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BRIDGERTON, Netflix: 7 motivi per cui ha conquistato tutti

Bridgerton - Credits: Netflix

Bridgerton, il perfetto binge-watching

Dopo un accordo da 150 milioni, il debutto di Shondaland su Netflix si preannunciava strabiliante, e così è stato con Bridgerton, serie rilasciata il 25 dicembre 2021. Anche se pochi avrebbero potuto immaginare l’immediato fenomeno creatosi intorno a questa serie. Io stessa sono caduta vittima del binge-watching, divorandola in poco più di un giorno. Ho provato quindi a stilare un elenco delle peculiarità che hanno catturato, per varie ragioni, la mia attenzione.

1 – STORIE ROMANTICHE SEMPREVERDI

Showrunner della serie è Chris Van Dusen, pupillo di Shonda Rhimes già dai tempi di Grey’s Anatomy. Il soggetto originale, tuttavia, è tratto dalla serie di romanzi rosa di Julia Quinn, inaugurata con The Duke & I, nel 2000. Questo implica che non manca di certo il materiale per altre (numerose) stagioni, ma soprattutto sottintende un concetto-chiave per comprendere il successo di Bridgerton: l’escapismo. Parte essenziale dei romanzi rosa è infatti l’immaginazione di una realtà che soddisfi maggiormente i nostri bisogni emotivi e affettivi.

Una sorta di compensazione, anche banale, che in alcuni casi diventa un cosiddetto (purtroppo) guilty pleasure, un piacere da cui siamo noi stessi un po’ imbarazzati ma a cui non vogliamo rinunciare. Bridgerton funziona più o meno così. Ci saranno decine di momenti in cui vi chiederete: ma cosa sto guardando? Senza mai però riuscire a staccare gli occhi dallo schermo. Qui l’evasione dalla realtà riesce benissimo, catapultando lo spettatore in una surreale Londra della Reggenza (1813), tra balli, corteggiamenti e pene d’amore.

2 – AGGANCI A PERSONAGGI DELLA NOSTRA MEMORIA

Potremmo quasi mettere in parallelo il cognome dei Bridgerton a quello dei Bennet, poiché sì, appena si nomina la stagione dei balli il mio primo pensiero va a Orgoglio e Pregiudizio. E non solo il mio, in realtà. Chiunque abbia visto anche solo il trailer della serie ha immediatamente colto l’associazione con le atmosfere del romanzo di Jane Austen, pubblicato proprio nel 1813. Sfortunatamente qui però non c’è nemmeno l’ombra di Elizabeth Bennet, il cui spirito, forse, dovrebbe risiedere nella quasi omonima Eloise, sorella minore della protagonista Daphne. Ma parlerò in seguito dei personaggi femminili. Il vero aggancio del pubblico, infatti, avviene attraverso la particolare familiarità con il Duca di Hastings, interpretato da Regé-Jean Page.

Regé-Jean Page nei panni di Simon, Duca di Hastings
Regé-Jean Page nei panni di Simon, Duca di Hastings

Misterioso, solitario, orgoglioso, superbo e sprezzante nei confronti della compagnia femminile. C’è bisogno di dirlo? È Mr. Darcy. Quel subdolo e meraviglioso archetipo di cui tutti, almeno una volta nella vita, ci innamoriamo. A guardarlo bene, però, non è solo Mr. Darcy, almeno non per noi ragazze/i cresciute/i negli anni 2000. Se diamo fondo, infatti, a un po’ di psicologia freudiana-edipica spicciola e un po’ di cultura pop, ecco che Mr. Darcy diventa Chuck Bass. E non è un caso, in quanto l’altro grande riferimento di Bridgerton, oltre a Jane Austen, è proprio la nostra sola e unica fonte sulle vite scandalose dell’élite di Manhattan. Gossip Girl. Qui nelle sembianze di Lady Whisteldown (e con la voce di Julie Andrews). Serve davvero altro per catturare l’attenzione di un’intera generazione che ha vissuto nell’era di GG?

3 – OLTRE L’ORGOGLIO E IL PREGIUDIZIO: IL SESSO

Non giriamoci intorno, in Bridgerton c’è tanto sesso. Tanto che lo stesso showrunner ha affermato che se questa prima stagione avesse un sottotitolo sarebbe L’educazione sessuale di Daphne Bridgerton. Nel nostro immaginario spesso escludiamo la fisicità dai racconti in costume. Vediamo fanciulle vergini e caste aspettare con trepidazione il matrimonio. E Bridgerton ci suggerisce: ma cosa aspettavano se non la libertà di togliersi di dosso il peso della verginità e iniziare a vivere? Solo le donne sposate, infatti, potevano avere una vita sociale, ma se esistono innumerevoli opere sull’innamoramento e il corteggiamento, raramente vediamo cosa accade dopo.

In Bridgerton al contrario, gran parte degli sviluppi centrali della trama ruota attorno ai rapporti tra Daphne e il Duca. Anzi, proprio a questo proposito solleva un grande e inatteso problema sui limiti del consenso. C’è un particolare passaggio del romanzo, infatti, che gli autori della serie hanno deciso di “ammorbidire”, mantenendolo però centrale alla trama. Non voglio fare spoiler, ma se avete visto la serie sapete benissimo che quella scena non rispecchia decisamente la sensibilità contemporanea riguardo il consenso, che sia maschile o femminile. (E sicuramente si poteva gestire la scena incriminata in modo molto diverso).

4 – L’OSTENTATA MODERNIZZAZIONE

Durante il primo ballo, che apre la serie e presenta i personaggi, la canzone che sentiamo in sottofondo è una rivisitazione di thank u, next di Ariana Grande. La quintessenza del pop contemporaneo rielaborata da antichi quartetti d’archi. E nel corso degli episodi non è l’unica musica da Generazione Z che ascoltiamo. È possibile riconoscere anche Girls Like You (Maroon 5), In My Blood (Shawn Mendes), bad guy (Billie Eilish), Strange (Celeste) e Wildest Dreams (Taylor Swift). Questo detta già il tono di Bridgerton: è una serie creata per attrarre un pubblico giovane, che nel period drama desidera anche rivedere qualcosa di sé.

