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We Are Who We Are di Luca Guadagnino

We Are Who We Are - Sky, HBO
We Are Who We Are - Luca Guadagnino, Sky-HBO

Probabilmente We Are Who We Are è una delle serie più attese dell’autunno 2020, diretta da Luca Guadagnino e prodotta da Sky e Hbo. Arriverà in Italia il 9 ottobre su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv.

Il regista torna a raccontare l’adolescenza e la complicata affermazione della propria identità, attraverso la sessualità e i rapporti conflittuali con la famiglia. Dopo Call Me by Your Name, Guadagnino ritrae con la stessa intensità realtà codificate in cui rivela scorci eterei di sospensione delle regole, vissuti come capitoli poetici di una tappa imprescindibile della vita.

In questo caso a sovrapporsi sono le esperienze di Fraser (Jack Dylan Grazer) e Caitlin (Jordan Kristine Seamón), due adolescenti americani, entrambi figli di militari, destinati a crescere in una base militare in Italia. Lui introverso quattordicenne figlio di una coppia omosessuale (Chloë Sevigny e Alice Braga), lei problematica e audace, molto legata al padre.

La serie, in tutto 8 episodi, è scritta dallo stesso Guadagnino insieme allo scrittore Paolo Giordano (La solitudine dei numeri primi, 2008) e la sceneggiatrice Francesca Manieri (Vergine giurata, Il primo re). Fa inoltre parte della selezione ufficiale della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2020.

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“I may destroy you” è la serie dell’anno?

Michaela Coel, I May Destroy You - CREDITS: web

In Italia è ancora inedita, ma I May Destroy You ha già fatto breccia nel cuore di chiunque sia riuscito a vederla in anteprima. Rilasciata a giugno negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, costituisce a livello produttivo anche una grande collaborazione tra HBO e BBC. Autrice, sceneggiatrice e co-regista è Michaela Coel, già nota per la serie comico-grottesca Chewing Gum, da lei creata per Netflix.

In questa seconda serie Coel cambia decisamente tono, raccontando il trauma personale di una violenza e il lungo processo di elaborazione. I tratti comici non mancano, ma si tratta di un umorismo necessariamente più cupo e in linea con la drammaticità della trama. Non vogliamo ancora spoilerare troppo, in attesa di una data italiana, ma intanto proponiamo i due diversissimi trailer per il pubblico statunitense (HBO) e quello inglese (BBC).

I May Destroy You, il trailer HBO

È evidente che la versione HBO punti a spiegare il contenuto e l’evoluzione dei 12 episodi, presentando in maniera piuttosto lineare sia i personaggi sia gli eventi. Il trailer inglese, invece, mira a evocare lo stato d’animo della protagonista, la confusione, la perdita del controllo sulla propria vita. Come spiega Michaela Coel alla BBC, infatti: «La serie ruota attorno a quel momento in cui ti è stato rubato il consenso e hai perso il potere di prendere una decisione. Puntarsi il dito contro e incolpare se stessi è la cosa più inutile» .

I May Destroy You, trailer BBC

I May Destroy You, un necessario passaparola

Sembra strano ma ancora in Italia se ne parla relativamente poco, anche se I May Destroy You è già considerata uno dei prodotti migliori dell’anno. Proprio perché nata dall’esperienza della stessa autrice e interprete, affronta temi delicati e caldi senza cadere nella trappola di facili stereotipi. Ogni personaggio è complesso, al di là delle azioni che compie o che subisce: non si parla solo di vittime e carnefici.

Ha le carte in regola per diventare il caso della stagione e noi spargiamo la voce, nella speranza che I May Destroy You trovi un pubblico reattivo e preparato ad accogliere una serie che riserva sorprese stilistiche e un carico emotivo non indifferente. Presto, si spera visto il successo già registrato, arriverà la data italiana.

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Le avventure di Bridget Jones fra libri e film cult. Il perché di un successo mondiale

Il diario di Bridget Jones - CREDITS: web

Quarantena per me ha fatto coppia fissa con Recupero, inteso come pratica giornaliera e finalmente dilatata nel tempo (non avendo molte altre incombenze) per dedicare spazio, fisico e mentale, a tutti quei libri e film persi, visti distrattamente, incontrati durante una fase della vita sbagliata o, come nel caso del tema di questo articolo, amati profondamente e rispolverati in questo presente storico (che in realtà è già passato, se pensiamo ad alcuni mesi fa) così eccezionale quanto sul filo di un equilibrio instabile.

Complice la programmazione “maggiolina” del mercoledì di La5, mi sono imbattuta, con tutta una serie di feels non indifferenti, nella bionda e cicciottella eroina delle girls degli anni 90/primi 00. Immensamente british, straordinariamente simpatica, frizzante e molto piccante. Sto parlando dell’iconica Miss Bridget Jones.

Locandina originale di “Bridget Jones’s diary” CREDITS: web

Conosciuta dai più grazie alle pellicole che l’hanno consacrata al grande schermo con il viso di Renée Zellweger, forse tutti non sanno che il “fenomeno” Bridget Jones nasce dalle pagine dei romanzi della giornalista inglese Helen Fielding, facenti parte ancor prima di una rubrica fissa su The Indipendent e The Daily Telegraph. La stessa madre di Bridget ha collaborato alla sceneggiatura dei tre film tratti, seppur parzialmente, dai suoi libri, contribuendo a farne un successo mondiale.

