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ESTIU 1993 – ESTATE 1993 di Carla Simón (2017)

Estiu 1993 Carla Simón

È il coraggio ciò che prima di ogni altra cosa colpisce nell’opera prima di Carla Simón. Il coraggio di raccontare una storia estremamente personale, darla in pasto a un pubblico di sconosciuti senza mettere in scena alcun sentimentalismo, senza chiedere pietà per se stessa.

Nell’estate 1993, infatti, la madre della regista – a cui il film è dedicato  –  morì di AIDS, qualche anno dopo il marito, lasciando quindi Simón orfana a soli sei anni. Adottata dallo zio, dovette abituarsi non solo alla perdita dei genitori e della sua quotidianità a Barcellona, ma anche alla realtà e alle regole di una nuova famiglia.

Estiu 1993 rappresenta un periodo di transizione obbligato e inaspettato, dà forma a un trauma affrontato troppo presto e che attraverso le immagini la regista tenta di controllare, con la sua nuova maturità. Si tratta quasi di un tentativo di riappropriazione del proprio passato, condotto tuttavia attraverso una ricercata neutralità.

Uno sguardo di (auto)analisi

Lo sguardo adottato per narrare questa storia è quasi etnografico. La macchina da presa, spesso tenuta a mano, si getta fra i personaggi e silenziosamente li osserva. Essendo due bambine le protagoniste, ossia Frida (alter ego di Carla) e la cuginetta Anna, si rende necessario uno stile documentaristico per cogliere la spontaneità dei loro giochi e delle loro interazioni.

Ciononostante è evidente il lavoro psicologico compiuto dalla regista nella creazione del ruolo per Laia Artigas, la piccola Frida. L’espressività magnetica e l’interpretazione potente di questa incredibile bambina spiazzano lo spettatore. In un’altalena di emozioni e di identificazioni, lo portano a discostarsi e avvicinarsi continuamente alla sua sofferenza latente che, nascosta da un atteggiamento apparentemente distaccato ed egocentrico, esplode in tutta la sua forza solo alla fine.

Con delicatezza e consapevolezza, Carla Simón ricostruisce per immagini un pezzo di sé, ponendosi contemporaneamente dentro e fuori ciò che racconta. Premessa difficilissima per un esordio, ma scommessa riuscita in ogni aspetto.

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New Girl: la vita inizia a trent’anni

New Girl recensione Framed Magazine

Jessica Day è una ragazza prossima ai trenta che crede di aver raggiunto la stabilità. Ha un lavoro che ama e un fidanzato con cui convive felicemente, Spencer. Peccato che, dopo essere tornata in anticipo da un viaggio a New York, lo sorprende a letto con un’altra. La ragazza, sconvolta, decide di trasferirsi il prima possibile e di iniziare una nuova vita. Di diventare una ragazza tutta nuova, insomma.

Ed è così che incappa nel loft 4D. Jessica, Jess per gli amici, risponde a un annuncio per una stanza in affitto su Craig List. Crede di andare a fare un colloquio per vivere con altre brave ragazze. Ma con sua somma sorpresa, scopre che i suoi potenziali coinquilini sono tre ragazzi.

Malgrado le perplessità iniziali da ambo le parti, avrà inizio una delle più iconiche convivenze della storia delle serie TV.

New Girl non è “una serie per ragazze” 

New Girl è una serie dedicata alle cosiddette “mosche bianche”. Non solo Jess è una ragazza fuori dal comune, ma lo sono anche i suoi coinquilini. Nick, Schmidt e Winston, insieme al personaggio ricorrente di Coach, sono una piacevole sorpresa, in una società che esalta i “maschi alpha”.

Il classico stereotipo maschile è quello di individui che non parlano dei loro sentimenti, che non sanno cosa sia il romanticismo, che passano il tempo in poltrona a guardare lo sport in TV.

Invece New Girl racconta di uomini empatici, sensibili, che sì, sono diversi dalle donne, ma non sono un pianeta a sé stante. Coach, il sexy personal trainer, in particolare, vuole ostentare l’ideale di mascolinità imposto dalla società. Peccato che ci piaccia proprio quando mostra la sua vulnerabilità. 

Perché i ragazzi di New Girl sono così: vulnerabili, sensibili, bellissimi “maschi beta”. E ci piacciono esattamente così. 

Ci piacciono talmente tanto che a volte quasi oscurano la protagonista femminile. Perché nella storia della TV abbiamo visto tante ragazze “fuori dagli schemi”, ma davvero pochi ragazzi

Ciò non toglie che Jess sia straordinaria

In un mondo dove le “dieci” sono le modelle, Jess spicca per la sua meravigliosa umanità. È una donna sopra le righe, che rifiuta ogni tipo di affettazione e artificio. Jessica Day è stupenda così com’è. In tutta la sua goffaggine, nel suo essere fuori luogo. E poi, come si fa a resistere a quegli occhioni azzurri? 

Jessica Day è dolce ed empatica. A primo sguardo potrà sembrare fragile, ma è sorprendentemente forte. Quando le cose le vanno male, anziché abbattersi, ha il coraggio di reinventarsi, ogni volta. Senza mai guardarsi indietro. 

Gli inquilini del loft 4D: simbolo della generazione dei millennial

Pensateci bene: How I Met Your Mother e Friends mostrano dei trentenni che lavorano, che hanno una vita stabile, sia professionalmente, sia emotivamente. Ted Mosby, nonostante i suoi patemi d’animo, ha un lavoro, una carriera avviata. E a un certo punto va a vivere da solo in un lussuoso appartamento a New York. 

I protagonisti di New Girl, invece, sono dei ragazzi gettati controvoglia nel mondo degli adulti. Sono perennemente sospesi fra il desiderio di tornare all’adolescenza e la voglia di crescere. Anche quando hanno dei lavori stabili, non sono mai convinti di ciò che vogliono. Perché sanno che la vita può essere stravolta da un momento all’altro e devono essere in grado di reinventarsi. 

