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The Quiet Girl | L’amore che dai e quello che ricevi

An Cailín Ciúin, The Quiet Girl

Si è fatto avanti in silenzio, ma senza esitazione, fino alla cinquina internazionale degli Oscar 2023, scavalcando anche grandi titoli più noti come Decision to leave e Corsage: The Quiet Girl è il primo film in assoluto in lingua irlandese a rappresentare l’Irlanda agli Academy Awards.

Cosa racconta The Quiet Girl

Sono i primi anni Ottanta. Nell’Irlanda rurale una famiglia molto povera e molto numerosa si prepara ad accogliere l’ennesima bocca da sfamare. Cáit (Catherine Clinch) sfugge a qualsiasi equilibrio in casa. Preferisce trascorrere il suo tempo da sola, nascondendosi tra l’erba, fin quasi a scomparire. La sua indole solitaria e in apparenza tranquilla nasconde un disagio più ampio: viene isolata in ogni ambiente della sua vita, priva di qualsiasi affetto, anche da parte delle sorelle.

Solo la madre sembra l’unica a preoccuparsi per Cáit, ma con l’arrivo imminente di un altro figlio Cáit diventa motivo di agitazione e preoccupazione per lei, così viene data in affidamento a dei lontani parenti, i Kinsella. Eibhlín e Seán Kinsella accolgono Cáit nella loro fattoria per un’intera estate. Eibhlín, in particolare, mostra subito una gentilezza a cui la bambina non è abituata, insieme a una sincerità che la disarma. Cáit ha nove anni, ma viene trattata dalla sua madre affidataria come una persona perfettamente capace di intendere tutto, “senza segreti”. Seán al contempo si mostra inizialmente freddo, legato a un passato doloroso, che gli abiti di seconda mano indossati da Cáit non rendono nemmeno così difficile da intuire.

La bambina arriva cioè a colmare un vuoto, un lutto irreparabile che, tuttavia, si arrende al bisogno di continuare ad amare un altro figlio. Un’altra figlia, in questo caso. La bambina tranquilla del titolo inizia così ad aprirsi, a scoprire l’affetto dietro i colpi di spazzola della madre prima di andare a dormire, o del rito quotidiano della pulizia della stalla, con il padre.

L’amore e la sua dimostrazione concreta cambiano la vita di Cáit, calmano la tua anima soltanto in apparenza tranquilla, ma in realtà bisognosa di tutto.

Cosa aspettarsi

The Quiet Girl è un film breve, 90 minuti, tratto dal racconto Foster di Claire Keegan. Non indaga la condizione di povertà da cui proviene la protagonista né si focalizza sulle condizioni sociali del suo affidamento. Non scava dentro il lutto che aleggia sulla storia né alimenta l’attrito familiare di Cáit fino a farlo esplodere. È un film cauto, la cui delicatezza sta tutta nello sguardo della macchina da presa di Colm Bairéad e nella fotografia vivida e incantata di Kate McCullough.

Dal 16 febbraio al cinema.

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Mare Fuori 3 – La deriva dell’appartenenza e il senso del perdono

Mare Fuori 3. Rai 2
Mare Fuori 3. Rai 2

Mare Fuori riparte con la terza stagione, disponibile su Rai play e su Rai Due dal 15 febbraio, per la regia di Ivan Silvestrini. Nuovi episodi ricchi di inestricabile morale umana, che si modellano attraverso le vite dei ragazzi dell’IPM di Napoli, ai quali il pubblico si è fortemente affezionato nel corso di questi anni.

Dove eravamo rimasti?

Riavvolgendo il nastro degli eventi, si ritorna alle ultime puntate della seconda stagione, con la morte di Nina (Greta Esposito), causata da un incidente stradale, per mezzo di uno dei ragazzi dell’IPM. L’accaduto scuote Carmine (Massimiliano Caiazzo), portandolo a farsi giustizia da solo. I sospettati dell’infausto evento sono Milos (Antonio D’Aquino), Totò (Antonio Orefice), Edoardo (Matteo Paolillo) e Tano (Nicolò Galasso).

Intanto Edoardo cerca di evadere dal carcere grazie all’aiuto di Mimmo (Alessandro Orrei), che in realtà, si scopre essere un traditore in quanto affiliato al clan rivale, i Di Salvo. Infatti il piano per far evadere il ragazzo non era che una trappola per ucciderlo.

Carmine scopre il piano di evasione e lo comunica a Filippo (Nicolas Maupas): l’unico modo per uscire dall’IPM, è sostituirsi a Edoardo. La loro mossa funziona e i due riescono a salire sul furgone. Ma sarà solo l’intervento di Mimmo a permettere di evitare l’arrivo dei sicari della famiglia Di Salvo. Alla fine Carmine e Filippo raggiungono Naditza (Valentina Romani), che si sta per sposare, contro la sua volontà, con il cugino. I tre riescono a scappare.

Nel finale di stagione fa l’ingresso all’IPM, Rosa Ricci (Maria Esposito), per vendicare la morte del fratello Ciro (Giacomo Giorgio).

Cosa succede con la terza stagione? Mare Fuori 3 potenzia il registro narrativo, ergendo la season su pilastri ancor più solidi che vengono proposti allo spettatore trasmettendo una totale condivisione con le connessioni intense tra i ragazzi ed il personale dell’IPM.

Il sangue e il senso di appartenenza

Nei nuovi episodi emerge il topic della famiglia, delle fratellanze e del senso di appartenenza dell’essere umano. La regia di Ivan Silvestrini profila un legame che si affranca dall’unione di sangue e che si sviluppa con la ragionevolezza della fiducia e dell’affidamento, con cui ci si può sentire al sicuro, nonostante il ferro delle sbarre.

L’IPM rappresenta un ambiente protetto, in cui i ragazzi si amano, si odiano, si arrabbiano e vivono. Tutto questo senza dover incorrere all’oppressione del gioco crudele del “sistema” fatto di leggi proprie. Quel luogo raccoglie, alla deriva, ciò che rimane della sofferenza di chi non si sente appartenere alla realtà malavitosa, ma ahimè non tutti si salvano e non tutti vogliono essere salvati.

Ancora una volta il background dei singoli ragazzi proietta in una realtà intima e molto complessa. La trama si districa nel passato buio dei protagonisti, che destituisce e annienta la serenità del futuro. Quando la fanciullezza viene privata di una qualsiasi forma d’amore, essa condanna alla reclusione interiore, senza poter sopraggiungere ad eventuali sconti di pena. Vivere senza essere amati equivale ad essere al di là delle sbarre, ma senza libertà.