La nascita del fenomeno Bridget Jones

Partiamo da un po’ di numeri e date significative. Considerato il successo della rubrica della Fielding, nel 1995 esce il primo romanzo Il diario di Bridget Jones, che in pochi anni viene tradotto in sette lingue, diventando un best sellers da oltre 10 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Quattro anni dopo l’autrice prosegue la saga dando alla luce il sequel Che pasticcio, Bridget Jones! Allo scoccare del nuovo millennio, il cinema si accorge dell’incredibile successo letterario e così, arriva la commedia tutta britannica diretta da Sharon Maguire, con la quale la Zellweger guadagnerà anche una nomination agli Oscar del 2002.

Il film riscuote un enorme successo di pubblico, arrivando ad incassare oltre 180 milioni di dollari, a fronte del budget iniziale di soli 26 milioni. Ad affiancare l’attrice un cast d’eccezione: da un lato il tenebroso e affascinante Colin Firth, dall’altra lo spregiudicato e sexy Hugh Grant. Il fortunato trio si ritroverà pochi anni dopo anche nel secondo capitolo cinematografico, dando vita a nuove avventure e triangoli amorosi tratti dal secondo romanzo. È a questo punto che le sorti letterarie/cinematografiche della saga si dividono.

La Fielding aspetterà ben quattordici anni per “partorire” un terzo romanzo, Bridget Jones. Un amore di ragazzo, il quale non sarà mai adattato per lo schermo. Nel 2016 però, quasi a sorpresa, arriva nelle sale cinematografiche Bridget Jones’s baby, tratto dal quarto libro della saga, che fa un passo indietro di tredici anni rispetto al terzo libro, narrativamente parlando. Insomma, le sorti della single pasticciona più amata della Gran Bretagna si fanno sempre più complesse e frammentate, e ci sono addirittura voci su un quarto film, rumors ad oggi non confermati.

Tutti pazzi per Bridget Jones!

Ma qual è il segreto del successo planetario e crossmediale fra letteratura e cinema di Bridget Jones? Innanzitutto la single più amata del mondo è un modello di girl power, concetto molto in voga negli anni ’90 e che oggi sta nuovamente tornando in auge.

La modalità narrativa con la quale Bridget decide di raccontare la sua vita, analizzando pro e contro di ogni situazione, stilando infinite to do/not to do list che puntualmente tradirà, scervellandosi sui significati reconditi delle relazioni con l’altro sesso, è il diario. Fedele compagno di ogni ragazza che sia cresciuta in un periodo ancora libero da smartphone, social network, world wide web e via scorrendo, il diario accompagna la vita di Bridget come un fedele amico, forse l’unico che le resta vicino senza remore in una società che, in fondo, ha paura della solitudine, teme di ritrovarsi al buio e di guardarsi allo specchio in una notte di luna piena.

Il morbo della “singletudine” che affligge la povera Bridget, sempre alle prese con il girovita e le calorie ingerite durante il giorno, non è altro che l’ansia da prestazione che ci infligge in qualche modo il nostro tempo, scandito da tappe quasi obbligate nella vita di ogni donna: laurea, carriera, matrimonio, figli. Simbolica e quasi catartica allora risulta la scena del secondo film in cui Bridget, guardando fuori dalla finestra, sola a casa, vede illuminarsi a macchia d’olio le finestre di altre case popolate da famiglie e coppie felici, sulle note di una struggente versione di Sorry seems to be the hardest word.

Colin Firth, Renée Zellweger e Hugh Grant, Il diario di Bridget Jones -CREDITS: web
Colin Firth, Renée Zellweger e Hugh Grant, Il diario di Bridget Jones -CREDITS: web

Fra avventure sentimentali e british humour

Ma via la tristezza! Le vicende di Bridget fra libri e film raccontano anche, e soprattutto, gli esilaranti e a tratti imbarazzanti e al limite dell’irreale rapporti con i due uomini della sua vita, coloro che la accompagneranno (nel bene e nel male) attraverso quasi l’intera parabola narrativa (ad eccezione del terzo capitolo cinematografico in cui spunta l’omonimo Dottor Stranamore di Grey’s Anatomy, il bellissimo Patrick Dempsey).

Daniel Cleaver e Mark Darcy: uno l’opposto dell’altro. Bello e dannato il primo, sempre alla ricerca di nuove avventure, lavorative e sentimentali, un moderno Don Giovanni audace e sicuro di sé, ma anche molto divertente. Serio e apparentemente ingessato il secondo, impegnato avvocato specializzato in diritti civili, è colui che Bridget sceglierà come compagno per la vita (non consideratelo uno spoiler, stiamo parlando di una saga abbastanza “vintage”). Incorniciano il mondo colorato e disordinato di Bridget gli inseparabili amici, uno zoo di esemplari più unici che rari: la dolce Jude, fissata con i manuali zen e di auto aiuto tipo Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere, sempre alle prese con qualche relazione sbagliata, la femminista Shazzer, “cazzuta” e risoluta nel considerare gli uomini come una specie a parte, e l’eclettico Tom, omosessuale e un tantino fuori le righe, al limite del nevrotico.

Bridget è poi, e non è un dato di poca importanza, una donna inglese. Soprattutto i libri, sono conditi, anzi positivamente infarciti, di quel sottile e adorabile humour che restituisce al lettore l’atmosfera british tanto cara a chi ama l’Inghilterra, e soprattutto la London Calling dei The Clash, divenuta il simbolo degli amanti della fumosa e incantevole città sul Tamigi. Dalle considerazioni sulle condizioni atmosferiche, in cui l’estate è “garantita” forse (e nemmeno) solo un giorno o due ad agosto, durante i quali i londinesi non sanno bene che fare nel timore che ritorni la pioggia, passando per la passione sfrenata per i completi di tweed della madre di Bridget (interpretata magistralmente sul grande schermo da Gemma Jones), arrivando alla formalità apparente che contraddistingue le feste di Natale o Pasqua, durante le quali basta un niente per far emergere misunderstanding o improvvisi litigi fra gli astanti.

