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“Waiting for the Barbarians”, in arrivo nelle sale

Waiting for the Barbarians - CREDITS: IMDB.com

Dopo un anno dalla presentazione a Venezia, Waiting for the Barbarians arriva finalmente nelle sale italiane. È il primo film del regista Ciro Guerra, colombiano, girato in lingua inglese ma si tratta di un progetto propriamente italiano. La produzione infatti è interamente nostrana, finanziata dalla Iervolino Entertainment.

Waiting for the Barbarians è tratto dall’omonimo romanzo di J.M. Coetzee (1980) e narra lo scontro di azioni e pensiero fra un magistrato (anonimo, ma interpretato dal premio Oscar Mark Rylance) e lo spietato colonnello Joll (Johnny Depp). Il primo vorrebbe infatti vivere in simbiosi e in pace con i barbari al confine dell’Impero Britannico. L’arrivo del secondo, con il suo distacco umano e la sua violenza, scombussola invece l’equilibrio raggiunto.

Fun Fact, questo è proprio l’anno di Robert Pattinson, presente anche qui in una piccola parte.

Il film arriverà nelle sale il 24 settembre ed è già online da poche ore il trailer italiano. È tuttavia difficile prevedere come verrà accolto in Italia. Finora infatti, per la critica, l’opera di Guerra non rispecchia le alte aspettative, ma su FRAMED ne riparleremo meglio sicuramente.

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News sul nuovo film di Paul Thomas Anderson

Mandatory Credit: Photo by Suzanne Cordeiro/Shutterstock (9452760l) American filmmaker and director Paul Thomas Anderson Texas Film Awards Gala, SXSW Festival, Austin, USA - 08 Mar 2018

Alcune indiscrezioni trapelano sul cast del nuovo film di Paul Thomas Anderson, del quale sono appena iniziate le riprese a Los Angeles, nella San Fernando Valley.

Del progetto, ancora senza titolo ufficiale, scritto e diretto dallo stesso Paul Thomas Anderson, si sa solo che sarà ambientato degli anni ’70, e che coinvolgerà, tra gli altri, attori del calibro di Bradley Cooper.

Il ruolo principale sarà però affidato al giovanissimo Cooper Hoffman, figlio di Philip Seymour Hoffman, con il quale il regista, prima della prematura dipartita dell’attore, aveva collaborato in cinque dei suoi film, tra cui The Master (con una “magistrale” interpretazione nei panni di un personaggio ispirato al creatore di Scientology, L. Ron Hubbard).

Viene segnalata nel cast anche la presenza della musicista Alana Haim, componente (assieme alle sue due sorelle) del gruppo Haim, per le quale lo stesso Paul Thomas Anderson ha diretto ben due videoclip musicali, Hallelujah e The Steps, entrambi tratti dal loro nuovo album Women in Music Pt. III.

Videoclip The Steps, diretto da Paul Thomas Anderson

In attesa di ulteriori notizie, vi raccomandiamo di recuperare, se ancora non lo avete fatto, la filmografia di Paul Thomas Anderson, tra i quali vi segnaliamo ovviamente Magnolia (1999) ed il recente Phantom Thread (2017), ma soprattutto i suoi due capolavori, There Will Be Blood (2007) e The Master (2012).

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Siberia – Abel Ferrara (2020)

"Siberia" (2020), di Abel Ferrara. Credits: web.

Quasi inevitabile il cliché del «ma cosa diavolo ho visto?» alla fine di Siberia, (pen)ultimo film di Abel Ferrara: perché dopo le peregrinazioni dell’alter-ego Willem Dafoe trainato dagli husky fra i ghiacci e le grotte, le sabbie e le oasi della (sua) psiche colpevole, si esce da 92 minuti tra i più onirici dell’allucinato 2020. Difficile trattenerne i materiali evanescenti. Difficile valutarli, tra lampi (di genio) stranianti e vanità d’autore che (si) dibatte tra es e super-io, ricordi e rimandi, Nietzsche e Cristo. Cinema di un peccatore radicale: per fortuna.