Il gusto per le scenografie, i colori, i costumi e le acconciature, infatti, è più vicino alla contemporaneità che all’epoca storica di riferimento. Si può dire anzi con certezza che non vi sia particolare ricercatezza e accuratezza storica nei dettagli. Al di là, comunque, dell’eccellente lavoro di fino di tutti gli artisti coinvolti nella realizzazione della serie. Ben 7500 abiti, per esempio, e ognuno che attrae inevitabilmente lo sguardo.

I Bridgerton - Credits: Netflix/Vogue
I Bridgerton – Credits: Netflix/Vogue

Abbastanza moderna è anche la generale visione del sesso (al di là di quell’unica scena che come già detto crea inevitabili controversie), soprattutto dal punto di vista femminile. Mancano quasi totalmente, tuttavia, riferimenti all’intero spettro della sessualità, a parte l’aspetto etero, cosa che per Shondaland è un po’ inusuale. Forse ci sarà modo di conoscere meglio altri personaggi, qui solo accennati, nelle prossime (eventuali) stagioni.

5 – L’ANACRONISTICA AGENCY DEI PERSONAGGI FEMMINILI

Per agency intendo qualcosa di non perfettamente traducibile in italiano. È una caratteristica dei personaggi che muovono l’azione e rifiutano la passività. Si può definire in un certo senso come la libertà di agire nel mondo narrato e per questo è così inusuale in un period drama. Siamo abituati a pensare alle narrazioni in costume come dei momenti in cui il peso femminile nella società è piuttosto irrisorio. In Bridgerton si percepisce continuamente invece l’attrito fra la visione maschile e quella femminile del mondo. C’è spirito, arguzia e ironia ma c’è anche una buona dose di risentimento, amarezza e rabbia verso gli obblighi sociali delle donne e le aspettative nei loro confronti, nell’Ottocento come oggi. Qualcuno ha parlato di sottotesto femminista, ma non è abbastanza approfondito per ritenerlo pienamente tale. Diciamo che gratta piuttosto la superficie delle cose in quella direzione.

6 – L’AZZARDO DEL COLOR-BLIND CASTING

Veniamo al punto che aspettavo di più, ovvero la prima cosa che ho notato già dal trailer: il blind casting! Le produzioni di Shonda Rhimes vanno da un estremo all’altro, in questo senso. Se guardiamo Le regole del delitto perfetto, parte essenziale dello show è la blackness della sua protagonista, Annalise Keating/Viola Davis. Se invece andiamo a osservare con attenzione i personaggi di Grey’s Anatomy, scopriamo che nessuno è caratterizzato appieno culturalmente, per lasciare la possibilità a qualsiasi interprete di avere il ruolo, indipendentemente dall’etnia d’origine. Questo è il blind casting, che spesso collima con la più spinosa questione della color blindness. Quando si afferma cioè di non vedere nessun colore, si annulla automaticamente parte dell’identità delle persone non caucasiche, rischiando di essere ugualmente razzisti.

Golda Rosheuvel nei panni della regina Charlotte, al centro - Credits: Netflix
Golda Rosheuvel nei panni della regina Charlotte, al centro – Credits: Netflix

In Bridgerton gli autori però compiono un azzardo molto apprezzato, facendo leva su un verosimile falso storico. Alcuni storici sono infatti convinti che la regina Charlotte, moglie di Re Giorgio III, fosse lontana discendente di una famiglia portoghese nera. I ritratti della Regina possiamo vederli semplicemente digitando il suo nome su Google, ma il punto è che Bridgerton ci propone l’utopia che quest’ipotesi implica. Ossia come sarebbe la società se già due secoli fa avessimo liberato davvero i popoli colonizzati, lasciando che ricoprissero anche ruoli di potere.

Purtroppo questo aspetto cruciale è vagamente accennato in modo esplicito ma mai scavato fino in fondo. Approfondirlo significherebbe far virare la storia verso un aspetto propriamente politico, cosa che Bridgerton non intende fare. Rimane una storia d’amore. Di per sé però è già una rivoluzione vedere, per esempio, l’affascinante Duca di Hastings interpretato da un anglo-zimbabwese. La sua bellezza non è un feticcio, è una dichiarazione: il principe azzurro può essere diverso da come lo abbiamo sempre immaginato e così può essere tutta la nostra percezione della realtà.

7- REGÉ-JEAN PAGE (E L’OTTIMO CAST)

Rimango in tema con il Duca di Hastings, perché il lavoro compiuto da Regé-Jean Page con il suo personaggio è forse la prima ragione in assoluto del binge watching. È inutile negarlo, sappiamo fin dall’inizio come andrà a finire tra il Duca e Daphne, vogliamo solo vedere come il Duca arriverà alla conclusione del suo arco. Parlo dal punto di vista più inflazionato, ma il percorso di mutamento del personaggio maschile è di solito ciò che più attrae le donne (generalmente etero) in una storia d’amore.

Nel percorso del nostro Duca, ma chiamiamolo Simon, è fondamentale, per esempio la meravigliosa Lady Danbury (Adjoa Andoh): donna risoluta e piuttosto incurante delle convenzioni. Veramente libera.

Tra un ballo e l’altro abbiamo poi l’occasione di conoscere la regina Charlotte di Golda Rosheuvel (star del West End londinese). Anche lei, come Lady Danbury è un personaggio creato su misura per fare la differenza e dettare un nuovo modo di rappresentare le donne nere.

Lady Danbury (Adjoa Andoh) - Credits: Netflix
Lady Danbury (Adjoa Andoh) – Credits: Netflix

Infine, nella costellazione di interpreti di questo cast ricchissimo (solo i Bridgerton sono otto tra fratelli e sorelle), concludo con Nicola Coughlan. Chiunque abbia visto Derry Girls (serie consigliatissima, sempre su Netflix) probabilmente ne è rimasto colpito già da tempo. La bontà, la dolcezza e la forza del suo personaggio (Penelope) è un altro punto di forza di Bridgerton. E il legame che è in grado di creare con lo spettatore in questa prima stagione è a dir poco essenziale per tutte quelle a venire. Ovviamente se l’avete visto fino alla fine sapete a cosa mi riferisco.

In conclusione, Bridgerton non racconta nulla di nuovo o imprevedibile. Gran parte dei colpi di scena si intravedono già da molto lontano. In questo senso di sicurezza del già noto e di voluta e ricercata banalità, sta la sua perfezione. Shonda Rhimes ci ha fregati ancora una volta.