Il girl power che ci piace

La narrazione del fenomeno letterario Bridget Jones ricopre circa vent’anni della vita della protagonista, e leggendo i libri in successione e volendo fare un discorso ampio, non si può fare a meno di pensare che essi siano uno spaccato dei cambiamenti epocali che ha vissuto la nostra società negli ultimi due decenni. Non solo in merito all’accettazione del singolo e se vogliamo del diverso (declinato in tutte le sue accezioni), della sua realizzazione personale, professionale e affettiva, ma anche del cambiamento delle relazioni e dei rapporti interpersonali, sempre più mediati da uno schermo, da un account o da un filtro Instagram.

Saper prendere il meglio dal presente senza preoccuparsi più del necessario sul come e sul se: questo è uno degli insegnamenti di Bridget Jones, iconica eroina di coloro nate e cresciute a cavallo fra i due millenni, immensamente incasinati, irrimediabilmente concatenati e distanti anni luce allo stesso tempo.

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Proibizionismo a tempo di Covid e bolero

Cover Tuyo, Rodrigo Amarante, Narcos - CREDITS: web

Vai in vacanza durante l’estate del Covid e sei subito dentro Narcos.

Non immaginatevi Medellin, la Colombia o le palme esotiche: sono in Albania. La Nazione che fino a qualche mese fa vantava numeri di contagio da far invidia a un’Italia al picco della pandemia. La nazione che, prima di qualsiasi altra, ha evitato la diffusione attuando lo stesso lockdown totale che attuava un’Italia già in ginocchio, mentre gli altri paesi ancora ridevano. La stessa nazione che ci ha mandato aiuti e una flotta di medici specializzati da impiegare negli ospedali Covid.

Una nazione che oggi ha riaperto tutto e che, come molte, è dovuta tornare a chiudere, nei limiti concessi dal pericolo di un crollo economico. Chiudere i bar, fulcro fondamentale dell’economia albanese, dopo le otto di sera: questo è il nuovo, lieve, lockdown.
Ma la cultura albanese è troppo simile a quella italiana per non trovare in un divieto l’idea geniale che lo aggiri. Ecco allora che i bar, dopo le otto della sera, spengono la musica.

Il Proibizionismo del XXI secolo

Ma siamo al mare, sulla spiaggia, la luna piena, le stelle, i fuochi accesi sulla sabbia, i cocktail in mano e i cuscini sotto la schiena: si può davvero rinunciare alla musica? Cellulari e amplificatori wireless: benedetto (e beato) chi li ha inventati. Il cameriere del bar, tra un cocktail e una birra consegnate agli assetati, getta un occhio alla strada, qualche metro indietro, alla ricerca delle luci lampeggianti blu della polizia.
In realtà, non sappiamo bene cosa dovremmo fare se comparissero all’orizzonte. Non sappiamo se basti spegnere la musica, oppure sia necessario alzarsi di scatto e dileguarsi, come nella mitica epoca del Proibizionismo.
Niente di tutto questo, perché i bassi profondi degli amplificatori sembrano andare al ritmo delle fiamme che ardono illuminando l’alcol nei bicchieri e liberando un fumo misterioso che si solleva verso il cielo notturno, come a voler raggiungere la luna.

Tuyo, titoli di testa Narcos – CREDITS: Netflix

Un bolero sulla spiaggia

È allora che le note sinuose del bolero di Rodrigo Amarante iniziano a danzare seguendo le lievi increspature brillanti del mare: il Tuyo di Narcos, quel pezzo talmente bello che ti ha sempre impedito di spingere il tasto “skip” all’inizio di ogni nuova puntata.
Ed ecco, nella realtà della vita, il gioco perfetto della sceneggiatura di Narcos: l’attrazione e la repulsione, l’immedesimazione e la condanna morale verso il re dei narcotrafficanti.
Di fronte a quel fuoco, col cocktail in mano, sdraiato su un cuscino sulla sabbia, sotto un tetto di stelle e il palcoscenico del mare, Pablo Escobar è un eroe perseguitato dalla morale protestante e capitalistica degli Stati Uniti.
Mentre le ultime note della chitarra di Tuyo si dilatano senza che nessuno abbia il coraggio di interromperle, il volto del cameriere si illumina improvvisamente di una luce blu.
Mancava una manciata di note è sarebbe finito come doveva quel meraviglioso bolero sulla spiaggia notturna. Ma forse, in fondo, è giusto così. Ucciso Escobar, giustizia è fatta: spenta la musica, il lockdown è rispettato.

Una bella serata, comunque sia andata

Mentre ci dileguiamo dalla spiaggia, qualcuno ammette che, comunque sia finita, è stata una bella serata.
Qualcun altro gli risponde con un vecchio detto albanese: a che serve la bellezza se sulla neve bianca poi ci cacano i cani?

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“#BlackAF”, tra mockumentary e ironia del quotidiano

#BlackAF Netflix - photo credit: web

Probabilmente Black as Fuck (o #blackAF) è una di quelle serie che, almeno qui in Italia, spariscono nel calderone del catalogo Netflix. Proprio per questo, però, è arrivato il momento di parlarne, poiché di tratta di una delle idee più divertenti viste in circolazione di recente, un modo alternativo per raccontare la black culture. 