La nostra non è la generazione del boom economico 

I trentenni di oggi non sono abituati ad avere un futuro stabilito davanti a loro. Qualunque cosa può deviarli dal loro percorso. Ma, nonostante questo, trovano la forza di guardare a questo mondo mutevole con ironia. È proprio questo lo spirito di New Girl.

Dei ragazzi in procinto di diventare adulti, che si tengono stretti fra loro, sostenendosi in questa marea confusa che è la vita. E trovano sempre la forza di ridere davanti alle tempeste. 

È per questo che New Girl parla così tanto bene di noi, quasi o appena trentenni. Ci racconta la nostra vita, ma mostrandoci il lato più ironico e poetico. E ci dice con veemenza che non dobbiamo sentirci inadeguati, se ancora siamo instabili negli affetti e nel lavoro. C’è sempre tempo per reinventarsi e scoprirsi. La vita è un viaggio meraviglioso. E ciò che conta è il tragitto, non l’arrivo. Perché non è certo il punto a cui arriviamo, che ci definisce per come siamo. 

New Girl ci rassicura: andiamo bene così come siamo 

Non tutti possono essere realizzati a trent’anni. Soprattutto in un mondo difficile come il nostro, dove si cercano giovani “con esperienza”, ma disposti a lavorare sottopagati. Dove è tanto difficile capire qual è la strada giusta. Dove l’idea di felicità è sfuggente e complessa. 

Ma New  Girl ci insegna che se qualcosa stravolge la propria vita, non ci si deve abbattere. Si deve capire che non esiste un sentiero già tracciato, varia, porta a dei bivi. E va benissimo così. Perché la cosa più bella di questo viaggio è il piacere della scoperta. Anche perché se hai dei buoni amici su cui contare, andrà tutto bene. L’importante è vivere questa assurda e strana vita insieme. 

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Rush! | I Måneskin alla prova dell’album internazionale

Rush! album cover Måneskin

Non tenere conto dei Måneskin nel discorso musicale è un errore. Come tutti i grandi fenomeni pop che alzano le gonne, fanno schizzare gli ormoni e inseguire i cantanti sotto casa, non considerarlo significherebbe perdere una buona occasione per capire qualcosa di più su di noi. E tra buffi e incomprensibili accostamenti alla trap e processi per direttissima dal tribunale di Facebook della domenica per aver ucciso il vero rock n’ roll de na vorta, il 20 gennaio è uscito Rush!, terzo album in studio dei fab four di Monteverde. 

Dal tetto del mondo, Damiano, Victoria, Ethan e Thomas hanno tirato fuori melodie sapientemente orecchiabili ed eccellenti hook che tutti possono cantare, non importa se si sappia l’inglese o meno. 

Certo rock vaporoso e ironico non si è mai voluto prendere sul serio fino in fondo e una linguaccia col dito medio e i distorsori bastano e avanzano. La direzione che i Måneskin avevano preso con Mammamia e I wanna be your slave sembrava essere proprio questa: esagerata, sexy, glam, con qualche gradito “incidente” di percorso come Coraline, gran pezzaccio lento e struggente che non hanno ahimè più saputo replicare. Il rock sulle ballad ci ha campato, tuttavia per Damiano e i suoi è ancora questa la nota dolente. Molto più forti i pezzi veloci, il basso distorto e i testi ammiccanti e giocosi, non si capisce perché debbano giustificare svelando stratificazioni di cui è lecito dubitare e che non servono a niente.

Come Kool kids che scimmiotta egregiamente quel punk inglese sporco e cattivo, di cui Damiano imita anche il caratteristico marcato accento british, ma che funziona dannatamente meglio di qualsiasi altra sviolinata in minore. 

Le ballad come Timezone rende decisamente meno, nonostante le promesse di verità struggente e lacrime a profusione. Senza i riff caciaroni ammiccanti, l’attitude di giovani rockstar che non devono niente a nessuno, non rimangono che sedute casse in quattro e strofa – ritornello – solo – ritornello di cui si faceva anche a meno nell’economia generale dell’opera. 

Ma non si diventa icone pop con le composizioni sopraffine, non soltanto e non per forza, almeno. I Måneskin lo sono già e di dimostrazioni ai boomer con i paraocchi di turno non hanno intenzione di farne, a ragione.

Ascolta qui Rush! dei Måneskin e continua a seguire FRAMED anche su Facebook e Instagram per altri consigli di ascolto

She Said | La storia del caso Weinstein ha tutto, tranne l’anima

She Said
Megan Twohey (Carey Mulligan) e Jodi Kantor (Zoe Kazan) in She Said

Corridoi vuoti e tutti identici, impersonali, quelli degli hotel in cui Harvey Weinstein costringeva attrici e collaboratrici a un’intimità indesiderata. Come un fantasma la macchina da presa vaga in questi spazi di passaggio mentre una voce, la voce del grande assente si impone con il suo fare autoritario, violento, maschilista. Se proprio questa, fra tutte, è la sequenza di She Said che rimane più impressa, quella con più valenza emotiva, forse il film di Maria Schrader ha qualcosa che non funziona come dovrebbe.

5 ottobre 2017, il click day

L’intero film tende a un unico momento, quello del click day con cui effettivamente si chiude l’ultima scena: l’esatto istante in cui tutto il lavoro di inchiesta del New York Times culmina nella pubblicazione del primo articolo contro Harvey Weinstein. Era il 5 ottobre 2017 e il pezzo – a questo link – era firmato da Jodi Kantor e Megan Twohey.