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MATRIX RESURRECTIONS in home video distribuito da Warner Bros. Home Entertainment

MATRIX RESURRECTIONS dvd
MATRIX RESURRECTIONS, in home video distribuito da Warner Bros. Home Entertainment

Diretto dalla visionaria regista Lana Wachowski, Matrix Resurrections arriva in DVD, Blu-ray, 4K Ultra HD e Steelbook 4K Ultra HD per Warner Bros. Home Entertainment. Il tanto atteso nuovo capitolo dell’innovativo franchise che ha ridefinito un genere riunisce nuovamente le star Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss nei ruoli iconici che hanno reso famosi Neo e Trinity.

Tra i numerosi ed imperdibili contenuti speciali, tanti dietro le quinte per scoprire come il cast e la troupe hanno dato vita alle scene più strabilianti ed emozionanti di Matrix Resurrections. Dal 10 marzo è inoltre disponibile l’esclusivo Matrix Boxset, tutto il mondo di Matrix, la saga che ha rivoluzionato il cinema di fantascienza e conquistato milioni di persone, racchiuso in un unico spettacolare cofanetto con i 4 film in 4K Ultra HD e Blu-ray.

Il film

Matrix Resurrections ci riporta nella duplice realtà percorsa di codici traslucidi che più di vent’anni fa segnò una netta demarcazione tra il cinema fantascientifico pre e post Matrix. Ma, soprattutto, la regista Lana Wachowski sfrutta tutto ciò che l’universo Matrix ha trasformato ed influenzato negli ultimi anni, potenziandone gli effetti sul presente e tirandone fuori la storia d’amore più appassionata e romantica che potessimo aspettarci.

La grandezza del fenomeno cinematografico si riversa in una lettura contemporanea che Lana Wachowski opera sul materiale ancora fortemente significante: come la trilogia ebbe il potere di segnare un punto di non ritorno, il videogioco che Thomas crede di aver creato ha rivoluzionato il mondo del gaming e la concezione di realtà e finzione. Il parallelo è costantemente comunicato dai personaggi e dall’atmosfera voluta per il film.

di Silvia Pezzopane

Qui la nostra recensione completa di Matrix Resurrections.

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IL TORINO FILM FESTIVAL COMPIE 40 ANNI

Steve Della Casa, Enzo Ghigo, Domenico De Gaetano. Conferenza stampa per la presentazione dei 40 anni del Torino Film Festival.
Steve Della Casa, Enzo Ghigo, Domenico De Gaetano. Conferenza stampa per la presentazione dei 40 anni del Torino Film Festival.

Le prime anticipazioni dell’edizione diretta da Steve Della Casa

Ieri, nel corso di un incontro con la stampa presso Casa Argentina en Roma, il Direttore del Torino Film Festival Steve Della Casa insieme a Enzo Ghigo e a Domenico De Gaetano – rispettivamente Presidente e Direttore del Museo Nazionale del Cinema di Torino – ha annunciato le linee guida che caratterizzeranno la 40ma edizione.

Voglio innanzitutto ringraziare il mio predecessore, Stefano Francia di Celle e tutta la sua squadra, per lo straordinario lavoro svolto in questi due anni così difficili e il Museo Nazionale del Cinema per la fiducia accordatami – ha dichiarato Steve Della Casa. Fin da subito la sintonia con il presidente Enzo Ghigo e il direttore Domenico De Gaetano, è stata totale, così come con i vertici della Film Commission Torino Piemonte, nella comune consapevolezza dell’importanza di consolidare ulteriormente la collaborazione e la sinergia tra gli enti del sistema cinema torinese, in ambito artistico così come in ambito industriale.

In questo campo stiamo preparando con Gaetano Renda un convegno internazionale sul rapporto tra cinema e sala. La 40ma edizione del Torino Film Festival dovrà essere all’insegna del rinnovamento ma nel solco della tradizione, ritrovare quella vitalità identitaria che per forza di cose nei due anni di pandemia si è persa, tornando a coniugare sperimentazione, cinema popolare e di genere.”

Ospiti e anticipazioni

E nella direzione indicata da Steve Della Casa va la scelta di dedicare all’attore Malcolm McDowell un omaggio a riconoscimento del suo straordinario apporto al cinema d’autore, al cinema popolare e alle serie tv, e nello spirito delle grandi retrospettive che hanno caratterizzato il Torino Film Festival negli anni.

L’attore sarà ospite del TFF e protagonista di una masterclass condotta da David Grieco, regista di Evilenko, uno dei sei titoli – insieme a Arancia Meccanica di Stanley Kubrick e Caligola di Tinto Brass – che lo stesso McDowell ha scelto come più esemplificativi della sua carriera.

Malcolm McDowell, TFF

Le sezioni

Il 40° TFF sarà un festival più snello. Il programma comprenderà 4 sezioni competitive – Concorso internazionale lungometraggi, Concorso documentari internazionali, Concorso documentari Italiani, Concorso cortometraggi italiani – , un Fuori Concorso dedicato alla produzione più interessante dell’anno in corso e alcuni Programmi Speciali.

Tra i Programmi Speciali, sempre nello spirito e nella tradizione del festival, sarà dedicata al western una mini retrospettiva. Saranno proposti 6 titoli, scelti in una rosa di 20, diretti o interpretati da registi e attori cult e presentati in sala da cinefili e studiosi del genere, tra i quali Francesco Ballo e Marco Giusti.  “Questi film caratterizzeranno il TFF per quello che deve tornare ad essere, cioè il luogo geometrico (anche) della cinefilia più estrema” dichiara Steve Della Casa.

Per festeggiare degnamente i 40 anni del Torino Film Festival, inoltre, la serata di apertura – sorprendente e pop al tempo stesso – si terrà al Teatro Regio e sarà trasmessa in diretta.

Ad affiancare il Direttore ci sarà un nuovo Comitato di selezione composto da Giulio Casadei, Antonello Catacchio, Massimo Causo, Grazia Paganelli, Giulio Sangiorgio e Caterina Taricano. Consulenti alla direzione artistica saranno Luca Beatrice, Claudia Bedogni, David Grieco, Luigi Mascheroni, Paola Poli, Alena Shumakova e Luciano Sovena.