L’idea dietro Black as Fuck

Showrunner e creatore di Black-ish, Kenya Barris mette in scena episodi e discorsi della sua quotidianità attraverso un esilarante mockumentary (un falso documentario). A parte Barris stesso, i ruoli della moglie e dei sei figli sono interpretati da attori professionisti, ma caratteri, personalità e dinamiche corrispondono perfettamente. Per averne conferma, ho sbirciato i vari profili Instagram dei Barris, ritrovando molto di ciò che viene raccontato.

Dietro la macchina da presa c’è la secondogenita Drea (Leyah, nella realtà), futura matricola di una prestigiosa Film School. Drea riprende la quotidianità di casa Barris con una troupe evidentemente esagerata e insistentemente voluta dal padre. Fin da subito sono chiari i toni parossistici e autoironici. Dietro l’umorismo, tuttavia, si nascondono questioni reali e urgenti, abitudini e traumi che hanno in comune sempre lo stesso denominatore: la schiavitù.

Uno stile inconfondibile

Come si nota dal sarcasmo dei titoli di ciascun episodio, la schiavitù è l’argomento ricorrente di ogni nucleo tematico nella serie. Spesso è la soluzione ultima a cui Barris fa riferimento per spiegare le ragioni profonde della black culture: ciò con cui è necessario fare ancora i conti.

Iman Benson (Drea) in una scena di #BlackAF - CREDITS: web
Iman Benson (Drea) in una scena di #BlackAF – CREDITS: web

In molte occasioni, sulle parole di Kenya spesso si sovrappongono frammenti di clip, fotografie o immagini di repertorio che racchiudono gli interventi più “didascalici”. In questi momenti il mockumentary abbandona la commedia e si fa vero e proprio documentario. Dà voce a questioni sociologiche e antropologiche e contemporaneamente dà spazio a nomi, volti e artisti della black community.

Tra risate e “spiegoni”: il vestito della domenica…

Nel primo caso viene subito in mente, tra tanti esempi, il discorso di Kenya riguardo le apparenze, ossia l’intera cultura estetica afroamericana discussa nella prima puntata. Sin dai tempi delle piantagioni, le buone apparenze portavano all’accettazione. I padroni vestivano gli schiavi a festa per andare in chiesa e l’idea del “vestito della domenica” nel tempo si è trasformata. È diventata l’ossessione del raggiungimento di uno standard per lo sguardo bianco, un concetto deviato di “bell’aspetto”, basato sui canoni caucasici.

È qualcosa che ti cambia il DNA, dice Barris, qualcosa che ti fa credere di non essere mai abbastanza. Ma dalla consapevolezza nasce anche il ribaltamento. Per questo motivo dagli anni ‘70 in poi avviene un processo di riappropriazione dell’immagine popolare, attraverso la valorizzazione dell’estetica afro. Dal funky all’hip hop, nel tempo si è creato un intero universo della moda e del costume black, riflesso ancora oggi anche nel linguaggio: swaggy, gucci, fresh, fly…

…e il Juneteenth, naturalmente

L’altro caso su cui vale la pena soffermarsi è l’attenzione riservata agli artisti, ai nomi, alle voci di questa cultura. Non mi riferisco solo al cameo di Issa Rae, Ava DuVernay o Lena Waithe. L’esempio più significativo è quello rappresentato dall’intero terzo episodio, non a caso dedicato al Juneteenth. In Italia non sappiamo praticamente nulla di questa festa afroamericana che commemora la fine della schiavitù dal 19 giugno 1865.

Questo episodio, tuttavia, riesce a spiegarne perfettamente lo spirito. Inoltre ospita come guest star l’artista Knowledge Bennett e una sua opera concettuale, da lui stesso spiegata negli ultimi minuti. Nello tempo di un solo episodio vediamo Marvin Gaye cantare l’inno statunitense, un pittore presentare la sua arte e Barris con la maglia di Kaepernick (celebre giocatore NFL, esonerato per aver protestato durante l’inno nazionale). Tutto mentre un’intera comunità festeggia una festa di indipendenza di cui – probabilmente – non avevamo idea. 

Fermarsi ad ascoltare per capire

E questi sono solo due esempi. La verità è che io ho riempito cinque pagine di appunti cercando di stare dietro a tutto quello che viene detto nella serie. Con pazienza ho deciso di mettere in pausa ogni volta che un nome o un fatto non mi era chiaro, facendo ricerche prima di andare avanti. Non essendo black as fuck, ritengo infatti che questo sia il modo più giusto e semplice per capirne di più.

È necessario affidarsi alle voci dirette di chi cerchiamo di conoscere meglio, portando poi a termine gli spunti di riflessione che nascono da questi incontri. È importante, quindi, cercare le fonti, l’arte, la letteratura specifica. È un lungo viaggio che richiede ascolto e apertura, ma riserva molte scoperte interessanti e cercheremo di farle insieme, su FRAMED.

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“Favolacce” e il realismo eretico, da Pasolini ai D’Innocenzo

Favolacce, il secondo lungometraggio scritto e diretto dai fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, ci parla di tante cose: della perdita (o dell’impossibilità) dell’innocenza e di un futuro nell’abisso socio-culturale di cui le periferie abbandonate a se stesse (qui, ancora una volta, quelle di una città come Roma) sono l’emblema; della crescita di due autori che, dal loro esordio La terra dell’abbastanza (2018), si mettono in discussione quanto basta, restando coerenti con quelli che, ormai, possiamo definire i loro temi (o gli elementi della loro poetica).