Sono state loro, vincitrici poi del premio Pulitzer per il libro redatto dall’inchiesta, a condurre per mesi la ricerca sul produttore hollywoodiano, cercando fonti e conferme, tessendo una tela di testimonianze ben salda, con l’obiettivo di “fare un passo avanti tutte insieme”, senza lasciare nessuna testimone indietro, scoperta.

Il loro complesso e delicatissimo lavoro, a contatto con donne abusate e maltrattate da Weinstein, anche molto famose, terrorizzate dal clima creato dal produttore, è il fulcro del film di Schrader, al punto da penalizzare a volte altri aspetti dell’opera nel complesso. Si finisce per sapere poco delle due protagoniste, se non che sacrificano parti essenziali della loro vita privata, di donne, madri e mogli, senza vederne in dettaglio le sfaccettature psicologiche.

Dove She Said perde l’equilibrio

Per convenzione, ossia per le categorie dei premi cinematografici, viene individuata Zoe Kazan (Jodi Kantor) come protagonista e Carey Mulligan (Megan Twohey) come supporting actress, quest’ultima già con una nomination ai Golden Globes. Il fatto però che vi sia un’attrice molto più celebre dell’altra in un ruolo minore già scombina l’equilibrio tra i due personaggi, indebolendo quello che, secondo la sceneggiatura, dovrebbe essere il personaggio cardine. Kazan, in altre parole, nonostante sia un’ottima attrice dal cognome pesantissimo a Hollywood (è la nipote del grande Elia), svanisce sotto il peso di Mulligan, ed è un peccato.

Quello che nelle intenzioni di Maria Schrader vorrebbe essere un andamento in crescendo, nella realizzazione finale perde potenza. She said ha tutto: ha la storia, ha la struttura “investigativa”, i momenti di stallo disperato e i punti di svolta cruciali. A mancare è forse l’anima, l’emozione, a discapito di una storia che andava raccontata, esattamente così, ma che forse è ancora troppo vicina al nostro presente. Farebbe troppo male se scavasse più a fondo, allora si limita a galleggiare sulla superficie.

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Babylon di Damien Chazelle| Estrema e spietata macchina dei sogni

Babylon, Paramount Pictures
Babylon, Paramount Pictures

Damien Chazelle torna con quello che è il dark side di La La Land, Babylon mostra il lato oscuro della logorante ed estrema corsa al successo in uno scenario che dagli anni ’20 arriva fino ai primi ’50. Visivamente accecante (in senso buono), coreograficamente appariscente, fin qui sembrerebbe una storia da lustrini negli occhi alla Baz Luhrmann, ma non lasciatevi ingannare: al centro del grande spettacolo c’è il cinema, la macchina dei sogni di cui chiunque vorrebbe far parte, nel bene e nel male.

La decadenza raccontata è uno velo nerissimo sovrapposto come ombra sul “magico” mezzo, più precisamente un elemento onnipresente che ne è parte fin dagli albori, che tende a fagocitarlo, che si nasconde con astuzia dietro al risultato: il film. Quella di Chazelle non è solo una critica ma l’ammissione di un dato di fatto, per quanto tale decadenza esista non possiamo fare a meno del cinema, perché è oltre la vita stessa, perché è la nostra vita.

Il prologo

1926 – Il trasporto eccezionale di un elefante per una festa esclusiva, sporcizia polvere fatica, poi l’arrivo alla villa dove l’animale sarà il colpo di scena di un evento in cui un ragazzo messicano di nome Manuel “Manny” Torres (Diego Calva) lavora come tuttofare. Perversioni di ogni tipo e forma animano l’abitazione maestosa del produttore esecutivo dei Kinoscope Studios: lo spettacolo si muove sia sopra che sotto il palco, dove un baccanale orgiastico imperversa a ritmo di musica.

Attrici e attori, ballerini e contorsionisti, registi, produttori, musicisti: tutti gli ingranaggi del cinema degli anni ’20 sono lì ad inebriarsi tra gli eccessi del sesso e di allucinati viaggi trascendentali, quello è il mondo del cinema e mentre Manny cerca di dileguarsi tra una giornalista curiosa e un’attricetta in overdose, pensa solo di volerne fare parte.

L’incontro inaspettato con Nellie LaRoy (Margot Robbie) è la ciliegina sulla sua torta immaginaria di futuro successo, l’aspirante diva infatti è lì per farsi notare e come lui vuole far parte di qualcosa di più grande (e meno deludente) della vita reale. Ma come fare?

Quella festa cambierà l’esistenza di entrambi, li allontanerà, li trasformerà. Chazelle insinua una linea narrativa romantica mentre senza ritegno ci sta provocando mostrando quel sudicio e sfrenato sottostrato umano. Vuole aprirci gli occhi, vuole farci credere al sogno malato. Poi il titolo BABYLON compare sullo schermo, e lui ha tutta la nostra attenzione.

Babylon, Paramount Pictures.

Atto primo: l’ascesa

Nel prologo incalzante compaiono già tutti i personaggi parte della Babilonia del cinema: la cantante cabarettista di origini cinesi Lady Fay Zhu (Li Jun Li), che di giorno scrive le didascalie per i film e di notte si esibisce in sensuali performances, il trombettista jazz afroamericano Sidney Palmer (Jovan Adepo) e l’attore di successo Jack Conrad (Brad Pitt). Ma mentre i primi due non se la passano benissimo a livello economico quest’ultimo vive nel lusso sfrenato e insensato di una star di Hollywood.

Manny attira l’attenzione di Jack che lo porta sul set solo perché “gli piace”, lo stesso accade a Nellie, presa per recitare in qualche scena dopo essersi fatta notare alla famosa (una tra le tante) festa degli eccessi dell’inizio. È per caso che entrambi arrivano al set, ma difenderanno quel traguardo con le unghie e con i denti. Mentre lui fa di tutto per soddisfare le bizzarre richieste che registi, attori e produttori gli fanno, lei gioca a fare la vamp con una scollatura maldestra o un ammiccamento seducente, mostrando però di saper interpretare con intensità ciò che le viene chiesto.