La responsabilità delle azioni e il perdono

Le azioni sagaci, smaliziate e i dialoghi inattesi, che imbastiscono le dinamiche dei ragazzi, smuovono l’equilibrio impercettibile tra il bene e il male, inducendo in tentazione anche chi vorrebbe sventare il peggio.

Ancora molto forte il significato di educazione e rieducazione, che si incardina nei personaggi come il Comandante (Carmine Recano), la Direttrice (Carolina Crescentini) e gli educatori dell’Istituto (Vincenzo Ferrara, Anna Ammirati, Antonio De Matteo, Antonio Chiummariello). La gentilezza, la loro dedizione al lavoro, e il legame quasi genitoriale che si instaura coi ragazzi, fanno sì che questi ultimi possano sentirsi finalmente accolti e ascoltati.

La comprensione verso ciò che è giusto diventa precursore di responsabilità verso le proprie azioni: assumersi il carico della propria colpa apre le porte al perdono, l’unico elemento essenziale per riconoscersi nuovamente e poter tornare a vivere senza i demoni incorruttibili dell’infanzia. Il perdono si evolve in assoluzione con formula piena, nei confronti della collera, degli schemi del “sistema” e della sofferenza che logora l’anima.

L’amore abbatte le regole del “sistema”

In sceneggiatura emerge in modo lampante l’importanza assoluta della potenza dell’amore, quella forza impenetrabile in grado di abbattere i principi e le regole di una realtà parallela, illegale, contraria e disonesta. 

L’amore salva, protegge, dona seconde possibilità, e non uccide mai. È il sentimento al quale i ragazzi, ma anche i dipendenti dell’IPM, si aggrappano disperatamente per avere ancora qualcosa in cui credere. È quel “mare fuori” che spegne il fuoco dell’inferno, di una gioventù cresciuta in cattività, spargendo su di loro speranza e salvezza. “Ce sta o mar for“.

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Ant-Man, la guida completa per prepararsi a Quantumania

Ant-Man

A distanza di quasi 5 anni dal rilascio di Ant-Man and the Wasp, suo secondo capitolo da solista, e otto anni dopo il suo debutto nell’universo cinematografico Marvel, Scott Lang, o meglio, Ant-Man, è pronto a tornare sul grande schermo con Ant-Man and the Wasp: Quantumania in uscita il 15 febbraio. Film che inaugura la Fase 5 dell’MCU, segna il debutto cinematografico di Kang, “l’erede’’ di Thanos. Ecco tutte le informazioni necessarie per arrivare preparati alla visione del film.

Chi è Ant-Man? – Ant-Man (2015) e Captain America: Civil War (2016)

Il debutto sul grande schermo di Scott Lang – interpretato da Paul Rudd – coincide con l’anno 2015, nell’omonimo film appartenente alla Fase 2 dell’MCU. Scott Lang, un ex ingegnere informatico, finisce di scontare la sua pena in prigione e una volta libero decide di iniziare una nuova vita, mosso dall’amore per sua figlia, la piccola Cassie. Dopo le disastrose esperienze lavorative, Scott insieme ad alcuni amici decide di compiere un furto a casa di Hank Pym (Michael Douglas), scienziato ed ex membro dello SHIELD, nonché inventore delle Particelle Pym. Il furto si conclude però negativamente per il gruppo, il cui unico bottino corrisponde ad una strana tuta.

Presto però cambia tutto e Scott apprende ciò che realmente la tuta è in grado di fare, è in grado di rimpicciolire chi la indossa. Spaventato decide di restituirla ad Hank, ma anche la verità viene presto a galla. Hank, infatti, svela di aver osservato per molto tempo Scott e lo ingaggia per poter combattere Darren Cross (Corey Stoll), ex socio di Pym, che sta realizzando una tuta dal principio molto simile a quella di Hank, creata per scopi militari. Scott accetta diventando così Ant-Man, e dopo essere stato addestrato dallo stesso Pym e da sua figlia, Hope Van Dyne (Evangeline Lilly), riesce nell’impresa, ed è proprio in questa occasione che viene notato anche dai “piani alti’’, gli Avengers.

Negli eventi raccontati in Captain America: Civil War, infatti, Scott viene chiamato da Sam Wilson aka Falcon (Anthony Mackie), che lo porta a Berlino dove partecipa alla lotta interna tra gli Avengers, schierandosi dalla parte di Captain America (Civil War). Dopo la disfatta, Scott viene arrestato e condannato a due anni di arresti domiciliari, ma con lui condanna anche Hank e Hope costretti a un’eterna fuga dopo che la tecnologia di Ant-Man viene mostrata al mondo intero.

Il ritorno di un supereroe – Ant-Man and the Wasp (2018) 

Gli arresti domiciliari per Scott proseguono lentamente, tra giornate scandite da giochi fatti in casa per Cassie e il conto alla rovescia per la libertà, ma una cosa è sicura, per lui Ant-Man è solo un ricordo. Il piano di Scott va a rotoli quando un giorno stabilisce un peculiare contatto mentale con una donna, che si rivelerà presto essere Janet Van Dyne (Michelle Pfeiffer), madre di Hope e moglie di Hank, apparentemente deceduta in un incidente avvenuto anni prima. Nel 1987, Janet – che vestiva i panni di Wasp, collaboratrice dello SHIELD anche lei in grado di rimpicciolirsi, e parte del duo che formava con suo marito, il primo Ant-Man – decide di rimpicciolirsi tra le molecole di un missile nucleare per disattivarlo, rimanendo però bloccata nel Regno Quantico.

Scott decide segretamente di raccontare il fatto ad Hank che, insieme ad Hope, riesce ad ingannare la polizia e recuperare Scott – dapprima riluttante- per tentare di salvare Janet dal Regno Quantico, dopo aver scoperto che la donna è viva e ha utilizzato proprio Scott come tramite per il suo messaggio. Scott torna così a vestire i panni dell’uomo formica ma questa volta non è solo: Hope è la nuova Wasp. Il trio riesce a realizzare un tunnel per poter raggiungere il mondo quantico, ma viene intercettato da Bill Foster (Laurence Fishburne), ex socio di Pym, e da Ava Starr (Hannah John-Kamen), pupilla di Foster nonché vittima di un incidente quantistico che le ha causato una grave instabilità molecolare e che vuole utilizzare proprio l’energia quantica di Janet per poter guarire.