Ma ci parla, anche e soprattutto, di una questione aperta del dibattito sul cinema italiano, talmente centrale da costituirne uno dei tratti distintivi, nel bene e nel male: la questione del realismo. E, quindi, della realtà, qualunque cosa essa sia: e il problema, in parte, sta proprio qui.

Rappresentare (forse sognare) il reale

Totò e Ninetto Davoli (di spalle) nel film Uccellacci e uccellini (1966), di Pier Paolo Pasolini. Credits: Centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it

«Penso che sia impossibile per un narratore fondarsi su esperienze non avvenute realmente. […] Dunque il mio racconto si fonda su un’esperienza fatta in sogno. Se non avessi sognato di fare un volo cosmico, mai mi sarebbe venuto in mente di farvi, appunto, questo racconto che ne parla». Così scrive Pier Paolo Pasolini nella Storia di un volo cosmico, uno dei brani più surreali (un surrealismo, appunto, singolarmente intriso di allegorismo fantascientifico) del suo antiromanzo-testamento Petrolio. È un passaggio che per più di un verso riassume – nel ribaltarli – i termini della questione. Cosa è lecito intendere quando parliamo di rappresentazione della (o di una) realtà?

Pasolini il problema se lo era posto emblematicamente anche da regista e da teorico (eretico, per sua stessa ammissione) del cinema, indagato come «lingua scritta della realtà», rielaborando in modo personale, tra le altre cose, le nozioni di semiologia del cinema dello studioso Christian Metz.

Roba da far ritrarre – ieri e, forse, ancora più oggi – chi invece tende legittimamente a esaltare il cinema come arte del simulacro (o simulacro di simulacro), gioco di illusioni e immagin(ar)i che si richiamano e contaminano a vicenda. E che rimproverano al Pasolini teorico (improvvisato), come al, non solo suo, cinema e a molta cultura italiana dal secondo Novecento in poi, quello che Vincenzo Buccheri (2010) ha definito il «mito della realtà» del cinema, soprattutto d’autore, nostrano: ovvero «una visione “ontologica” dell’esperienza e del mondo: la convinzione, cioè, che esista una realtà oggettiva separata dai saperi, dai voleri e dai linguaggi di coloro che la abitano».

Eccolo il “peccato” (uno dei tanti) che si continua ad imputare a molti film italiani, e che si potrebbe imputare anche a Favolacce. Ma siamo sicuri che di peccato, sempre e comunque, si tratti?

Le ragioni (oggi) del “realismo”…

Kris Hitchen in Sorry, We Missed You (2019), di Ken Loach. Credits: Lucky Red

Ci sentiamo di porre due obiezioni a chi nel 2020 continua a rimproverare (non solo) al nostro cinema una sudditanza a concezioni e stilemi di marca “realistica”, o addirittura “neorealistica”. Posto che abbia senso, da parte della critica, affibbiare ai film etichette di “neorealismo” dopo gli anni Cinquanta del secolo passato, e probabilmente non ce l’ha.

Per prima cosa: non sarà una buona idea, nel contesto odierno, riproporre il tema di un’oggettività reale, materiale (e materialistica, potremmo dire) dei rapporti umani attraverso il cinema? Non come un mito o un dogma, intendiamoci, ma come una questione aperta che valga la pena porsi? La nostra risposta è sì, e lo diciamo guardando ad alcuni recenti esempi fuori dal contesto italiano.

Il valore dei più recenti film di un Ken Loach nel Regno Unito o di uno Stephane Brizé in Francia, ci sembra stia proprio nel porre nuovamente con forza l’oggettività dei rapporti di forza e dei conflitti che infiammano la nostra e le nostre società in crisi. Alla cui analisi, e alla cui rappresentazione, rischiamo forse di disabituarci nel labirinto di specchi e specchietti mediatici dell’ecosistema mediatico odierno. Non più modernamente autocritici ma, più spesso, post-modernamente anestetizzanti.

Ben venga, allora, chi tramite il cinema, e non solo, ci ricorda che, al netto delle nostre percezioni soggettive, esiste ancora una oggettività dei rapporti politici, sociali ed economici – fatti di discriminazioni e diseguaglianze con tutta evidenza irrisolte – nel nostro vivere in comunità.

… Ma quale realismo?

Una scena di Favolacce, di Fabio e Damiano D’Innocenzo. Credits: Vision Distribution.

Ma ammettiamo pure che il realismo mimetico non sia il modo più efficace e avanzato (tanto più per un mezzo come il cinema) di evocare questa oggettività dei rapporti materiali tra gli individui. Ammettiamo, insomma, che il cinema, e non solo, possa e in taluni casi debba fare di più che riprodurre, attraverso i suoi artifici linguistici, una copia del mondo come è o come ci appare. È il problema che, giustamente, si è posto proprio chi, nella modernità del secondo Novecento, ha tentato di superare i parametri, cristallizzati in comandamenti (più da certa critica che dagli autori), dell’estetica neorealista.

E veniamo, allora, alla seconda obiezione e opzione: siamo sicuri che la via di quel “realismo eretico” ben rappresentato dal Pasolini cineasta e teorico del cinema – e in cui potremmo ben inserire, a nostro avviso, anche i D’Innocenzo – non sia una valida alternativa, tanto più oggi?