Nel mezzo della loro ascesa ci sono gli anni d’oro del cinema muto. La costruzione di un’emozione si ottiene attraverso un’espressione del viso o un gesto, il tutto intervallato da quelle didascalie che professionisti come Lady Fay Zhu scrivono per attori che forzano la mano con la teatralità della loro recitazione.

Li Jun Li è Lady Fay Zhu in Babylon, Paramount Pictures.

Atto secondo: perdere tutto

Ogni cosa è concessa per salire i gradini ripidi della scala del successo, la prima regola per intraprenderla è essere la persona giusta al momento giusto, ma se in più c’è un pizzico di testardaggine e un po’ di bravura la tua faccia sarà su tutte le copertine. Da quella scala però si deve ad un certo punto scendere, sta a chi lo fa decidere se tornare indietro senza essere visti o in picchiata con un grande tonfo finale.

Manny sale di livello nello studio system, acquista fiducia da parte di chi lavora con lui, Nellie diventa un’attrice di punta. Sembra che abbiano realizzato i propri sogni quando, prima di una grande rivoluzione, i loro destini si incrociano di nuovo. Verso la fine degli anni ’20 una sensazionale invenzione sconvolge il mondo dell’intrattenimento: il cinema sonoro spazza via didascalie, silenzi musicati e mosse esagerate. Recitare diventa un lavoro nuovo, anche per chi come Jack Conrad è comparso in decine di film muti. La voce, improvvisamente, è uno strumento da saper usare e un problema, non solo per gli attori ma anche per chi deve scrivere i dialoghi delle storie che verranno proiettate.

Cambia il cinema e cambia la società che lo venera. L’euforia senza limiti che prima lo caratterizzava si ridimensiona e i malesseri da sempre soffocati iniziano ad ingigantirsi. Così la favola trova nuovi protagonisti e quelli vecchi si nascondono tristemente dietro al loro ricordo. Come Nellie, non più it girl ma ora considerata volgare e incompetente, schiava del gioco d’azzardo e della droga. La nuova Hollywood è meno libertina e più ipocrita e razzista. I più lucidi tra i personaggi presentati una decade prima lasceranno quel mondo, gli altri ne verranno risucchiati senza pietà.

Intermezzo: all’inferno

Gli eccessi, la perversione, le dipendenze e la depressione diventano mostri annaspanti nascosti sotto al tappeto, o in questo caso in un tunnel sotterraneo stratificato come nei gironi infernali. Manny e Nellie sono di nuovo insieme, lui cerca di risollevare la reputazione dell’attrice mentre lei si perde nei debiti e nella dipendenza.

A Chazelle non basta, il film cambia registro, l’orrore si insinua nei gloriosi resti di ciò che rimane della festa del prologo e di tutte le “vittime” del moralismo. Quando Manny prova a salvare la vita di Nellie incontrando il gangster James McKay (un perturbante ed efficace Tobey Maguire) la visione del luogo in cui un vero e proprio circo degli orrori ha sostituito la fame di spettacolo del pubblico capirà che il cinema non è più quel sogno perfetto.

SPOILER – Se la morte è la soluzione ideale per alcuni, altri scelgono di accettare l’oscurità, e vi danzano attraverso perdendosi nell’oblio, come Nellie. Manny, risparmiato dall’uomo che James aveva mandato per ucciderlo, lascia Los Angeles.

Tobey Maguire è James McKay in Babylon, Paramount Pictures.

Conclusione: il cinema (spoiler)

1952 – Il passare degli anni ha cambiato la faccia del mondo, dopo la guerra, la lontananza, c’è una nuova vita: Manny torna a Los Angeles con la moglie e la figlia. Non va al cinema da tanti anni, la città è popolata dai fantasmi di chi ricorda amico e da storie incredibili divenute ormai leggende, ricordi.

Sceglie un film, Singin’ in the Rain, un musical che racconta la trasformazione dell’industria cinematografica nel passaggio dal muto al sonoro. Tra le risate degli altri spettatori c’è il pianto disperato di Manny, che riconosce nell’ironia del musical di Gene Kelly e Stanley Donen la sua vita, i compagni d’avventura, Nellie e il successo distrutto, Jack e i titoli in copertina che ne massacravano la carriera. Manny sa cosa hanno passato le donne e gli uomini dentro al cinema per arrivare a quel punto.

La macchina da presa si sposta leggera dal suo volto al resto del pubblico, si posa sugli sguardi concentrati, sui sorrisi. Non una tiepida carrellata per evidenziare il piacere di “osservare le facce degli altri spettatori nel buio”, ma il preludio alla sequenza più intensa di Babylon. Un montaggio esplosivo di inserti di film che attraversano il corso del secolo: dal cinema classico a quello moderno, il cinema sperimentale e quello d’arte, Matrix e la nuova frontiera della tecnologia, Avatar di Cameron e Persona di Bergman, stridenti, complici, uniti in un legame indissolubile. E poi il colore puro, l’aggressività punk e fluo della sua forza visiva. E vortici pittorici, annientamento dell’immagine (che ricordano i blow-up pittorici di Antonioni).

Anti-hollywoodiana, in controtendenza, sporca e poetica, questa è la dichiarazione finale di Chazelle. La macchina da presa torna su Manny, Gene Kelly sta cantando I’m happy again, le lacrime si trasformano in un sorriso.

Il cinema non è morto, il cinema è la nostra storia. Nonostante tutto, il cinema siamo noi, che cambiamo con lui, incessantemente.