Dopo una serie di lotte, Hank riesce a recuperare Janet dal mondo quantico, e la donna decide volontariamente di donare ad Ava parte della sua energia. Scott riesce a tornare a casa illeso e i due anni di reclusione giungono a una conclusione. Una volta libero torna momentaneamente nel mondo quantico, lo stretto necessario per recuperare abbastanza energia per Ava, ma quel momento coincide con lo schiocco di Thanos e tra le persone polverizzate figurano proprio Hank, Hope e Janet, ossia coloro che dovevano riportare indietro Scott. Illeso, Scott rimane bloccato nel mondo quantico.

La fine di Thanos e l’ascesa di Kang – Avengers: Endgame (2019) e Ant-Man and the Wasp: Quantumania (2023)

Sono passati cinque anni dallo schiocco di Thanos che ha dimezzato la popolazione della Terra e Scott è ancora nel Regno Quantico. Dopo un evento estremamente fortunato, Scott torna nel suo mondo, ma dopo questa sua liberazione nulla è come prima. Dopo aver appreso quanto accaduto e dopo aver rivisto sua figlia Cassie – sopravvissuta al blip ma ormai cresciuta – Scott si reca dagli Avengers e lì dichiara di essere in possesso di un piano che coinvolge il mondo quantico, permettendo quindi al gruppo di viaggiare nel tempo per rimediare a quanto successo. Lì il tempo scorre diversamente e per Scott i cinque anni in realtà sono state appena 5 ore.

Unitosi al gruppo degli Avengers e dopo essere riusciti a dare vita al suo piano, Scott partecipa nella battaglia finale contro Thanos, ricongiungendosi poi con Hope e sua figlia Cassie, finalmente in pace. Ma è davvero finita? La risposta è -ovviamente – no. Sconfitta una minaccia, all’orizzonte ne albeggia una nuova e il suo nome è Kang. Kang il Conquistatore, interpretato da Jonathan Majors, l’antagonista assoluto della nuova saga dell’MCU – denominata saga del Multiverso – ha debuttato per la prima volta nell’episodio finale della prima stagione di Loki, presentandosi come guardiano del tempo e burattinaio dietro a questa enorme realtà.

Sarà proprio Ant-Man and the Wasp: Quantumania a segnare la nascita di una nuova era all’interno dei Marvel Studios, nonché a tracciare un netto confine tra quella che è stata la storia di Scott e quella che sarà. Il lungometraggio, infatti, ruota attorno alle vicende di Scott, Hope, Hank, Janet e Cassie (Kathryn Newton), ormai cresciuta, che dopo essersi involontariamente intrappolati nel Regno Quantico, si ritrovano faccia a faccia con Kang.

Che la Fase 5 abbia inizio.

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SANREMO 2023 – La festa appena cominciata è già finita?

Sanremo 2023. Rai 1
Sanremo 2023. Rai 1

Il Festival di Sanremo è finito ed è tempo di tirare le somme, quest’anno più che mai amare.

Finisce Sanremo e la realtà ti scaraventa in faccia tutto quello a cui non hai pensato per una settimana. È la meraviglia dello spettacolo nazional popolare, che è bello finché dura poco e che quest’anno ha assunto la forma di una stagnante fotografia, senza colpi di scena.

Se è vero che la rassicurante realtà televisiva ha sempre fatto parte della kermesse, dal 2019 qualcosa era cambiato profondamente nel circo di Rai1. Pareva che nulla potesse essere più come prima all’Ariston ma oggi è chiaro che la rivoluzione è reversibile se non si ha il coraggio di fare un passo più in là. Nascondersi dietro al Marco Mengoni di turno e non avere nemmeno una vera polemica a cui appellarsi è la cifra di un festival seduto, che rischia di annegare nelle sue stesse dinamiche, ormai rodate.

L’edizione 2023 – Le promesse e gli esiti

La rosa dei nomi di Amadeus, per la quarta volta direttore artistico e conduttore, non prometteva particolari guizzi fin dall’inizio. Qualche promessa quantomeno di pezzi forti e di ottime performance c’era con Giorgia, con Elodie, con Anna Oxa, ma il tutto si è ahimè tradotto in brani bassi in classifica – per quanto abbia un valore relativo – ed esecuzioni poco convincenti sotto vari punti di vista.

La quota giovani, di cui Amadeus ha fatto la sua linea di condotta principale, si è risolta in un nulla di fatto, o meglio, in una delle due strade possibili per i piccoli artisti semisconosciuti che calcano il palco dell’Ariston: non scommettere niente e rimanere sé stessi con il rischio di arrivare ultimi e non venire capiti – vedi Tananai nel 2022 – o fare di tutto per arrivare primi senza riuscirci – vedi Ariete quest’anno.

La parabola di Tananai ha dimostrato quanto sia la prima opzione, spesso, ad essere quella vincente: Sesso Occasionale, la vera outsider dell’edizione dell’anno scorso, gli ha permesso di tornare nel 2023 con un brano che ha molto poco di Tananai e tanto di Sanremo; e che infatti è arrivato nella top 5. Ariete è un ottimo esempio della seconda strada: piccola realtà indie con una cifra stilistica piuttosto precisa, arrangiamenti essenziali, ruvidi e un sacco di amori finiti male. Ma la sua Mare di guai, che la firma di Calcutta prometteva avrebbe mantenuto l’aderenza al mondo del cantautorato indie, è una deludente ballad che non prende nessuna direzione.

L’incognita era Rosa Chemical. Su cui si puntava per incoronare un nuovo Achille Lauro, dopo che quello vero ha perso qualsiasi carica sovversiva. Rosa Chemical viene dal macrocosmo della trap e le aspettative da parte della scena erano sorprendentemente alte. È interessante il fatto che la sua presenza all’Ariston non abbia affatto generato delusione, anzi. Gli ultimi quattro festival hanno reso chiara una cosa: andare a Sanremo non significa più fare “il venduto” e dopo Rolls Royce anche la trap se lo può permettere. Ma quello che ha fatto Rosa sul palco dell’Ariston è una provocazione vuota, che non aggiunge nulla a quanto già visto con Lauro – e non solo – edizioni fa. Di inni all’amore libero e di triangoli a letto la canzone italiana è piena e in parte pure Sanremo. Il duetto saffico di Elettra Lamborghini e Myss Keta nel 2020 ha fatto più di quanto non possa fare un limone con Fedez dalla dubbia natura consensuale, per dire.

E i pruriti fascistoidi di qualche deputato di Fratelli d’Italia non valgono.