Non ci resta che aspettare novembre per tornare a Torino con la quarantesima edizione!

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“Dove sei, mondo bello”: il presente secondo Sally Rooney

Dove sei, mondo bello (Einaudi 2022, traduzione Maurizia Balmelli)
Dove sei, mondo bello (Einaudi 2022, traduzione Maurizia Balmelli)

Dopo i primi romanzi, Parlarne tra amici (Einaudi 2018) e Persone normali (Einaudi 2019), Sally Rooney torna nelle librerie italiane con la sua nuova opera Dove sei, mondo bello (Einaudi 2022, traduzione Maurizia Balmelli).

Sally Rooney è oramai un caso letterario, basti pensare che lo scorso settembre le librerie inglesi hanno esteso i loro orari di apertura in occasione dell’uscita di Beautiful World, Where Are You (Dove sei, mondo bello).

Divenuta celebre grazie a Persone normali, vincitore del rinomato premio letterario Costa Award, inserito dal Guardian al venticinquesimo posto tra i cento migliori romanzi del secolo e diventato anche una mini-serie che ha conquistato tre Emmy Awards, la giovane scrittrice irlandese torna con un nuovo lavoro che sembra dialogare con i suoi precedenti romanzi.

La bellezza dov’è?

Dove sei, mondo bello? è un verso della poesia Gli dei della Grecia di Friedrich Schiller che oggi, forse più di ieri, si fa portavoce di una disillusione collettiva. Le società contemporanee e il sistema politico-economico in cui siamo immersi ci dimostrano ogni giorno di non essere in grado di prendersi cura del pianeta. Nelle pagine del volume si respira la polvere proveniente dal crollo delle speranze che animavano i ventenni protagonisti degli altri libri di Rooney, eppure la bellezza esiste ancora e la si ritrova nell’abbraccio tra due amiche in una stazione ferroviaria e nella lettura dei capolavori di Henry James, Fëdor Dostoevskij e Marcel Proust.

Eileen, Alice, Simon e Felix sono la contemporaneità

Il romanzo getta luce sulla vita e sui pensieri di quattro personaggi: Alice, una scrittrice famosa che dopo un esaurimento nervoso ha deciso di trasferirsi in un paesino irlandese sulle coste dell’Atlantico, Eileen, una ragazza brillante, anch’essa quasi trentenne come la prima, reduce da una relazione fallita e sottopagata dalla rivista letteraria per cui lavora, Felix, un magazziniere che da un anno fa i conti con il dolore per la perdita della madre, e Simon, un pacato e affascinante consulente politico ultracattolico.

Il romanzo di Rooney ruota intorno alle relazioni tra questi personaggi. Eileen e Alice sono amiche dai tempi dell’università e si raccontano attraverso un fitto scambio di posta elettronica, Alice e Felix si sono incontrati su Tinder per poi frequentarsi nella vita reale e Simon ed Eileen si conoscono da sempre, da quando il primo aveva cinque anni e teneva in braccio la seconda appena nata.

Tutti vivono nella paura di non capirsi, di non darsi il massimo ma, allo stesso tempo, godono della meraviglia di ciò che li lega aspirando al raggiungimento della pienezza. Ognuno rappresenta in maniera diversa il nostro presente precario e colmo di incertezze.

“Con la morte dell’Unione Sovietica è morta anche la storia” (Dove sei, mondo bello, p. 86)

Come Annie Ernaux nel da poco pubblicato in Italia Guarda le luci, amore mio (L’orma editore 2022), anche Sally Rooney si fa carico in questo romanzo della riflessione sul sistema capitalistico partendo dall’esperienza in un supermercato.

Nelle pagine di Dove sei, mondo bello, Alice, accerchiata dai prodotti di un minimarket, racconta di essere stata colta da un tremendo senso di vertigine. Lo sfruttamento dei più poveri è in ogni cosa e lei si percepisce dalla parte dei carnefici. Da qui nasce il problema etico sollevato nelle pagine delle sue lettere a Eileen: come opporsi a un meccanismo pur essendone parte integrante?Con la morte dell’Unione Sovietica è morta anche la storia”, scrive Alice, da allora la globalizzazione non ha più avuto freni.

E così, nell’era di Whatsapp, andando controcorrente, le due ragazze si scambiano lunghissime e-mail piene di confidenze particolari e interrogativi universali. Scrivono delle loro relazioni e delle novità lavorative ma dibattono anche dei profughi che annegano in mare, dell’invasione della plastica sulla terra, del senso di Gesù e dell’utopia del marxismo.

Le loro vite sono liquide come sono fluidi i loro rapporti con gli altri che spesso rifuggono dalle etichette che la società ha generato per meglio classificare ogni suo componente.

Felix e Alice prima di frequentarsi hanno avuto delle liaison con persone del loro stesso sesso, Eileen ha paura di ingabbiarsi in un rapporto con Simon che potrebbe rovinare la loro amicizia. Questa libertà nell’autodefinirsi e nel concepirsi difformemente nell’affinità con gli altri talvolta genera delle difficoltà, tuttavia assurge a un compito importante: spingere ogni essere umano a porsi delle domande, alle quali forse non avrà mai delle risposte, che aiutano a non sprofondare nelle sabbie mobili degli stereotipi. Del resto il tema sulla fluidità delle relazioni interpersonali è sempre stato caro all’autrice che in Parlarne tra amici mette in bocca a Frances queste parole indirizzate a Bobbi: “Credi che potremmo sviluppare un modello alternativo per amarci?” (Sally Rooney, Parlarne tra amici, p. 266).

Evasione, che sia dalla celebrità o dal tradimento delle aspettative

Alice cerca rifugio in una casa fuori dal caos delle città come New York, dove ha da poco vissuto, per tentare di raccogliere i pezzi dopo un cedimento nervoso ma anche per non dimenticarsi delle abitudini che aveva prima di diventare popolare. Ma la celebrità è un fiume in piena e l’isolamento che la scrittrice vorrebbe concedersi è intervallato dalle trasferte di lavoro qua e là per le capitali europee. In fondo Alice e Sally Rooney hanno qualcosa in comune: la volontà di non farsi travolgere dall’ondata del successo.