Grand Army – Immedesimarsi nei teen drama

Grand Army - Netflix
Grand Army - Netflix

Ancora un dramma per adolescenti, direte voi. Chi se ne frega degli amori nei corridoi del liceo, e anche delle foto da mettere su Instagram con gli effetti rosati e le luci saturate. Eppure in quei giovani continuo ad immedesimarmi, più che con altri personaggi maturi che rispecchiano la vita che faccio. Probabilmente perché non si può sfuggire a quel momento di passaggio in cui tutto sembra questione di vita o di morte, e le emozioni sono amplificate e riverberano in una cassa di risonanza continua che non smette di far rumore.

Cambiare la società prima che lei cambi te: farlo nei corridoi del liceo, tra un’ora di storia e un allenamento in palestra, a districarsi tra esami e paure, di non essere abbastanza, di sentirsi diverso, degli attentati a pochi km da casa, di essere discriminati dalle istituzioni stesse per le proprie scelte di genere.

Sono queste le vibrazioni che emana il trailer di Grand Army, serie in uscita su Netflix ad ottobre, incentrata sull’intreccio delle esperienze di cinque studenti della più grande scuola pubblica di Brooklyn. Il progetto è l’adattamento dell’opera teatrale SLUT, della scrittrice, attivista e femminista Katie Cappiello. Lo spettacolo fu presentato per la prima volta nel 2013 e descrive duramente l’esperienza traumatica della sedicenne Joey Del Marco, stuprata da tre coetanei. Potrete cogliere la stessa, violenta, indagine, nelle prime immagini della serie tv.

Trailer Grand Army

Lo attendiamo con impazienza, sperando di parlarvene meglio dopo aver visto i nove episodi previsti. Stay tuned!

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“His Dark Materials”, nuova stagione dal best seller di Philip Pullman

His Dark Materials - CREDITS: HBO/BBC

His Dark Materials, conosciuto in Italia come Queste oscure materie, è la trilogia best seller di Philipp Pullman che ha incantato un’intera generazione. Molti ricordano forse solo il primo titolo, La bussola d’oro, complice anche un (brutto) film con Nicole Kidman, ma per fortuna c’è molto di più.

Sir Philip Pullman (insignito del titolo per meriti artistici) pubblica La bussola d’oro, La lama sottile e Il cannocchiale d’ambra tra il 1995 e il 2000. Insieme, i tre libri assumono il titolo tratto da un verso del celebre Paradiso perduto di John Milton, posto anche ad epigrafe della trilogia.

«Into this wild abyss,

The womb of nature and perhaps her grave,

Of neither sea, nor shore, nor air, nor fire,

But all these in their pregnant causes mixed

Confusedly, and which thus must ever fight,

Unless the almighty maker them ordain

His dark materials to create more worlds…»

John Milton, Paradiso Perduto

In traduzione:

«In questo abisso selvaggio,

Il grembo della natura e forse la sua tomba,

Né di mare, né terra, né aria, né fuoco,

Ma tutti questi al concepimento mischiati

Confusamente, e quindi sempre in conflitto,

Finché il creatore onnipotente ordini loro

Da queste oscure materie di creare altri mondi…»

John Milton, Paradiso Perduto

Non si tratta chiaramente di una citazione casuale, quella del Paradiso perduto. Il senso ultimo di His Dark Materials è infatti legato alla ricerca spirituale e individuale e al rifiuto deciso di ogni tipo di teocrazia. Il mondo, o meglio i mondi paralleli, in cui avvengono le avventure di Lyra Belacqua possono essere interpretati anche come metafore della condizione umana, della continua ricerca di un senso, di un ordine e una soluzione a ogni cosa. Per questo motivo, in realtà, la trilogia inizialmente destinata ai ragazzi si lascia leggere piacevolmente anche da un pubblico più maturo.