Il bilancio

Se anche chi avrebbe dovuto trasgredire è rimasto nei ranghi, che cosa ci resta? Il rischio concreto che Sanremo torni ad essere retaggio di qualche pensionato annoiato e non uno spettacolo rituale collettivo, come era diventato negli ultimi tre o quattro anni. Parte integrante della macchina-spettacolo Sanremo sono le polemiche, le cose che fanno parlare del festival e che si protraggono per giorni, se non mesi, su canali e media diversi.

Il sostanziale fallimento dell’operazione di quest’anno sta proprio qui: il Blanco-gate ha fatto certamente chiacchierare, ma troppo poco e per troppo poco tempo. Il tutto si è risolto in un processo finito ancora prima di iniziare e oscurato da altro nel tempo di una puntata. Persino il Fantasanremo non è più divertente, risulta quasi fastidioso vedere gli artisti che ringraziano l’orchestra e battono cinque soltanto per qualche punto in più.

Il bilancio è amaro. O meglio, insipido. È difficile immaginare come andrà da qui in poi. Un quinto mandato di Amadeus metterebbe in tavola nuovi ostacoli, nonostante lo share abbia confermato il trionfo sul resto del palinsesto. Con un’edizione così scialba, c’è bisogno di nuovo: urge inclusività reale e non celata dietro monologhi vuoti e misoginia vestita di comicità da balera, ma anche un freno all’ansia di voler essere a tutti i costi al passo coi tempi, non essendone capace.

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Qui la pagella della prima serata, qui la pagella della seconda e qui quella dei duetti.

The Woman King, Gina Prince-Bythewood (2022) | Recensione

The Woman King

Combattimenti, spargimenti di sangue, guerre e azione non mancano nella selezione degli Oscar 2023, ma sembra proprio che sia una questione da uomini. Sì, perché un action movie davvero interessante non solo è rimasto fuori dalla categoria del Miglior film, ma è stato colpevolmente snobbato in tutte le altre. Si tratta di The Woman King di Gina Prince-Bythewood e qui vi diamo almeno quattro motivi per recuperarlo in streaming, se l’avete perso in sala.

Viola Davis

Lei, la divina Viola Davis, da pochissimo celebrata come 18ª EGOT nella storia di tutti i premi statunitensi, investe tutta se stessa per il ruolo della guerriera Nanisca, sia come interprete sia come produttrice. Lo sforzo fisico è notevole – chi la segue su Instagram ricorderà l’intero anno trascorso ad allenarsi per il ruolo, a plasmare il suo corpo in una diversa forma – ma è soprattutto il carico emotivo a colpire il pubblico. Nanisca è a capo delle Agojie, le amazzoni del regno di Dahomey.

È la guida di una forza militare spietata e invincibile, dove l’uomo – se non è il Re (John Boyega) o un compagno di allenamenti – non è ammesso o è nemico. Davis con la sua forza e il suo carisma diventa il polo magnetico del film, che rivela gradualmente il passato e la storia del suo personaggio. Nei suoi diversi fili intrecciati, The Woman King è perciò anche un percorso di avvicinamento a questa guerriera, all’inizio imperscrutabile e severa, poi sempre più umana. A lei è dedicato il title role, ossia la figura femminile, nominata dal Re, che nel Dahomey ne condivide il potere.

La regia di Gina Prince-Bythewood

Una grande attrice senza una buona direzione non può davvero brillare. E infatti per la grande performance di Viola Davis si deve fare anche un passo indietro a Gina Prince-Bythewood. Il nome forse non vi dice niente, ma è dal suo lungometraggio di esordio, Love & Basketball (2000), prodotto da Spike Lee, che è considerata una delle più importanti registe afroamericane contemporanee, da sempre attenta al tema della femminilità nera nella società. Nel 2020 si cimenta con successo in un action movie Netflix che coinvolge Charlize Theron e il nostro Luca Marinelli, The Old Guard, e decide così anche nel lavoro successivo di unire i suoi temi portanti a un genere in cui è raro vedere una presenza femminile massiccia.

Riesce comunque a mantenere l’equilibrio di una storia, anzi più storie, poiché diverse guerriere hanno una voce, personali e intime accanto alla brutalità della battaglia: dai totali e i campi lunghi invasi dalla violenza e dal suo disordine coreografato ai dettagli potentissimi, di unghie affilate e macchiate di sangue. E da corpi lanciati negli scontri cruenti a momenti di forte emotività, coraggio, paura e gioia. Tutto si tiene.

Lo straordinario cast tecnico e artistico

Non solo la regia, ma anche la scrittura (Dana Stevens, Maria Bello), il montaggio (Terilyn A. Shropshire), la fotografia (Polly Morgan) e la produzione (Viola Davis, Maria Bello, Cathy Schulman) sono opera di una prospettiva femminile sulla Storia e sulle storie raccontate, tutte di donne, sorelle di una stessa e nuova famiglia, in cui si riconoscono ognuna simile all’altra, anche quando le premesse sembrano impedirlo.

Tra le aspiranti Agojie infatti ci sono anche le prigioniere di ogni battaglia. Chi supera l’addestramento, o non muore, ne diventa parte assoluta, dimenticando chi è stata in passato e la vita che ha lasciato dietro sé. Diventando parte di qualcos’altro, qualcosa di sacro di fronte a cui anche gli abitanti del loro villaggio devono abbassare lo sguardo, senza osare incrociare il loro, come delle divinità. Due ruoli fondamentali, a questo proposito, sono interpretati da Thuso Mbedu, già vista in The Underground Railroad, e Lashana Lynch, già vista in No Time to Die.

Thuso Mbedu in The Woman KIng

La storia e il messaggio empowerment

La Storia narrata in The Woman King è in parte ispirata a fatti realmente accaduti, il che rende soltanto più potente il messaggio di empowerment femminile di cui si fa portatore il film. L’antico regno del Dahomey si estendeva nell’attuale Benin ed ebbe in effetti un esercito femminile, fra il 17° e il 19° secolo: le Agojie, appunto. Storicamente la creazione di questo esercito fu dovuta alla mancanza di uomini nei villaggi, decimati dalle guerre con i vicini regni dell’Africa occidentale, come l’impero Oyo.

I nemici che non venivano uccisi sul campo di battaglia, da entrambe le parti, venivano venduti agli schiavisti europei. The Woman King quindi affronta un tema spinoso e doloroso della contemporaneità statunitense, ossia l‘interesse economico e politico che portò alcune popolazioni africane a diventare complici della schiavitù europea.

Al tempo stesso, tuttavia, erge le Agojie a paladine protettrici delle popolazioni narrate, costruendo su di loro la narrativa epica delle eroine che sconfissero i portoghesi, con qualche licenza sulla realtà.