Eileen, d’altro canto, cerca di evadere dal grigiore della sua condizione lavorativa con i grandi classici della letteratura. “[…]la bella carta da lettere, le penne stilografiche, i fogli bianchi, per lei rappresentavano la possibilità dell’immaginazione, una possibilità in sé infinitamente superiore e più sottile di qualunque cosa fosse mai riuscita a immaginare.”(p. 214). Il potere dell’immaginazione che un tempo aveva creduto di essere in grado di esercitare nella scrittura, lo adopera tuffandosi nei grandi romanzi, divenendo parte di quel congegno, chiamato letteratura, che senza i lettori si svuota di senso.

L’immaginazione che dà vita alla letteratura è nei romanzi di Sally Rooney la stessa che aiuta a decodificare la realtà; lo testimonia anche il personaggio Connel in Persone Normali che, come dando voce alla romanziera, sostiene di utilizzare l’immaginazione cui ricorre come lettore anche per capire le persone che lo circondano.

La letteratura triturata dalle dinamiche di mercato

“Il romanzo, quindi, funziona se occulta la verità del mondo – comprimendola sotto la superficie sfavillante del testo. E che le persone si lascino o rimangano insieme può tornare a essere di qualche interesse, com’è nella vita vera, se, e solo se, siamo riusciti a dimenticarci di tutte le cose più importanti, vale a dire tutto” (p. 88) scrive Alice all’amica Eileen.

La letteratura risponde oggi alle dinamiche di mercato e anche Alice sente, come scrittrice, il peso di questa responsabilità. Per la stessa ragione, la donna evita di leggere le opere degli autori contemporanei i quali, essendo governati dall’attuale sistema di produzione letteraria, scrivono soprattutto per essere pubblicati e ben recensiti. Questa è la spia di un’attuale crisi culturale che forse, chissà, porterà, come col crollo della tarda Età del bronzo, al disperdersi della lingua scritta.

La verità della scrittura di Sally Rooney

La scrittura di Sally Rooney appassiona il lettore a tutti i temi da lei trattati, sia a quelli legati all’attualità e alla cultura, che a quelli viscerali delle storie d’amore e di amicizia tra i personaggi che dialogano, si amano, fanno sesso e si feriscono. Dove sei, mondo bello è un romanzo vero che non esclude “tutte le cose più importanti, vale a dire tutto”. E poi, Alice, Felix, Eileen e Simon, nonostante le loro difficoltà, che sono anche le nostre, riescono a farci pensare che qualcosa, oggi, si può ancora salvare.

Quando cerco di immaginarmi come potrebbe essere una vita felice, mi accorgo che da quando ero bambina l’immagine non è molto cambiata: una casa circondata da alberi e fiori, un fiume nei paraggi e una stanza piena di libri, e qualcuno che mi ami, nient’altro”. (p. 192).

Ringraziamo Einaudi Editore per averci dato la possibilità di leggere Dove sei, mondo bello.

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“Salvatore” – L’innocenza di Scarface

Salvatore
Paky, Salvatore

Sono finiti i tempi in cui si girava a Rozzi, sì frate a Rozzi e chi lo sa meglio di tutti è Paky, che ora, a Rozzano, non ci vuole più morire.

A discapito delle illazioni dei boomer e dei fautori del rap old school, che additano i giovani d’oggi come tamarri ignoranti che confezionano banger e spariscono, Paky ha dimostrato che le chiacchiere stanno a zero.

Il primo album in studio di Vincenzo Mattera – questo il suo vero nome – Salvatore, è un viaggio in diciassette tracce, un notturno tra le case popolari, in bilico tra realismo di strada e immaginario pop. Un lavoro solido, che sta in piedi dall’inizio alla fine e che scopre le sue carte vincenti poco alla volta, puntando alla completezza, in barba allo skip rate.

Secondigliano regna

Sembra di vederlo, Vincenzo, mentre ringhia nel microfono, un po’ col grugno rabbioso da scugnizzo, un po’ con la disillusione e la noia della GenZ, che non è più abbagliata dai grillz e i bling blaow della trap. L’arrivo della drill dalla Francia e dal Regno Unito aveva riacceso i riflettori sui luoghi che la scena italiana sembrava aver dimenticato, dopo la definitiva consacrazione della trap come nuovo pop.

Ora gli occhi sono tutti puntati sulle nuove leve, che stanno riportando l’attenzione sulle storie, sulle narrazioni di quegli stessi immaginari da cui tutto era partito. Ma mentre Sfera Ebbasta è a New York e Achille Lauro è al Festival di Sanremo, Paky è ancora tra i palazzoni di cemento di Rozzano – e con lui Sacky, Baby Gang, Rondo e tutti gli altri, che stanno sgomitando per arrivare in cima.

Ecco che Salvatore suona come un grido di battaglia, una haka che potrebbe davvero spaventare gli avversari. La produzione si rifà al mondo del rap classico per la maggior parte delle tracce dell’album: voce piuttosto secca e in primo piano, per puntare tutto sulla lirica e sulla pasta naturale della vocalità di Paky, materica, nasale, a tratti strozzata. Che le soluzioni liriche non siano troppo raffinate e costruite è evidente, ma la forza della narrazione che questo album mette in piedi sta proprio qui: è ingenua, è vera, è concreta.

Paky, Salvatore

Musicalmente siamo nel 2022: Paky ha 22 anni e non ha niente da dimostrare ai nostalgici dell’old school e nemmeno a quelli di “Crack Musica”. C’è l’autotune e il cantabile di Comandamento con Geolier, c’è la drill di 100 Uomini, c’è il beat un po’ vintage di Quando piove. Ci sono Sick Luke e Night Skinny e pochi featuring piuttosto oculati: Marracash, Shiva, Guè Pequeno, Geolier, Luchè e Mahmood. Un dream team.

Gomorra blues

Basta la settima traccia, omonima dell’album, una registrazione diretta, forse fatta con il cellulare, forse con un microfono da poco, in cui Paky racconta della morte dello zio, della sua situazione di un costante e lento soffocare, “come un impiccato”, della rabbia da cui è scaturito questo album.

Sembra di sentire un monologo di Genny Savastano. Ma è tutto qui: il superamento della rarefazione testuale della trap ma anche del lirismo del rap, un immaginario criminale che suona più  come giocare a guardie e ladri, che come un attaccamento morboso alla street credibility. E Paky è lo Scarface innocente di cui la scena italiana aveva bisogno.