Copertina della trilogia Queste Oscure Materie – CREDITS: Salani Editore

Gli adattamenti di “His Dark Materials”

Non dirò l’inutile frase “il libro è meglio del film”, perché letteratura e cinema sono tipologie di rappresentazione e di resa del pensiero molto diverse. Sicuramente però gli adattamenti della trilogia non hanno ancora reso giustizia al grande talento di Pullman. La sua scrittura, così evocativa, sensoriale e al contempo filosofica, difficilmente crea un’immagine univoca nella mente dei lettori. Forse risiede in questo la difficoltà di trasformare in immagini le seppur vivide descrizioni di questi altri mondi.

Il film di Chris Weitz del 2007 (La bussola d’oro), ha gettato l’ottimo materiale di partenza in un calderone insignificante, sfruttando solo la presenza di grandi nomi come la già citata Kidman, Daniel Craig, Eva Green e Christopher Lee. Nel tentativo di fare un film fantasy adatto a Hollywood, ha snaturato la natura contemplativa dell’opera originale.

Decisamente migliore è la versione televisiva, creata da BBC e HBO. Innanzitutto perché la formula seriale restituisce alla storia il giusto tempo per affrontare i mutamenti e le scoperte di Lyra (Dafne Keen). Inoltre crea immagini più fedeli all’atmosfera evocata dalle pagine di Pullman. La prima stagione, di cui di seguito riportiamo il trailer, corrisponde agli eventi del primo libro e affronta quindi il grande viaggio di Lyra verso Nord e l’incontro con quelli che saranno i suoi principali compagni di avventura (tra cui James McAvoy). Tuttavia negli ultimi episodi anticipa anche alcuni contenuti del secondo capitolo, La lama sottile.

Trailer della prima stagione di His Dark Materials

La seconda stagione arriverà in Italia a novembre su Sky, come molte produzioni HBO in autunno. Il nuovo trailer è stato rilasciato da poco ma già si può notare che nonostante la trama del secondo libro sia incentrata principalmente su Lyra e il nuovo co-protagonista Will, l’adattamento televisivo sembra proseguire in una visione corale.

Trailer della seconda stagione (ENG) di His Dark Materials

Lo stile rimane apparentemente omogeneo, scopriremo presto se nuovi episodi saranno all’altezza di un universo immaginario che si fa sempre più articolato.

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The doors: la storia di un’amicizia e del mito che l’ha distrutta

Oliver Stone se l’è immaginata più o meno così l’inizio di quell’esperienza:

Ray e Jim s’incontrano sulla spiaggia di Venice in California e si siedono in ginocchio sulla sabbia, uno di fronte all’altro. Due vecchi amici che si ritrovano dopo tanto tempo.

“Che fai?”, chiede il primo.

“Scrivo”, risponde Jim, “canzoni, poesie, cose del genere”.

“Scrivi canzoni? Fammene sentire una”, lo incalza Ray.

Ma sul volto di Jim si disegna una linea di preoccupazione che subito viene mascherata da un sorriso sornione.

“Non posso, non so cantare”.

“Non canterai peggio di Dylan”, risponde l’amico scimmiottando il cantautore americano per poi concludere serio:

“Fammi sentire le tue parole”.

Il primo piano sul quaderno che Jim stringe tra le mani è stretto e lentamente si solleva sul suo viso. Ha gli occhi socchiusi e resta in silenzio per qualche istante, il tempo essenziale per convincersi e riempire i polmoni d’aria con un respiro. Poi esce la sua voce:

Let’s swim to the moon,

let’s climb through the tide,

penetrate the evening that the city sleeps to hide.

Let’s swim out tonight, love

it’s our turn to try,

parked beside the ocean on our moolight drive.

Jim riapre gli occhi in attesa di una reazione. Lo sguardo di Ray è ancora immobile, rapito da quella voce, e c’è un attimo di silenzio in cui sembra di avvertire un frastuono lontano, come le grida di una folla in delirio. Lo stridulo grido di un gabbiano spezza la nostra impressione e risveglia lo stesso Ray per permettergli di esprimere il nostro stesso pensiero:

“È un testo grandioso, amico. Lo hai scritto tu? Ce ne sono altri qui?”, dice indicando il quaderno.

