, eversivo. Burocraticamente (una nascita non registrata, non classificata né classificabile), socialmente (il podestà inizialmente impone al babbo di mandarlo a scuola perché la sua mente sia «disciplinata») e persino religiosamente. «Piace proprio a tutti, lui. Cantavano tutti, per lui. Ed è fatto di legno. Perché tutti amano lui e non me?», domanda al babbo indicando il Crocefisso sopra di loro. Rimarcando inconsapevole le contraddizioni di una chiesa legata al potere politico, ma anche l’affinità col Gesù storico, altro illustre perseguitato e maledetto dalla legge (e dal clero) ufficiale.

L’unica possibile integrazione offerta dal sistema che marginalizza e ostracizza le differenze è quella tutta subordinata all’assimilazione socio-culturale e allo sfruttamento. Ecco allora che il podestà fascista scopre nel burattino virtualmente immortale il “soldato perfetto”. Da tradurre in un Paese dei Balocchi riconfigurato come campo di addestramento militare per minori (realizzazione plastica dello slogan “Libro e moschetto, fascista perfetto”). Dove allo stesso figlio del podestà, Lucignolo, viene imposto il viatico per la virilità di regime attraverso la violenza sul corpo “rigenerabile” di Pinocchio.

L’altra faccia del potere e la sua messa in crisi

Il tentativo di negare l’umanità e la libertà del bambino di legno da parte dell’ordine sociale ha un altro e non meno significativo volto. Il Conte Volpe, avido e cialtrone imprenditore del teatro di marionette che vuole fare di Pinocchio la sua (non retribuita) star, incarna la realtà economica del medesimo sistema di oppressione rappresentato dal regime mussoliniano. L’uno e l’altro solo apparentemente concorrenti nel volersi accaparrare l’esclusiva sul burattino, in realtà ben integrati e speculari. Lo evidenzia plasticamente la sequenza della visita di Mussolini (lui sì vero, grottesco pupazzo tra i pupazzi in stop-motion) allo spettacolo. Dove è la verve anarcoide di Pinocchio a rompere gli equilibri che rendono lo show-business funzionale al potere politico, con uno sberleffo carnevalesco che ridicolizza il duce e scatena la distruttiva ritorsione censoria.

Pinocchio e il Conte Volpe in una scena del film di Guillermo Del Toro. Credits: Netflix.

Di più, Del Toro, rimaneggiando con assoluta libertà la figura del Mangiafuoco di Collodi, separa il burattinaio dal capitalista affidando il primo ruolo a un altro sottoposto sfruttato, la scimmia emblematicamente denominata “Spazzatura”, in un’ulteriore riduzione a oggetto (di scarto) della forza lavoro. La conversione di questo personaggio in alleato del protagonista nell’ultima parte del film è speculare all’emancipazione di Lucignolo dall’autorità paterna, e corrobora il portato rivoluzionario del burattino nel suo percorso di crescita.

Chiaramente, allora, non è più la marionetta a dover redimere se stessa guadagnandosi la mutazione-promozione in “ragazzino perbene”, ma il mondo che lo circonda a doversi redimere dai suoi pregiudizi e ingiustizie con l’aiuto del suo elemento più anomalo. Il quale, nella longevità che lo contraddistingue, si fa implicitamente anche depositario della memoria di quanto è stato, non solo nella sua parabola individuale e familiare, ma anche nella società che rischia (sempre) di dimenticare e restaurare le pagine più buie della sua Storia.

Come nell’Italia di oggi, che pare voler rafforzare a tutti i costi il cortocircuito tra la sua realtà e la favola di Del Toro. Tra massimi rappresentanti delle istituzioni che celebrano le proprie radici (neo)fasciste e ministri che rivalutano un’idea pedagogica basata su castigo e umiliazione. Dove i diritti sono subordinati al “merito” e la colpevolizzazione di chi (giovani e meno) non vuole sottostare a condizioni di lavoro inique e alienanti è all’ordine del giorno. D’altronde, il burattino senza fili del regista messicano proietta il suo potenziale allegorico ben oltre le miserie di casa nostra. Facendosi giocoso sabotatore di un intero modello sociale, lo stesso che ci sta portando ogni giorno di più sull’orlo del baratro.

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