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Damien Chazelle: una vita a suon di cinema e speranze

"File:Damien Chazelle directing La La Land.jpg" by Lionsgate Entertainment is licensed under CC BY-SA 4.0.

Come trovare le parole adatte per parlare di uno dei cineasti più apprezzati e osannati degli ultimi anni? Sebbene l’impresa possa sembrare ardua, sono qui per tentare l’impossibile parlandovi di Damien Chazelle.

La mano dietro alla cinepresa di film come Whiplash e La La Land, tornerà al cinema, a distanza di quasi 5 anni dal suo ultimo lavoro, con Babylon, film attesissimo con (di nuovo insieme sul grande schermo) Brad Pitt e Margot Robbie. Ma, andando con ordine, ecco un approfondimento sulla mente che ha riscritto le regole di Hollywood.

I primi passi nel cinema

Damien Chazelle nasce a Providence nel Rhode Island il 19 gennaio 1985. Nonostante sia figlio di due professori, suo padre insegna Scienze Informatiche, mentre sua madre Storia Medievale, intentare la carriera dei genitori non gli passa nemmeno per la testa, i suoi sogni sono altri.

Anche se l’amore per il cinema è una costante per lui sin dalla tenera età, è la musica la sua prima passione; Chazelle, infatti, durante l’adolescenza, sogna di diventare un musicista (più precisamente un batterista jazz) ma a detta sua non ha abbastanza talento per poter intraprendere una carriera nel mondo della musica, ma ne ha da vendere in un altro campo: la settima arte.

Consegue una laurea all’Università di Harvard nel dipartimento di Studi Visivi ed Ambientali nel 2010 ed è proprio tra i banchi di scuola che conosce Justin Hurwitz, con la quale instaura un profondo legame di amicizia e un sodalizio artistico, perché proprio Hurwitz è la mano dietro alle colonne sonore dei suoi lungometraggi.

Nel 2009, all’età di ventiquattro anni, Chazelle debutta nel cinema con il suo primo lungometraggio Guy and Madeline on a Park Bench, di cui firma regia e sceneggiatura. Il film, che non è mai arrivato in Italia, è stato girato con l’utilizzo della camera a mano, in bianco e nero ed è la summa delle caratteristiche principali che poi vedremo in Whiplash e La La Land.

Whiplash: il sogno del riscatto

Dopo la prima esperienza registica, Chazelle si trasferisce a Los Angeles per tentare la fortuna in quella da tutti considerata la città dei sogni. Purtroppo la fortuna non è dalla sua parte e piuttosto che vedere la realizzazione dei suoi desideri, si ritrova numerose porte chiuse in faccia. Il suo lavoro, caratterizzato dall’unione di musica e cinema, non trova il favore dei produttori che rifiutano i suoi progetti oppure li accettano apportandone però numerose modifiche, costringendo l’aspirante cineasta a rifiutare.

Nel 2013 partecipa così alla scrittura di due lungometraggi (The Last Exorcism-Liberaci dal male e Il ricatto), ma decide di cimentarsi nel mondo dei cortometraggi, producendo così il corto Whiplash.

Nel 2014, a distanza di un anno dal rilascio dell’omonimo cortometraggio, Damien Chazelle ha il via libera e Whiplash diventa un lungometraggio. Da questo momento la sua vita cambia per sempre. Il film incassa 50 milioni di dollari al botteghino. Un successo consacrato poi nel 2015 con ben 5 candidature ai Premi Oscar. Interpretato da Miles Teller e da J.K. Simmons, Whiplash è la storia della perseveranza e del coraggio di Andrew, giovane aspirante batterista jazz, e del suo burbero insegnate Terence (personaggio ispirato proprio all’insegnante di Chazelle stesso). Chazelle non ha più via di scampo, ormai tutti hanno gli occhi puntati su di lui.

Whiplash, Sony Pictures Entertainment Italia

La La Land: la sua personalissima Hollywood

A distanza di nemmeno un anno da Whiplash, il regista porta alla luce quello che finora è stato da molti riconosciuto come il suo più grande e lodevole lavoro: La La Land.

Presentato in anteprima alla 73esima edizione del Festival del Cinema di Venezia, La La Land incanta pubblico e critica a suon di musica, cinema, sogni e cuori spezzati. Come da lui stesso dichiarato, nel momento in cui Whiplash è stato presentato agli Studios, La La Land aveva già musica e sceneggiatura, ma dai produttori era stato considerato troppo futile e banale. Inutile dire che è stato tutto fuorché questi due aggettivi.

La storia d’amore di Mia (Emma Stone) e Sebastian (Ryan Gosling) miete un successo dietro l’altro, diventando un film da record. Con 7 vincite su sette ai Golden Globe 2017, il lungometraggio è l’unico nella storia del cinema ad aver vinto in tutte le categorie per cui era nominato, superando addirittura il film Qualcuno volò sul nido del cuculo. Ottiene 14 candidature ai Premi Oscar eguagliando Titanic ed Eva contro Eva, portandosi a casa sei statuine tra cui Miglior Attrice protagonista ad Emma Stone e Miglior Regista, facendo di Damien Chazelle il più giovane regista della storia ad aver vinto un riconoscimento di tale portata (all’epoca aveva appena 32 anni).

La La Land
La La Land, Lionsgate

Chazelle tra spazio e Vecchia Hollywood

Accantonata per un momento la musica e lo sfarzo illusorio di Hollywood, Damien Chazelle torna a collaborare nel 2018 con Ryan Gosling in First Man – Il primo uomo. Il film mette in scena la storia di Neil Armstrong, che nel 1969 arriva a toccare la Luna con la spedizione dell’Apollo 11. Tratto dal libro biografico di James R. Hansen, il film è stato accolto positivamente dalla critica e si tratta di un vero e proprio viaggio intimo e introspettivo alla vita di colui che con il suo allunaggio ha cambiato per sempre la storia americana e non. Candidato a 4 Premi Oscar, è stato l’ultimo lavoro registico di Chazelle fino ad ora.