“Ho un intero concerto dentro la testa”, risponde Jim.

“Mettiamo su una band di rock ‘n roll”, dice Ray entusiasta mentre si alzano dalla sabbia per camminare lungo la riva, “è il momento, lo puoi sentire nell’aria, Jim, le persone vogliono combattere o scopare, amare o uccidere, il Vietnam sta là, dietro l’angolo e bisogna scegliere da che parte stare, brucerà tutto e questo pianeta chiede un grande cambiamento!”.

Poi si volta verso Jim, lo guarda negli occhi e dice:

“Noi dobbiamo creare dei miti”.

Una scena dal film The doors: Jim e Ray passeggiano sulla spiaggia di Venice – Credits: Youtube

1965: la prima demo

Oliver Stone se l’è immaginato così, come un incontro rivelatore tra due vecchi compagni di università, due semplici ragazzi che di lì a poco avrebbero scritto un capitolo fondamentale della storia della musica ricoprendo i ruoli di cantante e tastierista: Jim Morrison e Ray Manzarek.

E, forse, il regista americano non deve aver fatto uno sforzo d’immaginazione sorprendente. Quell’incontro, infatti, se mai ci sia effettivamente stato, deve essere avvenuto proprio in estate, quella del 1965. Perché il 3 Settembre di quello stesso anno i due amici escono dal World Pacific Jazz Studio di Los Angeles con la prima demo della band cui danno il nome The doors.

Insieme a loro, il batterista John Densmore e i due fratelli di Ray, Rick e Jim Manzarek.

Non è una demo qualunque. In essa sono incisi brani che si estenderanno per tre anni, tracciando il percorso musicale dei Doors. C’è, End of the night che compare nel primo album omonimo della band, ci sono My eyes have seen you e la stessa Moonlight drive che vengono pubblicate nel secondo Strange Days, ci sono, infine, Hello, I love you e Summer’s almost gone del terzo disco Waiting for the sun.

È una demo che ci racconta qualcosa di prezioso, ovvero la rapida evoluzione musicale dei Doors.

I brani simbolo che li fanno passare alla storia della musica con il primo album, infatti, sembrano trovare qui le loro origini. Accennando a ritmiche analoghe e abbozzandone l’atmosfera. Il ritmo di My eyes have seen you e Hello, I love you danno l’impressione di essere il bocciolo dal quale fiorirà Light my fire, così come l’atmosfera perturbante di End of the night sembra presagire all’enfasi estatica di The end.

Una delle prime foto della formazione definitiva dei Doors – Credits: web

Le ragioni del successo

D’altronde, la formazione che dà vita a quel demo è ancora mancante di un pezzo fondamentale: il chitarrista Robby Krieger. Lui, con le sue armonie influenzate dal flamenco, le sonorità free jazz, gli effetti della sua Gibson Les Paul capaci di alternare acidità e dolcezza, le tracce di musica indiana e classica, le distensioni di slide al limite del blues psichedelico.

Anche Krieger era un amico. La leggenda vuole che Ray lo avesse conosciuto insieme a John in un incontro di meditazione trascendentale tenuto dal famoso guru Maharishi Mahesh Yogi. Il suo ingresso nei Doors corrisponde all’abbandono dei fratelli di Manzarek che – davvero poco lungimiranti – non vedevano un buon potenziale nella band.

Dei tre fratelli resta quello più talentuoso, Ray. Con la sua straordinaria capacità tecnica, si adatta al ruolo di bassista, appoggiando sopra al suo organo un Fender Rohdes Piano Bass da suonare con la mano sinistra per lasciare la destra libera di tracciare le melodie fondamentali alla band.