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La grande bellezza. Eterna inadeguatezza e imbarazzo dello stare al mondo 

La grande bellezza

La grande bellezza di Paolo Sorrentino (vincitore del Premio Oscar al miglior film straniero, quando ancora si chiamava così nel 2014), è uno dei suoi lungometraggi più acclamati e criticati allo stesso tempo. 

Un film che mette al centro della narrazione il protagonista, scrittore, Jep Gambardella (Toni Servillo) ed il suo continuo disincanto nei confronti di tutto ciò che lo circonda.

Opera ermetica, che ha fatto di questa sua peculiarità la chiave di volta di questo immenso lavoro.

Ha destato non pochi turbamenti riuscendo a destabilizzare sapientemente il lato più torbido e profondo di molte coscienze.

Definirlo un’apologia di Roma suona errato e soprattutto riduttivo. La capitale c’è ed è presente in modo quasi irriverente in tutto il suo splendore ed imponente maestosità, ma la sua bellezza viene usata da Sorrentino, quasi come scudo di protezione dinnanzi allo squallore delle persone, la fauna, che la città è costretta a dover accogliere e a vegliare quotidianamente.

Roma è molto peggiorata. 

In maniera verticale!

Un mondo fatto di nefandezze, false certezze e convinzioni inesistenti, che conducono tutte al ribrezzo dell’uomo miserabile e alla fatica del dover stare al mondo. 

Il decadentismo della “realtà scadente”

L’idea del cinema, come salvezza dalla realtà scadente, era già fortemente presente nel film che ha portato la statuetta nelle mani del regista, per poi rimettersi al processo di transustanziazione totale, nell’Amarcord sorrentiniano, con: È stata la mano di Dio.

Ed è proprio nella realtà scadente che la grande bellezza inizia a porre le sue fondamenta.

Un’eco felliniana, della formula ASA NISI MASA, trova spazio attraverso una raffinata rielaborazione, con il numero di magia della giraffa, che scompare dinnanzi agli occhi di Jep Gambardella, incalzando, ancora una volta, su quanto l’esistenza sia solo un trucco, un’illusione, quel gioco di prestigio, che è in grado di salvare dall’inesauribile imbarazzo e dall’inadeguatezza del saper vivere.

È solo un trucco. Sì, è solo un trucco.

Il gioco di contrasti tra le statue di marmo freddo e la ricorrente fluidità dei corpi nudi, rispecchia in modo sublime l’artefatta perfezione dell’esteriorità, educata a celare il disagio interiore dell’essere umano e il costante ed opprimente senso di ansia, che tormenta donne e uomini nel non riuscire mai a sentirsi adatti a nulla.

Jep: “Non sono più adatto a questa vita, a questa città”.
Dadina: “Nessuno è adatto ad un cazzo, Jep”.

Gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza

«Finisce sempre così, con la morte, prima però c’è stata la vita». Nel monologo finale dello “scrittore dallo scatto breve”, è racchiusa l’essenza dell’intera opera. C’è la morte, ma c’è anche la vita. Quel palcoscenico della sopravvivenza dove non rimane altro che prendersi un po’ in giro, e far scorrere il tempo cercando di comprendere chi si è veramente e qual è l’esatto ruolo da ricoprire.

Chi sono io? e nel romanzo di Breton non c’è risposta. E nemmeno per nessuno di noi.

Ma nello scenario decadentista di Sorrentino, la speranza di una serenità temporanea esiste e si palesa nello sparuto ed incostante sprazzo di bellezza e nell’immaginazione percepibile dagli occhi di una Madame Ardant, sognante di essere realmente l’irresistibile femme d’à côté, o dal sorriso appena accennato di Jep Gambardella, che rievoca spudoratamente quello malinconico di Marcello Mastroianni nel gran finale della Dolce Vita.

Che cos’è una vibrazione? La rincorsa verso la società stereotipata

La grande bellezza si offre come specchio della società contemporanea, in cui lo stereotipo ed il luogo comune fanno da padroni.

Dove chirurghi plastici assumono le vesti di santoni e i cardinali decantano doti culinarie, ponendo in secondo piano la loro reale vocazione, ormai dimenticata.

Un contesto odierno nel quale, se non sei al contempo «madre e donna», non hai diritto di aver alcun tipo di salvacondotto e dignità. E dove millantatori dai poteri extra sensoriali immaginari, dando testate al muro, si ergono sul piedistallo degli artisti avanguardisti ed incompresi.

«Che cos’ è una vibrazione?». Ma l’artista, al giorno d’oggi, è colui che ha il diritto di poter rispondere con inetta fermezza: «Non lo so che cos’è una vibrazione».

La verità è che tutto questo chiacchiericcio, non rappresenta altro che fuffa impubblicabile; è il niente sedimentato sotto il bla bla bla

La Santa. Le radici. E l’eterno ritorno del «Non ti disunire»

Nel caotico vortice della mondanità dello scrittore tormentato e costantemente alla ricerca della grande bellezza, irrompe “La Santa” (Giusi Merli).

 Personaggio incantevolmente decentrato, al di fuori dei paradigmi imposti, che esorta a non separarsi mai dalle radici, «perché le radici sono importanti», di non affannarsi a diventare ciò che non si è, e di rimanere sempre fermi ai propri valori senza disperdersi, e disunirsi. 

«Non ti disunire», inciterebbe l’Antonio Capuano dell’ultimo film del regista.

Ed è proprio dalle sue origini, da uno dei ricordi più reconditi e remoti della sua giovinezza, che Jep Gambardella trova nuovamente l’ispirazione per scrivere il nuovo romanzo. Dal ricordo di quella notte al faro, dove tutto, per lui, era ancora di rara ed incontaminata bellezza, e grazie al quale, riesce a dar vita a nuove prime parole.

Altrove c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio.

Trieste Film Festival in Tour: il festival nei cinema italiani

Trieste Film Festival in Tour torna nelle sale con un’edizione “eccezionalmente” biennale: da marzo nelle sale italiane una selezione dalla 32esima e 33esima edizione del Festival.