First Man, Universal Pictures

Il 19 gennaio, infatti, il regista tornerà al cinema con Babylon, annunciato nel 2019, dove, precedentemente a Margot Robbie, il ruolo da protagonista era stato offerto a Emma Stone, costretta a rinunciare a causa di altri impegni già presi.

Il film racconta gli eccessi e i vizi della Hollywood anni ’20, un’epoca lontanissima da quella di oggi in cui il cinema è cambiato, come dice lo stesso regista, in peggio. E mentre in America il successo del lungometraggio è venuto meno, in Italia non si aspetta altro.

Recuperare la filmografia e i successi di un regista ambizioso come Chazelle è quasi un obbligo per i cinefili più accaniti, perché ogni suo film è una vera e propria lettera d’amore al cinema stesso. Se con questo articolo vi ho convinto potete recuperare Whiplash su Netflix, La La Land su Rai Play mentre First Man è disponibile a noleggio. Inutile esortarvi a recarvi invece al cinema per poter vivere Babylon.

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Willow la serie | Pregi e difetti del ritorno all’avventura

WILLOW
Willow Ufgood (Warwick Davis) in Lucasfilm's WILLOW, Disney+. ©2022 Lucasfilm Ltd. & TM. All Rights Reserved.

Si conclude dopo 8 episodi Willow, serie sequel del cult fantasy anni ’80 scritto da George Lucas e diretto da Ron Howard.

Una serie che sulla carta vantava il ritorno di due dei principali interpreti del film originale: Warwick Davis nei panni di Willow UfgoodJoanne Whalley nei panni di Sorsha, ma anche Lawrence Kasdan come ideatore e produttore esecutivo assieme allo stesso Howard.

Dove eravamo rimasti?

Allerta Spoiler per chi non ha visto il film – La serie si inserisce cronologicamente circa vent’anni dopo la battaglia di Nockmaar che vide la strega Bavmorda, intenta a sacrificare la bambina prescelta Elora Danan, perdere contro la strega buona, Fin Raziel, aiutata da Willow, un contadino nelwyn aspirante stregone, con un trucco di prestigio (dettaglio importante che tornerà negli episodi centrali della serie).

I nuovi personaggi

C’è Sorsha, che dimora su Tir Asleen con i suoi due figli, Kit (Ruby Cruz) ed Airk (Dempsey Brik), ormai cresciuti senza il padre, Madmartigan (nel film originale interpretato da Val Kilmer), partito in missione anni addietro.

Poi Dove (Ellie Bamber), l’apparentemente umile domestica, Jade (Erin Kellyman), guerriera addestrata fedele a Kit, il principe promesso in sposa a quest’ultima, Graydon Hastur (Tony Revolori) e infine l’ex carcerato dalla parlantina facile, Boomar (Amar Chadha Patel), personaggio avvolto nel mistero. La pace regna sovrana, finché il risveglio delle forze del male crea scompiglio. L’unica speranza? La magia.

WILLOW, Disney+ ©2022 Lucasfilm Ltd. & TM. All Rights Reserved.

Un nuovo tipo di magia

Il film del 1986, in Italia spesso trasmesso in TV, di domenica, durante il Ciclo Fantastica Avventura, era avvolto da un’aura di sense of wonder favolistica che non si risparmiava però nel mostrare scene dark e grottesche al suo pubblico. Basta pensare a quella dell’Eborsisk, creatura modellata e diretta magistralmente dal geniale regista di Mad God ed effettista Philip Tippet.

Qui invece, fin da subito, tono e messa in scena parlano chiaro: Willow è una serie che vuole rivolgersi a un pubblico giovane ma questa intenzione comporta pregi e difetti impossibili da non evidenziare. Come l’uso del linguaggio, marcatamente modernizzato rispetto allo stampo classico che ci si aspetterebbe da un’ambientazione medievaleggiante. I dialoghi, sempre più didascalici, non lasciano il segno.

Passando al lato tecnico, è crudele anche solo pensare di paragonarlo agli altri due fantasy che hanno riempito le bocche di tutti nel 2022 (House of the Dragon e Gli Anelli del Potere) anche se qualche guizzo si percepisce nel penultimo episodio durante una scena di allenamento a cinque.

Si tratta di una serie che non vuole puntare troppo in alto ma che tiene al rispolvero di un tipo di formula classica riadattata ai tempi nostri: lodevole sotto un certo punto di vista ma respingente.

Un’altra problematica sicuramente sta nella scelta di pezzi musicali non originali (i brani originali sono di James Newton Howard che sostituisce il compianto James Horner), spesso cover di brani famosi riarrangiati che irrompono spesso e volentieri in scene action quasi a sfidare contesto e luogo rischiando di fallire, rievocando il ricordo indelebile di un giovane Austin Butler a cavallo con Run boy run di Woodkid in sottofondo. Tutto questo può anche nuocere alla soglia di credibilità, già messa a dura prova dalla ricerca di un target di riferimento.

Conclusioni

Non stiamo parlando di un cattivo prodotto, ha cuore e nella sua semplicità veicola un messaggio chiaro: scegliere il proprio cammino.

Tutti i personaggi compiono un percorso prevedibile ma efficace e i momenti di interazione, seppur non sempre d’impatto, brillano di una luce nostalgica. Warwick Davis è in forma e si impegna per dare a uno dei suoi ruoli più iconici, nuove inaspettate sfumature, ed è sempre bello rivederlo sullo schermo.

Forse ci troviamo davanti a un altro sequel fuori tempo massimo realizzato per conquistare a forza chi è cresciuto col predecessore. Solo il tempo ce lo dirà e chissà, magari una seconda stagione verrà confermata. Per il momento trovate la prima su Disney+.