La scelta del doppio ruolo di Ray è tutt’altro che casuale. La band, infatti, compie un gran numero di audizioni per trovare il bassista, eppure quello che non riescono a trovare non è un buon musicista, ma una persona che potesse conciliarsi umanamente con loro. Come a dimostrare che The Doors, prima di essere un gruppo musicale, è un gruppo di amici.

Con la chitarra di Krieger e le note profonde della tastiera di Manzarek, i ritmi tribali di Densmore esplodono in incursioni selvagge che danno solo l’impressione di abbandonarsi alla perdizione, riprendendosi sempre grazie al suo rigore jazzistico. È proprio quest’ultimo uno dei caratteri fondamentali dei Doors, quella sua capacità di tratteggiare i limiti esteriori della maggior parte dei loro brani, salvandoli dalla deriva di una mancanza di forma.

Con questa formazione, quella definitiva, i Doors portano la loro demo per i locali di Los Angeles, ottenendo ingaggi fondamentali per la loro musica. Attraverso le esperienze live, infatti, si definisce sempre più un affiatamento che lascia ad ognuno la libertà di esprimersi senza perdersi nel proprio assolo e di fare di quest’ultimo una parte integrante del sound complessivo. L’atmosfera che si crea è quella unica di un’esperienza-limite, vissuta sul ciglio vertiginoso di un abisso dal quale ci si salva solo attraverso il sostegno dei propri compagni.

La foto mitica di Jim Morrison – Credits: web

L’insanabile incrinatura

Poi tutto è andato in pezzi. I Doors sono diventati sempre più Jim Morrison, e Jim Morrison ha perso sempre di più il controllo. Fino ad autdistruggersi e a distruggere quello straordinario equilibrio di musica e amicizia. La batteria di Densmore non è stata più in grado di dettare i ritmi della ripresa della melodia dalle dilatazioni psichedeliche, gli slide di Krieger hanno smesso di scivolare con la stessa solita armonia, l’organo di Manzarek ha iniziato a inseguire la melodia, senza più crearla, lasciandosi alle spalle gli altri, E Morrison è diventato schiavo della sua stessa celebrità, costretto da essa ad eccedere oltre la musica per fare di sé stesso un mito vivente.

E così Oliver Stone ha immaginato anche l’inizio della fine di questa esperienza. Ha scelto un momento preciso per mettere in scena il principio di un’incrinatura insanabile, il momento sensibile in cui il gruppo smette di essere un gruppo di amici, prendendo definitivamente due strade opposte.

La locandina del film The door, di Oliver Stone (1991) – Credits: web

L’inizio della fine negli occhi di Oliver Stone

È la festa di Andy Warhol. Luci soffuse e psichedeliche, la telecamera non riesce a stare dritta tra le decine di personaggi stravaganti, folli, tra l’alcol, gli acidi e gli allucinogeni, mentre suona in sottofondo il fibrillante ritmo distorto dei Velvet Underground.

Nel caos della scena, compare la voce familiare di Ray:

“Su Jim, andiamo”.

La cadenza della musica si fa improvvisamente armonica, una batteria detta un regolare ritmo cardiaco e una chitarra elettrica pulita arpeggia delle note fragili, rilassanti che sembrano appartenere a un sogno. Ma c’è qualcosa in esse di inquietante: sembrano colare come lacrime.

“D’accordo”, risponde lui con l’ubbidienza di un bambino arreso, poi ci ripensa: “Ma non volete conoscere Andy Warhol?”.

“A dire la verità ne faccio tranquillamente a meno, è uno spostato”, risponde severo John. E continua con un tono paterno: “Su, domani abbiamo un grosso concerto, vieni?”.

“Un momento, un momento”, risponde Jim con la voce roca e impastata, “credevo che saremmo stati un gruppo di rock’n’roll. Noi quattro”.

“Jim, questo giro non ci appartiene”, dice materno Ray, mentre la voce quieta di Lou Reed inizia ad intonare l’abbandono alla dipendenza di Heroin.