Trieste Film Festival in Tour, l’iniziativa ideata dal Trieste Film Festival in collaborazione con Lo Scrittoio, torna nelle sale dopo un anno di assenza a causa dell’emergenza sanitaria. I titoli selezionati nel 2021 si affiancano così a quelli scelti nell’edizione 2022, contribuendo a creare un programma molto ricco e diversificato, reso quest’anno ancora più imperdibile dal ritorno a grande richiesta del film Donbass di Sergei Loznitsa, già parte dell’edizione 2019 del Tour e oggi inserito nuovamente in programma grazie alla preziosa collaborazione con il suo distributore italiano I Wonder Pictures. Il programma comprende come sempre opere molto differenti tra loro anche per permettere alle sale una scelta più aderente alle caratteristiche e ai gusti del proprio pubblico.

Le tematiche

Un elemento che certamente accomuna tutte le opere proposte è comunque la capacità di raccontare un presente tumultuoso e complesso caratterizzato da forti inquietudini personali e sociali. Un presente in cui le insicurezze e le paure prodotte da guerre e difficoltà economiche sono alla base di movimenti migratori dalle periferie più povere e tormentate del pianeta, un presente fatto purtroppo di conflitti e guerre che il cinema ha la capacità, ma soprattutto il dovere di raccontare.

Anche per questo la direzione del Trieste Film Festival e Lo Scrittoio hanno ritenuto fondamentale, in un frangente come quello che stiamo vivendo, riproporre il film Donbass di Sergei Loznitsa, vincitore del Premio alla miglior regia nella sezione Un Certain Regard di Cannes, ritenuto opera d’autore imprescindibile per farci capire almeno in parte quanto si sta verificando proprio in questi giorni nel cuore dell’Europa.

Sempre focalizzato sulla polveriera del Donbass anche il documentario italiano Divided Ukraine: What Language Do You Express Love In? di Federico Schiavi e Christine Reinhold, che dà voce alle vite e alle storie di uomini e donne di una regione che vive dal 2014 in un contesto di guerra civile, sfociata nell’attuale guerra tra Russia e Ucraina.

Tutti i titoli

Donbass di Sergei Loznitsa

Andromeda Galaxy diMore Raça

As Far As I Can Walk di Stefan Arsenijević

Darkling di Dušan Milić

Divided Ukraine: What Language Do You Express Love In? di Federico Schiavi e Christine Reinhold

Fear di Ivaylo Hristov,I Never Cry di Piotr Domalewski

Sisterhood di Dina Duma

Wet Sand di Elene Naveriani

Wild Roses di Anna Jadowska

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FRAMED ACADEMY 2022: le regie migliori secondo noi

FRAMED ACADEMY 2022: le migliori regie secondo noi
FRAMED ACADEMY 2022: le migliori regie secondo noi

Anche quest’anno FRAMED fa le previsioni per gli imminenti Oscar! Per tre settimane, fino al giorno della premiazione ufficiale (nella notte tra il 27 e il 28 marzo), condivideremo le nostre preferenze in alcune delle categorie più importanti.

A questo link trovate già l’articolo sulle migliori interpretazioni secondo la Redazione, ma questa settimana dedichiamo la rubrica FRAMED ACADEMY alle regie: cinque registi in gara per cinque film molto diversi tra loro. Chi meriterebbe la statuetta secondo voi? Noi abbiamo fatto qualche previsione:

West Side Story – Steven Spielberg

Mai avrei pensato che per questo 2022 la mia scelta sarebbe ricaduta su Spielberg. Ma è impossibile non consegnare la mia statuetta ideale a questa regia così sublime e dinamica che, come una danza forsennata, trascina lo sguardo nella turbolenta storia d’amore dei due giovani sfortunati. La macchina da presa è costantemente viva e quasi invadente: mostra il visibile ma cerca di lasciar trasparire anche la fragilità sommessa dei sentimenti meno evidenti. La narrazione si adagia attraverso le canzoni in un limbo movimentato destinato alla tragedia, una tragedia di cui facciamo esperienza sin nei minimi dettagli, soffrendo e danzando con i personaggi, lasciandoci totalmente andare al ritmo che Spielberg ha costruito per noi.

di Silvia Pezzopane

Coniugando la sua indiscussa abilità professionale alle possibilità virtuosistiche del musical in quanto genere cinematografico, Spielberg ci regala uno spettacolo di dinamismo dalla rara maestosità e intimità. Tra panoramiche e carrelli che, da vedute d’insieme che ci danno la misura della grandiosità delle coreografie, si immergono nel vivo dell’azione, a rivelarci dettagli, espressioni e gesti che rendono vivi i personaggi, Spielberg ci racconta con una naturalezza che è in qualche modo riuscita a sorprenderci una vecchia storia di cui è stato in grado di mettere in rilievo la (ahimè) sempiterna attualità.

di Alessandra Vignocchi

FRAMED ACADEMY west-side-story
FRAMED ACADEMY. West Side Story (Steven Spielberg, 2021) – Credits Walts Disney Studios Motion Pictures

Il potere del cane – Jane Campion

Non è solo per la pioggia di premi già vinti da Jane Campion, a partire dal Leone d’argento dello scorso settembre: la regia di Il potere del cane è davvero una delle più impressionanti dell’anno. È l’incontro fra lo spazio sconfinato della Frontiera – e di tutto l’immaginario che porta con sé – e lo scavo in profondità proprio del cinema d’autore. È il desiderio ardente e represso che si fa immagine viva e pulsante, tanto nel corpo di Benedict Cumberbatch quanto nel lento indugiare della macchina da presa tra il micro e il macro, tra gli interni opprimenti e le praterie sconfinate.

di Valeria Verbaro

FRAMED ACADEMY
FRAMED ACADEMY. The Power of the Dog, Lucky Red, Netflix.