Così facendo ricalca anche un importante messaggio che spesso a Hollywood viene silenziato dai vari film sulla schiavitù: non fu mai una condizione che le popolazioni deportate accettarono passivamente. È piuttosto una storia che si preferisce raccontare da una prospettiva soltanto.

The Woman King è adesso disponibile su tutte le piattaforme di noleggio e acquisto online.

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Nan Goldin | Chi è la fotografa protagonista di All the Beauty and the Bloodshed

Nan Goldin
Photo Courtesy of Nan Goldin. Credits: I Wonder Pictures

Con All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras la figura di Nan Goldin arriva anche a chi non ha mai visto un suo scatto o la conosce superficialmente solo grazie a qualche manuale di fotografia. Il documentario a lei dedicato, ma soprattutto al proseguimento del suo lavoro come artista e testimone del presente, si è aggiudicato il Leone d’Oro alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia ed è candidato agli Oscar e ai BAFTA come Miglior documentario.

Fotografie, filmati inediti e interviste scorrono e rivivono all’interno del film che celebra uno degli sguardi più importanti del secolo scorso e di questo, in cui la lotta sociale per i diritti umani non smette di essere combattuta attraverso il gesto artistico.

Ma chi è Nan Goldin? Chi è la fotografa protagonista di All the Beauty and the Bloodshed?

Il bisogno di fotografare

Nan Goldin nasce a Washington il 12 settembre 1953. Il suo vero nome è Nancy Goldin ed è cresciuta in un sobborgo di Boston fino all’adolescenza. Il bisogno di fotografare lo attribuisce, anche nel documentario, al suicidio della sorella Barbara Holly Goldin avvenuto nel 1965. Una scomparsa dolorosa che solo nel corso degli anni ha saputo accettare, come una ferita quella perdita ha portato al sangue e alla sofferenza, indirizzandola però verso un linguaggio artistico che le ha permesso di lasciare che il dolore si riassorbisse: la fotografia. Dai diciotto anni Goldin inizia a fotografare dando una versione personale della sua storia, svincolata dai pensieri e dai preconcetti altrui (come era successo a sua sorella).

Gli scatti di Goldin nascono dal privato della donna, da relazioni intraprese nel corso di esperienze che l’hanno formata prima come essere umano e solo in seguito come artista. Conosce chi fotografa, non si tratta di sconosciuti incontrati per caso, ma sono amici, amanti, colleghi di lavoro, spiriti affini che non fanno altro che confermarle quanto quella testimonianza prettamente “consenziente” sia necessaria per mostrare realtà solitamente oscurate e nascoste.

Photo Courtesy of Nan Goldin. Credits: I Wonder Pictures

Quando ci si trova di fronte ad uno scatto di Goldin si viene assaliti da una calda ondata di intimità, che si racconta attraverso l’istante cristallizzato. Non è l’esterno ad attirarne la curiosità: lei ricerca gli interni che trasudano vita vissuta, accettazione, ricerca della propria identità. Come scrive Nicholas Mirzoeff, teorico della cultura visiva e professore presso il Dipartimento di Media, Cultura e Comunicazione della New York University, riprendendo anche gli studi di Mitchell, Nan Goldin può essere forse considerata la prima post-fotografa. La post-fotografia non si impone più di rappresentare “il mondo”, ma si sposta verso una pratica libera dalla responsabilità di rappresentare la realtà.

Il suo lavoro cambia la natura della fotografia stessa da un atto di un voyeur a quello di un testimone; un testimone partecipa fisicamente alla scena e poi la riporta, mentre il voyeur cerca di vedere senza essere visto.

Introduzione alla cultura visuale, Nicholas Mirzoeff

I soggetti di Nan Goldin

La prima a mettersi in gioco è lei. Immagini molto private della sua vita si alternano a quelle altrettanto private della seconda famiglia che ha trovato fuori da casa dei genitori. Giovani accomunati da una sfiducia dilagante nel futuro, aspiranti artisti, travestiti, bisessuali, fratelli e sorelle ritrovati. Ognuno libero in una sperimentazione continua che li porta alla libertà sessuale senza dover essere prigionieri di ruoli che non fanno parte di loro, ma anche a quella di droghe di tutti i tipi. Più di un gruppo di amici, i soggetti di Goldin sono parte di una comunità, la quale è protagonista di una documentazione che ne testimonia la presenza, senza che quella voglia di essere “nel momento” si perda nella memoria. La vita di queste persone, già fuori dal comune per una società che non ne contempla la presenza, attraverso la sua fissazione diventa un simbolo.

La narrazione per immagini di Nan Goldin rivela una testimonianza di cui quella comunità ha bisogno, per guardarsi e per essere guardata. Atti intimi come il sesso vengono ripresi, immortalati, rivelati. Osservare per lei è anche essere osservati, come per uno dei suoi lavori più emblematici, Ballata della dipendenza sessuale, in cui per prima mostra le conseguenze della sua dipendenza sessuale con Autoritratto, un mese dopo essere stata picchiata (1984).

La violenza fa parte dell’esperienza del vivere, come l’amore. La bellezza emerge dalle stanze spoglie di appartamenti berlinesi e dai lividi che stanno violacei come macchie di pittura sulla pelle, esporli in una serie di scatti è voglia di non dimenticare, differente dalla voglia di ricordare. Il significato che si diffonde attraverso quel tipo di immagini diventa un senso più ampio che abbraccia la società e ragiona sull’umano e sulla femminilità in particolare. Ogni singola polaroid che Goldin raccoglie ha un senso sociale, poiché il personale si eleva ad un livello maggiore, creando una comunicazione bilaterale tra artista e spettatore.

Photo Courtesy of Nan Goldin. Credits: I Wonder Pictures

Testimoniare la vita, testimoniare la scomparsa

Nel 1989 Nan Goldin partecipa ad un’esposizione dedicata alle vittime dell’AIDS. Testimonianze: contro la nostra scomparsa è, in linea al suo modo di concepire la fotografia, una mostra personale in cui gli artisti coinvolti conoscono i volti e le storie esposti dolorosamente da vicino.

In molti casi sono amici di Goldin, come l’amica Cookie, della quale documentò l’oscura discesa nella malattia. Ancora una volta le immagini della sua comunità suscitano polemica da parte di chi vorrebbe cancellarne le tracce. La mostra in questione, ostacolata da molte autorità pubbliche, porta il lavoro di Goldin ad un livello successivo: la perdita non viene più allontanata “fotografando”, perché molte persone che amava sono scomparse a causa dell’AIDS, così quel racconto di emarginati parte della controcultura si trasforma, arrivando al conclamato impegno degli ultimi anni dove il legame tra arte e politica è un bisogno non più trascurabile.