“Queste persone sono vampiri”, sussurra ancora Ray creando una magnifica disarmonia con l’illusoria calma del brano. “Dobbiamo creare dei miti”, continua per convincerlo con una costante dolcezza, “te lo ricordi?”.

Ma Jim è un bambino che non ha voglia di tornare a casa:

“Forza ragazzi, non stasera”, dice lamentoso. Poi si ferma e con un sospiro accompagna un sorriso rassegnato: “Non so cosa accadrà… forse la morte”.

Il primo piano di John rivela un sorriso paterno, eppure distorto:

“Questa non è la morte, amico”, sospira rassegnato, “ci vediamo domani”.

Il ritmo di Heroin si fa incalzante, il battito cardiaco è al limite della sopportazione fisica e la voce di Lou Reed è all’apice del piacere tossico.

Proprio sulla soglia della stanza dove lo aspetta Warhol, Jim s’incrocia con una figura del tutto identica a lui: come in una danza, i due si guardano, sembrano riconoscersi, e, senza pronunciare parola, continuano a fissarsi girando uno attorno all’altro, fino a confondere lo spettatore su chi dei due sia il protagonista che stava seguendo con lo sguardo.

Fino a infondergli la sensazione che da quel momento in poi ha inizio un’altra storia, quella tragica del mito.

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David Benioff e D.B. Weiss annunciano un nuovo progetto per Netflix

È di qualche ora fa la notizia che David Benioff e D.B. Weiss, creatori della serie Game of Thrones, sono al lavoro per Netflix su una serie fantascientifica, tratta dalla trilogia di romanzi The Three Body di Liu Cixin. Lo scrittore cinese, con il primo libro Il problema dei tre corpi, ha raggiunto un successo internazionale nel 2015 vincendo il prestigioso Premio Hugo per il miglior romanzo.

Alternata tra la Cina della rivoluzione culturale e la contemporaneità, l’opera racconta l’avvicinamento di una civiltà aliena in rischio d’estinzione alla Terra, e del tentativo di invasione della stessa, che spacca l’umanità in due gruppi, quelli favorevoli all’invasione e al controllo da parte di un’intelligenza superiore e quelli ostinati a resistere a tutti i costi.

Netflix prova a puntare tutto con questa serie (dopo aver fatto firmare Benioff e Weiss un contratto esclusivo di 300 milioni di dollari per cinque anni), coinvolgendo nel progetto anche Alexander Woo, co-creatore e showrunner della seconda stagione della serie antologica The Terror (The Terror: Infamy) attualmente disponibile su Amazon Prime Video, ma anche sceneggiatore di molti episodi della storica serie HBO True Blood.

I presupposti sembrano ottimi, non resta che attendere l‘inizio delle riprese, attualmente non ancora annunciate.

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Figli – Giuseppe Bonito (2020)

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in Figli
Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in Figli

Figli (2020). Con la sceneggiatura di Mattia Torre, tra gli sceneggiatori della serie Boris, tratta dal suo monologo I figli invecchiano. Il giovane autore scompare a luglio 2019 e lascia la realizzazione del film a Bonito, che fu suo assistente.

Restare uniti, a tutti i costi, e se non basta ricorrere all’immaginazione, che ci concede il beneficio del dubbio su un costume da supereroe indossato a fine giornata.

Questo è essere una famiglia, ritratta con candida disillusione e autoironia feroce, descritta da qualcuno che sa bene come raccontare il dramma ed è capace di farci su una risata. Il tutto giocato con abili dettagli e una regia pulita, così da farci rispecchiare nelle dinamiche reali del vivere senza salvagente, in un mondo che rema contro e lo fa deridendoci. L’importante è restare uniti, e Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea ne danno una tenera e spesso esilarante interpretazione.

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Da Elio Petri a Bong (e Joker): la sfida necessaria del “cinema medio”

"Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" (1970), di Elio Petri. Credits: Wikipedia.