WILLOW, Disney+. ©2022 Lucasfilm Ltd. & TM. All Rights Reserved.

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The Last of Us 1×01 – La recensione del primo episodio

The Last of us
The Last of Us , HBO, SKY

Se ve lo state chiedendo vi rispondiamo subito: il primo episodio di The last of Us conferma tutte le (grandi) aspettative che nel corso di questi mesi lo hanno circondato. E getta solide basi per quello che potrebbe segnare una svolta nell’intricato rapporto tra medium videoludico e serialità televisiva.

Finalmente ci troviamo di fronte ad una serie tratta da un videogioco che non resta incastrata nel difficile passaggio di mezzo ma che fa anche di meglio, andando oltre. Non un semplice adattamento, non una trasposizione annacquata per farsi piacere al pubblico generalista.

Il primo episodio di The Last of Us riprende con rispetto la trama del (primo capitolo) del videogioco e lo converte senza paura al nuovo mezzo, sotto la guida di Craig Mazin (Chernobyl). Un risultato che forse solo l’unione di HBO e Naughty Dog (incarnata da Neil Druckmann, direttore creativo del videogioco) poteva raggiungere. Forse sarà la serie dell’anno. Forse si perderà nel corso delle puntate. Ma le premesse ci sono tutte. Non ci resta che aspettare.

Tre salti temporali per immergerci nel mondo di The Last of Us

1968. Un late show americano. Avvolti nel fumo delle sigarette, due scienziati, ospiti del programma, si lasciano prendere in giro bonariamente dalle battute del conduttore su un’eventuale fine del genere umano. Un virus forse. Ma a quello in un modo o nell’altro l’umanità riuscirebbe a sopravvivere. Un fungo. Ecco, in quel caso l’umanità perderebbe. Il silenzio tra il pubblico.

2003. Austin, Texas. Seguiamo la giornata di Sarah, dalla colazione insieme al padre Joel (un bravissimo Pedro Pascal) e lo zio Tommy (Gabriel Luna) all’andare a scuola, fino al passare il pomeriggio dagli anziani vicini. È il compleanno del padre. Decide, come regalo, di riparargli un vecchio orologio che tiene chiuso in un cassetto. Ma c’è qualcosa di strano nell’aria. È arrivato il giorno nel quale l’umanità non riuscirà a vincere.

2023. Una zona di quarantena. Joel si sta dando da fare come contrabbandiere per cercare di ottenere una batteria illegale e un mezzo per raggiungere il fratello Tommy, fuori dalla zona e che non risponde da tempo. Ad aiutarlo la sua compagna Tess (Anna Torv). I fucili del governo regolano la claustrofobica vita della piccola cittadina. Sui muri un logo, quello delle Luci, un gruppo rivoluzionario che vuole riportare la democrazia e il rispetto dei diritti umani. E una ragazzina chiusa in una stanza, con una catena ad un piede, che interrogata dal capo delle luci Marlene (Merle Dandridge), conta (lentamente) da 1 a 10. È stata morsa, ma non si è trasformata. Non è impazzita e non è diventata un terribile mostro il cui unico scopo è spargere altre spore del fungo che fa impazzire gli uomini. Si chiama Ellie (Bella Ramsey) e Joel, in modo del tutto casuale, finirà con l’avere il compito di portarla fuori da lì.

The Last of Us, HBO, SKY.

Tra narrativa e serialità

Il primo episodio di The last of Us decide di introdurci così nel suo mondo, negli avvenimenti. Tre salti temporali mettono tutti i tasselli al loro posto per immergerci in questa realtà post-apocalittica, dove terribili mostri (una volta umani) sono ovunque e la società, o quello che ne rimane, è in disfacimento. Al tempo stesso ci presenta la figura di Joel, che da padre amorevole diventa un cinico contrabbandiere apparentemente senza scrupoli. I tempi sono cambiati. Ma l’orologio che gli ha regalato Sarah è sempre al suo polso.

In questo inizio, Druckmann e Mazin non vanno fuori dai binari e si appoggiano saldamente alla storia del videogioco, che era indubbiamente uno dei punti di forza della struttura creata da Naughty Dog.

La trama ed i dialoghi procedono lentamente ma senza incertezze, non lasciandosi mai andare ad ovvietà e a noiose spiegazioni. Una solida base di genere, che però lascia intravedere qualcosa e non si limita ai cliché tipici. Dietro, o meglio sopra, emergono personaggi complessi, sfaccettati, che il giocatore prima ed ora lo spettatore vogliono conoscere. E con i quali entrano subito in sintonia. Quale sarà il destino di Ellie? Joel riuscirà dopo più di vent’anni a riprendersi da quella perdita? E quale sarà il rapporto tra i due?

Lo stesso Craig Mazin, dietro anche alla macchina da presa, non affida il racconto unicamente alla storia. La regia, assieme alla fotografia, si sofferma spesso sui dettagli, sul pulviscolo nell’aria quando i personaggi sono persi nei loro pensieri. E la superlativa scenografia ci immerge per davvero e credibilmente nell’ambiente post-apocalittico, accompagnata da una selezione musicale mai invadente ma ben posizionata, che, oltre a riprendere il main theme del videogioco, affianca anche altri brani, adeguati per immergerci in questa realtà.

La prima puntata di The last of Us va oltre il videogioco. Si impone immediatamente come un soggetto a se stante che, nonostante attinga quasi passo passo alle vicende videoludiche, si caratterizza con un proprio animo, quasi più cinematografico che seriale.

Il lavoro svolto da HBO va oltre ogni più rosea aspettativa, riuscendo nell’incredibile compito di adattare una storia da un altro medium senza snaturarla ma anzi, attingendo ai nuovi strumenti offerti dal mezzo. Silenzi, piani sequenza, dialoghi, tutto è calcolato per coinvolgerci in una narrazione oscura, dove forse un barlume di luce indicherà la via da seguire per Joel ed Ellie.