In All the Beauty and the Bloodshed la regista segue le azioni, artistiche e legali, contro la famiglia Sackler che dietro alla rispettabile facciata di benefattrice dei più importanti musei del mondo è responsabile della produzione di farmaci che creano dipendenza di cui la stessa Nan Goldin è stata vittima. La storia dominante americana è ancora il bersaglio di azioni che stavolta travalicano la fotografia e si concretizzano in performance. Assieme al gruppo P.A.I.N., fondato da Goldin per togliere lo stigma sulla dipendenza e affrontare la famiglia di “benefattori”, l’artista continua a parlarci di scomparsa puntando i riflettori sulle vittime del sistema, senza limitarsi ad un’esposizione come nel 1989.

La bellezza di immagini che lacerano come proiettili d’argento

Tappezzerie strappate e poster incollati al muro sono alcuni degli scenari che nelle fotografie di Goldin accolgono azioni quotidiane. Il susseguirsi di occhi, labbra, corpi, feste, momenti costituiscono una delle produzioni fotografiche più significative per comprendere l’era postmoderna che arriva all’osservatore come archivio suddiviso in sequenze, inquadrature, personaggi mancati per un film underground in cui gli eroi sono i primi a perdere.

E vorrete averne di più, conoscere le parole pronunciate davanti allo specchio o dopo un litigio. Le fotografie di Nan Goldin tridimensionalmente si aprono in una narrazione quasi cinematografica della società dietro alla società, sono immagini in cui vi sembrerà di percepire un vociare reale o la musica, il pianto di qualcuno. Sono immagini che fingono un distacco pretendendo la massima attenzione per quelle vite, prima tra tutte quelle di Nan e di sua sorella.

Photo Courtesy of Nan Goldin. Credits: I Wonder Pictures

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All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras – Un grido d’amore per la vita

All the Beauty and the Bloodshed
Nan and Brian in bed NYC 1983. Photo courtesy of Nan Goldin. Credits: I Wonder Pictures

Nel suo libro-ode alla città simbolo dell’Occidente (Here Is New York, 1949, ndr), E. B. White scrive che dei tre tipi di New York che esistono – quella di chi ci è nato e la prende per scontata, quella delle “locuste” che la divorano di giorno per poi tornare a casa la sera – è “la New York di chi è nato altrove ed è venuto a New York in cerca di qualcosa” a spiegare “il suo portamento poetico, la sua dedizione alle arti e le sue incomparabili conquiste”.

È a questa terza categoria di persone che appartiene Nan Goldin, fotografa e attivista politica contro le lobby farmaceutiche. Ma sono gli aggettivi più che i nomi di professione a qualificare al meglio il suo operato: provocatrice, antisistemica, arrabbiata, diversa.

Laura Poitras, fuoriclasse del documentario politico, sorvegliata speciale del governo statunitense, già vincitrice di Oscar con la sua opera su Edward Snowden Citizenfour, vince con All the Beauty and the BloodshedTutta la bellezza e il dolore, nel titolo italiano – il Leone d’oro della 79ª edizione della Mostra del cinema di Venezia. Riassume in quest’opera-ritratto l’incredibile vita di Goldin in quadri godardiani che permettono allo spettatore di entrare senza filtri nelle stanze, negli anni, nella vita privata e pubblica di una donna che ha dedicato la sua esistenza all’arte e alla lotta.

In primis quella contro la potentissima famiglia Sackler, proprietaria di Purdue Pharma, l’azienda farmaceutica ritenuta responsabile della diffusione dell’ossicodone, potente oppiaceo che ha causato la dipendenza, tra cui quella della stessa Goldin, e la morte di centinaia di migliaia di persone negli Stati Uniti.

La lotta contro la famiglia Sackler come filo conduttore

I Sackler sponsorizzano alcuni dei più importanti musei al mondo. Ed è in questi musei, in cui spesso lei stessa espone, che Nan Goldin svolge le sue azioni di protesta insieme a un folto gruppo di sostenitori – storica la vittoria dell’ala del Louvre, che dal 2019 non porta più il loro nome.

Nell’intimità della sua casa, in una mostra di diapositive poi diventata la sua più famosa raccolta, The Ballad of Sexual Dependency, Nan Goldin racconta alla regista e al pubblico la sua vita nella dura New York degli anni Settanta e Ottanta e dei momenti più significativi: quella foto poi diventata simbolo del suo lavoro, “Un mese dopo essere stata picchiata”, era la conseguenza di una relazione tossica con un uomo violento.

Nan Goldin aveva scelto di pubblicarla senza intenti politici, dice lei. Ma non è tutta qui la sofferenza di una donna che ha avuto una vita difficilissima: autoesiliatasi da una casa d’abusi, con una sorella rinchiusa dai genitori in un manicomio, poi suicidatasi per la troppa sofferenza; povertà, prostituzione, pestaggi, tossicodipendenza, solitudine.

Una delle poche sopravvissute di una generazione scintillante ma scellerata, i cui eccessi documenta con cura nelle sue fotografie, non c’è ormai più nulla che possa scalfire la voglia di Nan Goldin di operare per un mondo migliore. È questa forse la sua più profonda interpretazione dell’arte, la sua più grande lezione: amare la vita e ritrarla (anche quando fa male).

All the Beauty and the Bloodshed è al cinema come evento speciale i IWonderPictures dal 12 al 14 febbraio.

Per un approfondimento sulla struttura e il contesto del documentario clicca QUI. Continua a seguire FRAMED anche su InstagramFacebook e Telegram!

All the Beauty and the Bloodshed – Una guida al documentario Leone d’oro

All the Beauty and the Bloodshed

Il personale è politico, recitava uno degli slogan più celebri e identificativi delle lotte degli anni Settanta, ed è proprio così nell’opera di Nan Goldin, raccontata in All the Beauty and the Bloodshed.

Il documentario di Laura Poitras, Leone d’oro a Venezia 79, inizia dunque dal microcosmo della vita della grande fotografa e si allarga sempre più, fino a immortalare una generazione e poi, ancora oltre, un’emergenza sanitaria in corso, quella dell’epidemia da oppiacei negli stati Uniti. La stessa di cui parla anche la serie Hulu Dopesick, di cui abbiamo parlato qui.