«Io non credo che l’uomo di cinema debba lavorare soltanto per se stesso. Credo, cioè, nel cinema come spettacolo, come mezzo di comunicazione di idee generali. Credo che senza il suo naturale ed unico interlocutore – che è il pubblico a lui contemporaneo – il cinema si svuoti di una grande parte della sua vitalità. Partendo da questo principio, mi pare che le prospettive del cinema libero – o, per meglio dire, le prospettive di una liberazione del cinema- siano connesse con quelle della nascita di un pubblico libero, quelle cioè della liberazione del pubblico dai suoi condizionamenti».

Parole di Elio Petri (1929-1982), da un’intervista del 1964, che sintetizzano un’idea del mezzo cinematografico condivisa e praticata non solo dal regista di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), ma da molti autori che hanno scommesso e scommettono sulla possibilità di realizzare prodotti innovativi nella forma e polemici nel contenuto, senza rinunciare al coinvolgimento del grande pubblico.

Accettando, dunque, la sfida di impiegare le risorse dell’arte che si fa spettacolo e i codici dello spettacolo che si fa genere (anzi, generi), non per piegarsi alle convenzioni e imposizioni dell’industria, ma per piegare (quando non rompere) queste dall’interno. In poche parole, un “cinema medio” di cui, ancora oggi, c’è un gran bisogno.

Dopo Petri, decostruire i generi, ieri e (tanto più) oggi

Chris Evans in una scena di Snowpiercer (2013) di Bong joon-ho. Credits: New York Times.

“Cinema medio”, ovvero «sufficientemente carico di umori e fermenti contemporanei, ma anche di soluzioni narrative e di forza spettacolare», come lo ha definito Lino Micciché (1980). Ed è una macro-categoria a cui si può ricondurre senza dubbio gran parte di quel “cinema politico” italiano degli anni Sessanta-Settanta di cui proprio Elio Petri è considerato uno degli esponenti più emblematici. Ma vi potremmo riconoscere anche prodotti recentissimi e diversissimi (anche) per sistemi produttivo-culturali di provenienza e immaginari di riferimento.

Solo due esempi (tra i molti possibili), rispettivamente il film e l’autore che nella passata stagione (l’attuale ci sembra ancora difficile da inquadrare, causa Covid-19 e non solo) hanno portato avanti discorsi incandescenti sulla diseguale società contemporanea raggiungendo un inaspettato successo di pubblico (oltre che di critica): l’anti-cinecomic Joker di Todd Phillips, da un lato, e Bong Joon-ho, dall’altro. Non tanto e non solo il Bong dell’acclamato Parasite, ma quello che (ancora di più con film come il noir Memorie di un assassino, il monster-movie The Host e l’action distopico Snowpiercer), ha maneggiato esplicitamente le regole del mainstream per destrutturarle a modo suo, nel mezzo e nel messaggio.

Con tutte le ovvie e debite differenze, non ci sembrano allora così lontane dall’idea di cinema espressa da Petri né la rivisitazione personalissima e socio-politicamente critica di generi di consumo condotta dal regista sud-coreano, né l’anomala origin story della nemesi di Batman, dove elementi (comunque evidenti) della tradizione narrativa a (e da) fumetti di supereroi vanno in corto circuito con l’(est)etica della New Hollywood secondo Scorsese.

Si parla, in ogni caso, di un cinema classificabile come “medio” secondo la definizione che abbiamo visto, ma forse (e per fortuna), non “di mediazione”. Perché il risultato (e la scommessa vinta) di film come Joker e di autori come Bong è stato far arrivare una critica (radicale) della società capitalista contemporanea a un pubblico di massa, ma non semplicemente attraverso un “compromesso” col cinema di genere: i generi, a ben vedere, ne escono riletti quando non sabotati, e addirittura stravolti.

L’industria e gli incendi(ari)

Ursula Andress in una scena de La decima vittima (1965), di Elio Petri.