Forse invece la via per un rinnovamento del cinema che continui (o torni) a fare presa sulla società passa proprio attraverso una contaminazione tra realismo “oggettivante” e interferenze soggettive, espressioniste, metatestuali e via così: tale non da far sì che il cinema parli “meno” della realtà, ma che aumenti la complessità del suo stesso discorso sul “reale”, includendovi tutte le possibili accezioni del termine. Compresa la realtà dei sogni, quindi dei tanti immaginari, come suggeriva il Pasolini “surrealista” e fantascientifico di Petrolio.

La “favolaccia” di una realtà

Tommaso Di Cola e Ileana D'Ambra in Favolacce. Credits: Vision Distribution
Tommaso Di Cola e Ileana D’Ambra in Favolacce. Credits: Vision Distribution

Il punto di forza di Favolacce (e, in modo parzialmente diverso, anche de La terra dell’abbastanza) sta proprio nei moduli di questo “realismo eretico” che si riscontrano fin dal titolo. Persino l’aspetto apparentemente più didascalico e stridente del lungometraggio (la voce narrante di Max Tortora, che scandisce la vicenda come i brani di un diario scritto da due persone diverse) risulta funzionale in questo senso. Mette in cortocircuito una letterarietà artefatta, quasi posticcia – ma in qualche modo resa più concreta dalla cadenza romanesca – con la “realtà” delle sequenze che compongono l’affresco del film.

Un affresco dove il discorso su un contesto socio-culturale riconoscibile viene intensificato e radicalizzato (più che contraddetto) dalla pluralità di marcature stilistiche che aprono la “realtà” e l’anomalo “realismo” del film a tante più risonanze narrative ed espressive. Dalle frammentazioni impressioniste (come quella sul corpo di Vilma/Ileana D’Ambra) ai ralenti che rapprendono il tempo “oggettivo” nei quadri di una memoria soggettiva. Dalle reminiscenze fiabesche (Hansel e Gretel, ad esempio) alla recitazione sopra le righe di alcuni degli attori, su tutti Elio Germano.

Tasselli di un mosaico che ha sì (e, ci sentiamo di dire, per fortuna) come posta in gioco una realtà di cui è utile, se non necessario, parlare. Ma che la insegue, appunto, col filtro di quell’espressività soggettiva che rende sanamente “eretica” ogni mimesi: ogni presunto mito della realtà.

In copertina: dettaglio del poster ufficiale di Favolacce. Credits: Vision Distribution.

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La regia è donna. Incontro tra Maria Grazia Cipriani e Anna-Sophie Mahler

Maria Grazia Cipriani e Anna-Sophie Mahler - CREDITS: web

Riflettori puntati sulla regia. Relativamente giovane, la regia nasce a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento dall’esigenza di rinnovare codici e gerarchie della mise-en-scène teatrale. Divenuta attività centrale della creazione artistica, la pratica si impose contro il divismo dei primattori con lo scopo di trasformare lo spettacolo in un’opera teatrale unitaria con un’impronta personale fortemente pensata, strutturata e voluta. Da qui l’idea “demiurgica” del regista, termine di esclusivo uso italiano coniato nel 1932 dal linguista Bruno Migliorini: ruolo dall’influente “potere” decisionale, creatore dei mondi estetici che forniscono la chiave di lettura e interpretazione dello spettacolo. Negli anni la centralità di questa figura è stata oggetto di trasformazioni e avvenimenti che ne mettono ancora oggi in discussione la specificità.

Nel 2017, il Festival Internazionale del Teatro de La Biennale di Venezia indagò questi processi dedicando l’intera programmazione a registe donne, pensando nove mini-personali di artiste provenienti da Italia, Germania, Francia, Polonia, Olanda ed Estonia. Diverse tra loro per percorso artistico, età, poetica e provenienza culturale, queste donne dimostrano di avere una forte “urgenza creativa” nella ricerca di un linguaggio personale quanto necessario.

A tal proposito, aspettando la 48esima edizione del festival, slittata dal 14 al 25 settembre causa Covid-19, si intende creare “un ponte” fra due di loro per cercare di capire come una possibile comunione di intenti attraversi barriere territoriali e generazionali. Maria Grazia Cipriani e Anna-Sophie Mahler possono essere accomunate considerando la peculiare ricerca sul linguaggio musicale, essenziale per lo sviluppo della poetica e inserita pienamente nel flusso drammaturgico dei loro spettacoli.

Biancaneve, regia Maria Grazia Cipriani - CREDITS: La Biennale Venezia
Biancaneve, regia Maria Grazia Cipriani – CREDITS: La Biennale Venezia

I “piccoli gioielli” del Teatro Del Carretto

La Cipriani è una delle figure storiche del teatro italiano. Fondatrice nel 1983 con lo scenografo Graziano Gregori della compagnia Teatro Del Carretto, ha saputo creare un linguaggio unico nel nostro Paese fondendo le possibilità spettacolari derivate dal dialogo tra interprete umano e figura inanimata. Le opere dell’ensemble sono “piccoli gioielli”, costruzioni sceniche e immaginarie di mondi magici. Biancaneve (1983) è il primo spettacolo, manifesto della particolare poetica che avevano in mente.