Cogliere il legame tra il micro e il macro in questa storia è essenziale, poiché è dal piccolo – dalla morte della sorella Barbara – che ha inizio tutta la storia di Nan Goldin, tutta la sua sofferenza, tutta la sua ricerca attraverso l’arte, tutta la sua lotta e tutta la sua fame di vita. È importante capire come, pur essendoci una chiara direzione della regia di Poitras, ad avere il controllo della narrazione è sempre lei, attraverso le sue opere, attraverso la sua voce e persino attraverso la musica. Non solo il film riprende i brani scelti dalla fotografa per accompagnare alcune esposizioni, ma è lei stessa accreditata come Music Supervisor nei titoli di coda.

Sezioni e struttura

Il documentario si suddivide perciò in sezioni che prendono il nome dai suoi lavori più conosciuti: The Ballad of Sexual Dependency, The Other Side, Sisters, Saints and Sybils, Memory Lost. Nella loro struttura profonda ognuna di esse si ripete nel film sempre secondo uno schema: prima le fotografie, immobili là dove invece dovrebbero scorrere a 24 al secondo (lo schermo di un cinema); poi il racconto del passato, infine il racconto del presente e della lotta contro la famiglia Sackler e l’ossicodone.

Un passo indietro. L’ossicodone, o OxyContin, è un antidolorifico che nella sua composizione rientra nelle droghe oppiacee ma che negli Stati Uniti è stato regolarmente prescritto per anni. Ha causato quasi mezzo milione di morti dagli anni Novanta a oggi, provocando in gran parte dei casi il passaggio all’eroina e decessi per overdose. Solo nel 2017 il governo americano l’ha riconosciuto come la causa di un’emergenza sanitaria. La lotta di Nan Goldin, dipendente dall’ossicodone dopo un incidente e, una volta disintossicata, attivista contro la vendita del farmaco, dovrebbe essere il fulcro del documentario, ma è chiaro che non esiste un solo centro.

All the Beauty and the Blooshed è una rete che connette tutti i punti e in cui tutti i nodi hanno egual peso, quelli del passato e quelli del presente.

Per comprenderli è necessario conoscere almeno in parte gli anni burrascosi e la New York, anzi, la Bowery Street in cui vive Goldin con il suo ricco e vario gruppo di amici ed è necessario prestare attenzione a tutto ciò che la protagonista stessa svela scena dopo scena. È faticoso, fisicamente provante, ma ne vale la pena.

Per riordinare le idee vi proponiamo di leggere perciò il nostro approfondimento sulla carriera di Nan Goldin e una recensione di All the Beauty and the Bloodshed.

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Sanremo 2023: pagella della Serata Cover

Sanremo 2023, Rai.
Sanremo 2023, Rai.

Una serata cover così priva di guizzi non si vedeva da un po’, al festivàl. Nel deserto dei Tartari – e dei Tananai -, Amadeus e Gianni Morandi si aggirano persi nella tempesta di sabbia con i fiori in mano. In mezzo alle macerie di brani presi a sprangate, accoppiate discutibili e un sacco di occasioni perse, le pagelle della penultima puntata del Festival di Sanremo. 

Ariete e Sangiovanni – Centro di gravità permanente 

Battiato in corsivo è uno di quegli eventi a cui si assiste una volta nella vita e poi basta, tipo indovinare il verso delle prese USB al primo colpo. Ariete e Sangiovanni – vestito come un commercialista – sembrano divertirsi un mondo sul palco. Beati loro. 

Voto: 4

Will e Michele Zarrillo – Cinque giorni

A differenza di altri, Will pare che almeno due o tre prove le abbia fatte prima di salire sul palco. Cerca di non strafare e lascia i vocalizzi inutili a Michele Zarrillo, che è Michele Zarrillo, che gli vogliamo dire? Il risultato, in realtà, non è affatto male: una cover pulita e intonata, il che non è scontato. 

Voto: 6 ½

Elodie e Big Mama – American Woman

Per togliere ai Måneskin il primato del rock brutto e cattivo all’Ariston, Elodie ci prova con una cover mediocre, che non toglie e non aggiunge niente all’originale di Lenny Kravitz. La personalità e l’energia in parte sopperiscono alle mancanze, ma tutto rimane molto piatto. Big Mama si fa intimidire dalla sacralità del palco e non riesce ad emergere del tutto. 

Voto: 6

Olly e Lorella Cuccarini – La notte vola

Qui siamo al dilemma. Siamo pronti ad ammettere che il giovinastro sbarbato Olly è uno dei pochissimi ad averci preso? Oltre alle prove, pare abbia anche speso qualche minuto in più a riarrangiare il pezzo, che dovrebbe poi essere il senso di interpretare una cover. La Cuccarini poteva pure starsene a casa, ma ha fatto presenza tirando fuori dal cappello a cilindro del trash anni ‘80 il suo balletto con le mani.

Voto: 6 ½

Ultimo e Eros Ramazzotti – Medley di Eros Ramazzotti

C’è voluto Eros Ramazzotti che sbaglia la sua stessa canzone a strappare un mini sorriso a Ultimo, che – e lo dico con un po’ di sofferenza – ha salvato la situazione. La scelta dei medley è diabolica di per sé, specialmente se poi si traducono in quattro canzoni una dopo l’altra senza il minimo tentativo di unirle o quantomeno farle fluire l’una nell’altra. 

Voto: 5 ½ e Premio karaoke alla pizzeria quella sotto casa che si paga poco

Lazza, Emma Marrone e Laura Marzadori – La fine

Grande classicone di Nesli. Uno di quei melodrammi rap belli, pieno di pathos che ti fanno piangere guardando fuori dalla finestra mentre piove. Lazza ed Emma se la portano a casa senza infamia e senza lode. Quantomeno compaiono timide armonizzazioni. Nell’elettrocardiogramma piatto della serata, passa inosservata.

Voto: 7

Tananai, Don Joe e Biagio Antonacci – Vorrei cantare come Biagio

Tananai piccola canaglia torna in vita dopo il mezzo scempio della sua canzone in gara. Una cover divertente, che sveglia dal coma farmacologico indotto da Amadeus, in cui Tananai può finalmente fare Tananai. Tutto molto bello, finché Biagio Antonacci non attacca Sognami e finisce la magia.

Voto: 7, nonostante tutto

Shari e Salmo – Hai scelto e Un diavolo in me

All’ennesima conferma, ci si comincia a chiedere se ci sia una clausola in fondo al contratto di Sanremo che vieti ai rapper di rappare. Salmo – pure lui vestito da commercialista – fa una pausa dalla marchetta alla Costa per salire sul palco ad imitare Zucchero. Shari fa un sacco di “yeah” e niente più.