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Aftersun | La vacanza con mio padre che non ho mai dimenticato

Aftersun. A24, Mubi.
Aftersun. A24, Mubi.

Aftersun è il film d’esordio della regista scozzese Charlotte Wells. Aftersun è l’accesso ad un ricordo così potente da far stare male: il racconto di una vacanza apparentemente come tante altre, che però diventerà unica per Sophie, che ricorderà per sempre quel viaggio in Turchia con suo padre e quel gusto di fissare la memoria su dispositivi di ripresa per non dimenticare la consistenza del momento.

L’istantanea di un’estate negli anni ’90

Il film di Wells è stato da molti definito uno dei migliori del 2022. Autobiografico, dal grande impatto emotivo, Aftersun è un debutto che colpisce al cuore chi lo guarda, ma soprattutto che travolge chi si ritrova inghiottito da ricordi simili, dalla nostalgia degli spensierati (ma solo in apparenza) anni ’90. Filmati in bassa definizione e canzoni vintage, come Drinking in L.A. di Bran Van 3000, che risuonano negli spazi dell’albergo in cui padre (Paul Mescal) e figlia (Frankie Corio) trascorrono qualche giorno di vacanza, sprigionano la bellezza di una storia essenziale, eppure straziante.

Sophie ha 11 anni, è ancora una bambina ma sente che qualcosa sta cambiando, vive nel limbo di un’estate decisiva in cui l’infanzia viene lasciata indietro. Suo padre, Calum, ha 30 anni e non fa che metterla in imbarazzo con le sue strane mosse di Tai Chi e la convinzione di essere un bravo ballerino. Parlano tra un gioco e l’altro, si confidano in modo goffo come solo una bambina e un papà potrebbero fare. Registrano con una videocamera i momenti più belli.

Come una polaroid sbiadita in cui i contorni dei sorrisi piano piano si sciolgono per colpa del tempo, quei giorni sono luminosi, intensi, complessi, ma celano ciò che Sophie ha paura di raccontare a Calum, e ciò che Calum non racconta a nessuno. Perché essere un bravo genitore è non farla scottare nelle ore calde e spalmarle ogni sera il doposole (aftersun) sul viso, quel viso sorridente con occhi che stravedono per l’unico uomo a cui prestano attenzione.

Aftersun. A24, Mubi.

Le ombre di un padre

Ciò che guardiamo non sta succedendo in quel momento: è la rielaborazione di un insieme di esperienze che, come la luce sulla spiaggia, cambia colore di continuo. E tra un flash e l’altro della Turchia e del bikini tie dye di Sophie c’è la donna adulta, all’età di Calum all’epoca del viaggio, che si fa strada in una discoteca dove accecanti luci bianche illuminano a ritmo di musica il locale. Dove scorge il profilo di un uomo che le ricorda il genitore.

Lei sa cosa è successo dopo, chi dei due ha deciso se rimanere o scappare da Edimburgo. Sa quante altre volte si sono detti ancora “ti voglio bene” prima di una partenza. Noi no, eppure, come se fossimo nella mente della donna, troviamo disseminate durante la proiezione mentale di quel ricordo le ombre di un uomo, che solo dopo individuiamo come tali.

La tristezza di Calum è silenziosa e si manifesta con noncuranza. In più di un momento sembra che poco gli importi di vivere e che l’unico motivo per cui continuare ad esserci sia Sophie e nessun altro. In bilico sulla ringhiera del balcone della stanza d’albergo, steso su un tappeto troppo costoso appena acquistato: Calum piange di nascosto e insegue un senso di fine che fa paura.

Aftersun. A24, Mubi.

Cortocircuito/Controcampo

La vita porta altrove. Lontano da quel resort in Turchia dove infanzia e adolescenza si sono fuse e sovrapposte in modo irreversibile. Lontano dai colori delle t-shirt e dalla musica brutta che li ha resi felici. La nostalgia è quella malattia degli adulti dalla quale è difficile guarire: il numero dei ricordi inizia a superare quello degli istanti da voler ricordare e Sophie ha dentro un mai detto irrisolto appuntito come un vetro rotto.

Non sappiamo cosa è successo tra lei e Calum dopo quell’estate, la bambina, ormai adulta, si sveglia la mattina del suo compleanno e guarda i filmini registrati nei giorni insieme.

Nella discoteca bianca e nera l’uomo che aveva visto da lontano era proprio Calum, o la sua proiezione, o un sogno rivelatore. La Sophie adulta lo abbraccia, lo allontana. Si scontrano, si stringono in un groviglio di amore e violenza, risentimento e mancanza. Una manciata di scene devastanti in cui quel poco che si vede esplode in un incontro/scontro che è in fondo una fantasia, o un desiderio mai realizzato.

Della vacanza rimangono vari nastri e sul finale una bambina che saluta il papà. Sophie si osserva, campo e controcampo di passato e presente si valutano.

SPOILER – La regista però vuole mostrare anche un altro controcampo, ovvero Calum dietro alla videocamera, che guarda la figlia di fronte a sé salire sull’aereo che la riporterà a casa dalla madre. Abbassa la videocamera, interrompe la ripresa, percorre il corridoio dell’aeroporto uscendo da una porticina affacciata su quella sala di luci accecanti, il rave/visione di Sophie in cui ha imparato a conservare anche le ombre di suo padre. Lì vivono tutte quelle sensazioni a cui ha dato un senso solo dopo. Dopo la Turchia, dopo il ritorno a casa, dopo la polaroid sbiadita di una serata con l’uomo che allontanava la nostalgia ballando con lei Under Pressure.

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