Liberamente rielaborata dalla fiaba dei fratelli Grimm, in questa pièce si vanno già delineando i segni di una concezione del teatro basata sull’interazione umano/inanimato; un impianto scenografico realizzato come un grande armadio delle meraviglie; la maschera come elemento di rappresentazione non realistico; le possibilità visive del contrasto tra gigantografia e miniatura; un disegno luci mirato a indagarne le modalità di realizzazione; la musica classica come collante tra mondo immaginario e mondo reale (unica presenza sonora di raccordo tra la storia narrata dalla voce fuori campo e ciò che avviene sulla scena).

Con Pinocchio (2006) l’elaborazione artistica cresce. Nel catalogo della Biennale, Cipriani stessa afferma che la ricerca della compagnia negli anni ha voluto scarnificare le differenze indagate precedentemente mettendo in dialogo attore e maschera in una modalità più introspettiva. Se in Biancaneve la narrazione scenica è restituita in maniera sognante, in Pinocchio incombe una visione pessimistica sul destino del povero burattino, in perenne tensione verso un padre che non si palesa mai lasciandolo in balia di oscure presenze mascherate. Elemento imprescindibile, la musica si fa segno distintivo anche della vicenda: per esempio, il burattino interagisce con le arie delle opere liriche come se fossero scritte appositamente per il fine “teatrale” che lo vede esibirsi in salti ritmati a colpi di frusta e successivamente come stella del circo.

Pinocchio, regia Maria Grazia Cipriani - CREDITS: La Biennale Venezia
Pinocchio, regia Maria Grazia Cipriani – CREDITS: La Biennale Venezia

Lo spirito di ricerca di CapriConnection

Anna-Sophie Mahler, classe 1979, è una regista tedesca che si divide tra teatro di prosa e teatro d’opera. La sua ricerca teatrale parte sempre da chiari riferimenti musicali, avendo lei frequentato il Conservatorio ed essendo anche una pianista. Nel 2004 fonda la compagnia CapriConnection, con la quale mette in scena Tristan oder Isolde. Ein pastiche (2013). Lo spettacolo, il primo presentato da lei al festival, si basa su una vicenda autobiografica: per otto anni Mahler è stata impegnata ogni estate a Bayreuth come assistente alla regia di Christoph Marthaler per la sua produzione di Tristan und Isolde.

Dopo i primi due, per i restanti sei anni le venne affidata nei fatti la responsabilità delle repliche. L’esperienza, caratterizzata da amore/odio nei confronti di un ruolo non del tutto voluto, ha fatto sì che Mahler “rilevasse” l’intera scenografia del primo atto dell’opera prima che finisse al macero. In questo modo nasce una riflessione intorno alle questioni sviluppate dalla regista in quegli anni sulla musica di Wagner, sul senso intrinseco del melodramma e su cosa resti dell’Ottocento oggi. Lo spettacolo è costruito intorno a interrogativi posti agli spettatori come domande aperte: l’influenza dei valori ottocenteschi è ancora presente nel ventunesimo secolo? Poeticamente, emotivamente, romanticamente e musicalmente? È sempre la musica a far da collante, e la partitura wagneriana è destrutturata e spiegata quasi didatticamente in scena dalla stessa regista che canta e suona anche il violino. La ricerca musicale è presente anche in Alla fine del mare (2017).

Tristan oder Isolde. Ein pastiche, regia Anna-Sophie Mahler - CREDITS: La Biennale Venezia
Tristan oder Isolde. Ein pastiche, regia Anna-Sophie Mahler – CREDITS: La Biennale Venezia

Lo spettacolo prende spunto da motivi tratti dal film E la nave va di Federico Fellini e rappresenta la contemporaneità in maniera simbolica dipingendo una comunità priva di sensibilità umana. La creazione parte da una riflessione della regista intorno a un fatto di cronaca: quando l’arrivo dei rifugiati siriani richiedenti asilo in Germania cominciò a intensificarsi, il governo reagì con misure che favorirono l’integrazione di queste persone. A questo però non seguì un’apertura da parte della popolazione tedesca, anzi si cominciò a diffondere il panico e la diffidenza verso questi stranieri, visti solo come “numeri” venuti a cercare ricchezza. Protagonisti dello spettacolo sono i componenti di un coro lirico in decadenza, metaforica visione dell’Europa di oggi tristemente chiusa nella mancanza di umanità, destinata prima o poi a un naufragio catastrofico quanto prevedibile. Il dialogo è pressoché impossibile: gli europei in costumi sfarzosi cantano (riprendendo note arie di opere liriche), mentre nei panni di camerieri gli stranieri ormai possono solo parlare. Questo suggella l’incomunicabilità tra le due parti.

Percorsi creativo-artistici che si intersecano

I percorsi di ricerca di Cipriani e Mahler si possono far dialogare in nodi di senso e di realizzazione scenica sintetizzabili in alcuni punti. Innanzitutto, come accennato sopra, essenziale ai fini della drammaturgia è la ricerca musicale, spunto e fil rouge dei vari spettacoli. Inoltre è importante notare come entrambe le registe lavorino a partire da una precisa idea di scenografia per così dire “inglobante” che si fa portatrice di atmosfere, immaginari e ambienti entro cui i personaggi prendono vita. Non per ultimo, gli spettacoli di cui si è parlato portano in nuce la visione delle due donne e del pensiero che c’è dietro, rivendicando ancora oggi il ruolo fondamentale di una figura così tanto messa in discussione nel tempo.

La sensazione che si prova guardando i loro spettacoli è che l’impronta registica sia ancora molto forte nella costruzione scenica ma non solo, anche e soprattutto nella realizzazione vera e propria. Mahler addirittura “irrompe” fattivamente sul palcoscenico, sottolineando così la centralità del suo ruolo. Maria Grazia Cipriani ribadisce nel catalogo della Biennale: «Dirigere spettacoli chiede inevitabilmente di esercitare potere».