Voto: 4

Gianluca Grignani e Arisa – Destinazione paradiso

Nella foresta di cover caciarone da karaoke dopo sette Negroni, Grignani e Arisa sono il re e la reginetta di questa prom night in balera. In un angolo, accanto al direttore Melozzi, Beppe Vessicchio passa le cinque fasi del lutto. 

Voto: 5 ½

Leo Gassman e Edoardo Bennato – Medley di Edoardo Bennato

Sull’ennesimo medley da serata-rimorchio in spiaggia con la chitarra e quattro brutte cover di Battisti, Bennato se la canta e se la suona da solo. Leo Gassman sembra il disturbatore Paolini che spunta ogni tanto, quando il cameraman si ricorda di inquadrarlo.

Voto: 5

Articolo 31 e Fedez – Medley Articolo 31

L’interessantissimo drama tra Fedez e J-Ax è finito col botto e il loro amore eterno è stato definitivamente suggellato con questo revival di quanto era bello farsi le canne al liceo negli anni ‘90. Ne avevamo bisogno? No. È stato comunque godibile? In realtà sì

Voto: 6 ½

Giorgia ed Elisa – Luce (Tramonti a Nord-Est) e Di sole e d’azzurro

Due fuoriclasse insieme possono solo vincere. Arrangiamento da grande tradizione sanremese con i crescendo che non finiscono più per chiamare l’applauso: un assist dove Giorgia ed Elisa si sono potute sfogare per bene. Non poteva andare diversamente.

Voto: 9 

Colapesce e Dimartino e Carla Bruni – Azzurro

Colapesce e Dimartino hanno usato tutto il repertorio italiano che conoscevano per il brano in gara e non rimaneva che il pezzo meno adatto di sempre ad essere coverato, specialmente in duetto. Come se non bastasse, Carla Bruni. 

Voto: 5

I cugini di campagna e Paolo Vallesi – La forza della vita e Anima mia

Come si fa a prendersela coi Cugini di Campagna? 

Voto: 6/7

Marco Mengoni e il Kingdom Choir – Let it be

Come se Achille Lauro l’anno scorso non avesse già dimostrato che invitare un coro gospel è la scelta più pigra che si possa fare per stupire lo spettatore medio, Marco Mengoni ci è cascato di nuovo. Nell’apoteosi dell’ovvietà e della pigrizia, Let it be è la ciliegina su una torta di esagerati melismi in cui Mengoni spara tutte le sue cartucce.

Voto: 5 ½

gIANMARIA e Manuel Agnelli – Quello che non c’è

Gianmaria con la g minuscola e l’aria sempre più spaurita tenta di misurarsi con un pezzo che francamente solo Manuel Agnelli può cantare. Quello che non c’è ha bisogno di quella grana vocale, di quell’intenzione e di quel modo lì di cantarla. Gianmaria ci prova con tutte le forze ad interpretarlo, appellandosi agli Dei del corsivo, ma fallisce. 

Voto: 6 ½

Madame e Izi – Via del campo

Il dubbio che questa cover mi sia piaciuta soltanto perché è bello il pezzo in sé, c’è, inutile negarlo. Ma ammetto anche che sentire De André con l’autotune mi reca una perfida soddisfazione che cercavo da tutta la serata

Voto: 8

Coma Cose e Baustelle – Sarà perché ti amo

Ieri ho scritto che è difficile non voler bene ai Coma Cose. Dopo stasera, forse tutto questo comunitarismo evangelico mi ha abbandonato. Una cover fatta male e cantata peggio, una grande occasione sprecata

Voto: 3

Rosa Chemical e Rose Villain – America

Sì, era un plug anale.

Voto: 6

Modà e Le Vibrazioni – Vieni da me

È affascinante osservare il fenomeno per cui unendo i Modà e le Vibrazioni insieme quello che si ottiene sono i Modà oppure le Vibrazioni, senza che nessuno si accorga quale dei due sia rimasto e quale, invece, sia stato inglobato nell’altro.

Voto: 5 e Premio Gemelli Omozigoti

Levante e Renzo Rubino – Vivere

Nel tentativo di redimersi dal mediocre brano che ha portato in gara, Levante flexa le sue indubbie doti interpretative e vocali. Un arrangiamento che si riempie e si svuota nei punti giusti, senza orpelli non necessari. Bravi!

Voto: 7 ½

Anna Oxa e Iljard Shaba – Un’emozione da poco

Portare alla serata cover di Sanremo un pezzo proprio, che piace a tutti, che ha fatto la storia del festival e che è ormai cultura pop è l’apoteosi del “ti piace vincere facile”. Ma quando Anna Oxa apre bocca è difficile trovare qualcosa di negativo da dire. Unica nota: occasione persa per invitare Luca Marinelli nei panni dello Zingaro di Jeeg Robot.

Voto: 6

Sethu con bnkr444 – Charlie fa surf

Una destrutturazione del brano dei Baustelle in chiave scanzonata e divertente, senza troppe pretese di filosofeggiarci intorno. I bnrk44 sono i Backstreet Boys emo di cui la GenZ aveva bisogno. 

Voto: 7/8

Lda con Alex Britti – Oggi sono io

Di nuovo: sei figlio di Gigi D’Alessio e non sfrutti Sanremo per sfogare il tamarro neomelodico che scorre nel tuo sangue? Lda ci prova con un Alex Britti un po’ allucinato che, proprio come Edoardo Bennato, se la canta e la suona da solo. 

Voto: 5

Mara Sattei e Noemi – L’amour toujours

L’entusiasmo di sentire Gigi D’Agostino a Sanremo in tutta la sua gloria anni ‘90 svanisce alla prima nota di Noemi, che con questo pezzo e con questo genere non c’entra proprio niente. Mara Sattei se la sarebbe cavata meglio da sola, ma comunque senza sfruttare a pieno la sua ottima vocalità. 

Voto: 5-

Paola e Chiara e Merk&Kremont – Medley Paola e Chiara

Per chiudere in bellezza, finalmente l’arrangiamento tamarro unz unz che aspettavamo dalle otto e mezza. Meglio tardi che mai: Paola e Chiara fanno un potpourri di trashate anni ‘90 di cui avevamo tremendamente bisogno.

Voto: 7 

Colla Zio e Ditonellapiaga – Salirò

L’incubo ha la forma dei Colla Zio che saltellano imperterriti intorno a Ditonellapiaga alle due di notte su una cover di Salirò che poteva anche rimanere nel cassetto delle idee.

Voto: 5

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