Ed erano riletti, sabotati e stravolti, senza essere rifiutati integral(istica)mente a priori anche i codici del poliziesco, del giallo o della commedia in film come Indagine su un cittadino, La classe operaia va in paradiso (1971), Todo modo (1976): tra deformazioni espressioniste, esasperazioni grottesche e soluzioni narrative (oltre che rappresentative) programmaticamente stranianti, dalla paradossale inchiesta “contro se stesso” del commissario di Indagine (decostruzione anticipata di tanti poliziotti del decennio che seguirà) ai depistaggi onirici dell’apologo anti-DC tratto da Sciascia.

E pensiamo anche a casi meno noti e non meno interessanti come Un tranquillo posto di campagna, quasi un proto-Shining dove materiali da thriller psicologico ed horror soprannaturale coesistono con sperimentazioni formali (dal montaggio frammentario alle musiche dodecafoniche di Morricone) per veicolare un discorso sull’alienazione dell’artista (e dell’uomo) nel nuovo totalitarismo della società dei consumi.

Non si tratta, allora (oggi come ieri), di “andare d’accordo” col cinema commerciale e le sue regole: si tratta di introdurvisi per appiccare il fuoco, possibilmente l’incendio. E non che si debba, per questo, trascurare (populisticamente) il cinema “d’autore” (virgolette d’obbligo, specie nel 2020) o denigrare pregiudizialmente (e aristocraticamente) un prodotto “commerciale” di buona fattura. Un’arte plurale (e pluralista) è un’arte che sta (e fa) bene, come ammetteva lo stesso Petri: «Come spettatore sarei ben triste se mi togliessero i film d’avventure, o i film di Totò; non vorrei semplicemente che tutto si riducesse al loro livello» (1962).

Ma un cinema che metta in contatto i due poli per far esplodere le istanze dell’uno tra gli ingranaggi dell’altro, è forse il più urgente nel contesto odierno: dove uno dei principali problemi, nella cultura e (quindi) nella società, è proprio la dicotomia tra “alto”-elitario e “basso”-popolare che il postmoderno non ha ricomposto, e che anzi nella crisi (politica, sociale, culturale) di oggi si accentua e viene cavalcata strumentalmente da chi, sulla distrazione di massa, costruisce le proprie fortune economiche (o elettorali).

Un’alternativa possibile, nella notte che ancora dura

Joaquin Phoenix in Joker (2019), di Todd Phillips. Credits: web.

L’operazione di certo “cinema medio”, allora, può essere (spariamola grossa) tra i fermenti e i frammenti di una nuova avanguardia, forse dell’unica avanguardia ancora realmente possibile in un tempo (drammaticamente) orfano di rivoluzioni come il nostro. Con tutti i rischi e le contraddizioni che una simile strategia comporta.

Il caso di Petri (che chiamava ironicamente il suo tipo cinema anche “polpop”, politico-popolare) è emblematico anche in questo senso. Tra “bracci di ferro” (parzialmente) perduti (La decima vittima, coraggioso tentativo di distopia “all’italiana” martoriato dal produttore Carlo Ponti) e rifiuti incrociati: dalla cultura militante che, per bocca di Straub, arrivò a invocare il rogo per il «reazionario» La classe operaia, e quel sistema produttivo da cui lo stesso Petri prese le distanze alla fine dei ’60 e che con la crisi di fine ’70 prese, drasticamente, le distanze dal suo cinema ormai (all’altezza di Todo modo, di Buone notizie o della mai girata meta-spy story Chi illumina la grande notte?) all’apice della sua tensione critico-apocalittica e corrosiva (sempre dall’interno) verso le logiche dei generi tradizionali.

La sfida è (ancora) complessa e ardua. Ma il mondo (anche letteralmente) in fiamme di oggi ha tanto più bisogno che si continui a raccoglierla, sulla scia degli esempi più significativi di questi ultimi anni. Serve (e servirà) un cinema “medio” anche (e soprattutto) nel suo porsi al centro delle categorie invalse e delle loro opposizioni: impegno e intrattenimento, genere e autorialità, cultura “alta” e “popolare”, per farle inciampare, deragliare, deflagrare.

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