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Perché i veri fan non ameranno Dirty Dancing 3

Dirty Dancing
Dirty Dancing

ovvero riflessioni domenicali di una instancabile fan che ogni tanto pensa ancora a Patrick Swayze su quel palco prima del gran finale

Anni fa, tra una pagina e l’altra di una rivista “femminile” (definizione che mi fa sempre sorridere anche perché terribilmente antiquata rispetto alla qualità di questi prodotti), mi ritrovai a leggere un pezzo così bello che mi rimase in testa senza più uscirne. Sono quasi certa che l’autrice fosse la giornalista Guia Soncini, che, a proposito di Dirty Dancing, identificasse due tipologie di donne: quelle che ricordano la frase di Baby sui cocomeri e quelle che ricordano l’altra celebre pronunciata dal tenebroso Johnny “nessuno può mettere Baby in un angolo”.

Lei si ritrovava nell’ironia dei cocomeri ma io, pur continuando a pensarci, non riuscivo proprio a trovare il mio corrispettivo. Forse perché in fondo non mi sono mai identificata con la timida e intelligentissima Frances Houseman, bensì con lui, l’affascinante ballerino interpretato da Patrick Swayze (scomparso nel 2009), che danza per vivere e ha paura solo dei suoi sentimenti.

Patrick Swayze nel finale di Dirty Dancing, CREDITS: ©Lionsgate, Dirty Dancing

Senza Johnny non è lo stesso

Per questo motivo non ho mai neanche preso in considerazione la maldestra rivisitazione del 2004, Dirty Dancing: Havana Nights, e non intendo prendere in considerazione neanche l’ufficiale seguito, per ora comunicato come Dirty Dancing 2 o 3 a seconda delle posizioni in merito, annunciato dalla Lionsgate. Il film vedrà Jennifer Gray (la Baby del primo) di nuovo nel ruolo di attrice ma anche in quello di produttrice esecutiva.

Si preannuncia un film romantico e nostalgico, ma tra le righe leggo ancora una volta la voglia di rivisitare il passato vincente per realizzare seguiti incompleti. Penso che a volte, nonostante l’ossessione del botteghino e le, minime, buone intenzioni, di recuperare qualcosa di bello, sia necessario lasciar andare, e scrivere cose nuove non ancorate a storie già amate.

I veri fan, quelli che, come me, riguardano il film originale almeno una volta l’anno per sentirsi di nuovo vivi, non ameranno questo sequel, e, seppur accettandolo con tiepida accoglienza.Continueranno a pensare al 1987, ad Emile Ardolino alla regia, e agli anni in cui le commedie romantiche (altro termine buffo che accosterei a “riviste femminili”) erano scritte con grazia, avevano vite da raccontare, e coinvolgevano ogni cm dello spettatore, costituendosi come film importanti e non come una sotto categoria remissiva per ragazze e donne ansiose di farsi strappare lacrime scontate e sorrisetti graziosi.

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Il film verticale di Damien Chazelle

The Stunt Double, Damien Chazelle - CREDITS: Apple

È apparso quasi in sordina, sul canale YouTube della Apple, il nuovo cortometraggio del premio Oscar Damien Chazelle. Un viaggio attraverso la storia del cinema, ripensata per lo schermo verticale, così lo descrive la stessa azienda di Cupertino, che di fatto dal corto ricava uno spot. È abbastanza chiaro che l’intero progetto sia una mossa promozionale per l’iPhone 11 Pro, con cui è stato girato. E se sul talento di Chazelle non ci sono dubbi, la vera questione è: cos’è questo corto? È cinema? Videoarte sul cinema? Un esperimento fine a se stesso?

“The Stunt Double” di Chazelle

Apple l’ha intitolato Vertical Cinema, Chazelle The Stunt Double. Si tratta di un racconto quasi onirico: una controfigura che, in un momento particolarmente pericoloso, immagina la sua vita all’interno di grandi film. È un’avventura che attraversa tutti i generi classici, con il gusto del citazionismo già visto in La La Land.

The Stunt Double – Damien Chazelle – CREDITS: web

Non vi è dubbio sul fatto che come utenti mediali ci stiamo lentamente abituando a una fruizione verticale degli schermi dai nostri smartphone. Anche i content creator più restii si stanno pian piano convincendo a oltrepassare il formato Facebook e ripensare i propri contenuti in una nuova forma. La frontiera dello schermo intero ruota di 90 gradi, taglia lo sfondo e ci avvicina sempre di più ai volti.

La prima cosa che si nota in The Stunt Double è proprio il fatto che spesso non c’è aria, non c’è spazio o modo di inquadrare il contesto. E non serve. Tutto si focalizza sull’ipotetico centro dell’immagine – quello che sarebbe il centro in un’inquadratura orizzontale. Si ridimensiona e si adatta ai nuovi confini.

https://www.youtube.com/watch?v=xqiPZBZgW9c

Il dilemma del cinema verticale

È ancora troppo presto per dare definizioni, per affermare con certezza che il cinema prenderà anche questa direzione verticale. Anche se non possiamo ancora definirlo cinema è sicuramente qualcosa che già rientra nella nostra esperienza quotidiana e che diventerà sempre più familiare. Magari inventeremo una nuova parola, o forse cambieremo le nostre abitudini senza dar troppo peso alla questione. Sicuramente però l’esperimento non finisce qui.

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