Licorice Pizza – Paul Thomas Anderson

Una storia piccola, senza divi protagonisti, ostentatamente leggera: e che, per questo, conferma ed esalta tanto più lo straordinario talento di Paul Thomas Anderson nella messa in scena. Nell’inquadrare, accostare, allontanare, far sfiorare e correre i suoi personaggi. Tra le tonalità di una bolla di vitalissima nostalgia, tra rappresentazioni (di rappresentazioni) a un passo dalla sospensione onirica e dal grottesco, la regia disegna nei dettagli la verità tenera e malinconica di corpi e anime che si attraggono e si respingono. E conferma la forza di uno sguardo che si mette, ancora una volta, in discussione. Sarebbe ora che l’Academy gli tributasse il meritato riconoscimento.

di Emanuele Bucci

LICORICE PIZZA. Eagle Pictures
FRAMED ACADEMY. LICORICE PIZZA. Eagle Pictures

Drive My Car – Ryūsuke Hamaguchi

Ryūsuke Hamaguchi offre un’elegante riflessione sull’arte del teatro, definendolo uno strumento meraviglioso di rielaborazione delle emozioni. Una narrazione metateatrale, in cui i sentimenti “messi in scena” si confondono con quelli effettivamente provati. Le tre ore di lungometraggio sono risolutive e necessarie per comprendere l’intero viaggio fisico ed interiore di Kafuku, e la quasi totale assenza di musica, che subentra con i titoli di testa, solo dopo 40 minuti dall’inizio del film, è mirata nel voler rievocare i nobili silenzi, che si consumano attraverso momenti di temporanea leggerezza. I dialoghi sono brevi, essenziali, laconici, avvolgenti. E chilometro dopo chilometro, il film (e il viaggio) si conclude con la rassegnazione di un’esistenza, che alle volte, risulta essere migliore, quando viene recitata piuttosto che vissuta.

di Annamaria Martinisi

FRAMED ACADEMY Drive My Car, regia Hamaguchi
FRAMED ACADEMY. Drive My Car (Doraibu mai kā), Tucker Film, Far East Film Festival.

Belfast – Kenneth Branagh

Kenneth Branagh è probabilmente e senza esagerazione alcuna, uno dei migliori registi viventi. E il suo ultimo film, Belfast, ne è la dimostrazione. Superbamente fotografato in bianco e nero, il film racconta i conflitti religiosi dell’Irlanda attraverso le sguardo innocente di un bambino. La storia è raccontata con la profonda partecipazione di un uomo che ha vissuto gli eventi narrati, che scorrono davanti agli occhi di un pubblico incantato. Attraverso una regia monumentale, Branagh riesce a mostrare la sua commozione e l’affetto per la terra natale. Belfast è un film che merita tutta l’attenzione possibile. E oltre a un cast in stato di grazia, la regia è proprio uno dei suoi punti di forza.

di Giulia Losi

Con Belfast, ultimo lavoro del regista irlandese, Kenneth Branagh dona una regia schematica ma introspettiva e intima, che si rifà alla sua personale visione della Belfast di fine anni ’60 dove lui stesso ha vissuto. Con una precisione sullo stile registico molto simile a quello di Wes Anderson, Belfast è rappresentata in bianco e nero come a voler rappresentare qualcosa di usurato e vecchio nel tempo. Branagh guarda all’indietro, ricordando la sua infanzia e costruendo un omaggio sentito e sincero alla città e alle persone da cui è stato cresciuto.

di Rebecca Fulgosi

Belfast, Kenneth Branagh
FRAMED ACADEMY. Caitriona Balfe, Jamie Dornan, Judi Dench, Jude Hill e Lewis McAskie in BELFAST. A Focus Features release. Credit : Rob Youngson / Focus Features

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Sorry to Bother You | Il folle film di Boots Riley

Sorry to Bother You

Dopo aver partecipato al Sundance nel 2018 Sorry to Bother You è sparito dai radar, ma arriva finalmente in Italia grazie a Netflix. Tenetevi forte, perché è un film davvero folle!

La trama

A Oakland, in un presente distopico, Cassius Cash Green (Lakeith Stanfield) vive perennemente al verde insieme alla compagna e artista Detroit (Tessa Thompson). Dopo aver trovato impiego presso una società di promozione telefonica, trova il modo di scalare la vetta dell’azienda per poi accorgersi di essere coinvolto in affari loschi e disumani. Tentato dal denaro, accetta egoisticamente la situazione fino a quando si accorge dell’assurdità, letterale e non solo etica, delle conseguenze del suo lavoro.

L’idea e il contesto

L’idea e la sceneggiatura di Sorry to Bother You risalgono al 2012 e sono complementari all’omonimo album dei The Coup, di cui Riley è anche frontman. Lo spirito che anima il debutto cinematografico del rapper è quindi lo stesso della sua musica: sociale, politico, dichiaratamente socialista e rivoluzionario. Pur essendo stato realizzato sei anni dopo, non fa riferimento alla sua contemporaneità, ossia all’amministrazione Trump. Si focalizza invece sulla critica del sistema economico neocapitalista degli Stati Uniti. Dal 2012 al 2018 un fattore di diversità determinante è però il mutamento della sensibilità del pubblico e quindi il maggiore interesse a produrre un’opera del genere. In particolare, non sarebbe stata possibile prima del successo di Scappa – Get Out.

Tessa Thompson in Sorry to Bother You

I temi

In primo luogo, la critica all’assetto capitalista della società è costruita attraverso un protagonista, Cassius Green, suo malgrado fagocitato dal ciclo continuo e alienante della produttività e del guadagno. Il denaro diventa la sua ossessione, o meglio il suo unico metro di giudizio e di valutazione della realtà. Per denaro Green è disposto a voltare le spalle ai colleghi in sciopero, a perdere la stima della compagna e persino ad accettare un compromesso disumano, vendendo di fatto lavoro schiavile.

L’altro grande riferimento alla contemporaneità statunitense, infatti, è costituito dalla centralità dell’azienda WorryFree, gestita da Steve Lift, un perfetto Armie Hammer che incarna lo stereotipo yuppie del bianco repubblicano. Nel film, la WorryFree è una sorta di comune in cui soprattutto persone poco abbienti si rifugiano per avere vitto e alloggio garantito, in cambio del proprio lavoro non retribuito.

Attraverso la costruzione visiva di questa realtà, in cui tutti indossano la stessa divisa e vivono in piccole celle con letti a castello, è chiaro che Riley fa riferimento al sistema carcerario statunitense e, di conseguenza, all’incarcerazione di massa e allo sfruttamento del lavoro forzato dei detenuti. Ciò che riguarda direttamente il discorso sulle politiche della rappresentazione, tuttavia, è il fatto che l’intero film, e con esso la sua posizione dissidente, sia costruito dal punto di vista afroamericano, che porta con sé anche la caratterizzazione del soggetto afroamericano in un mondo capitalista dominato dal pensiero bianco.

Questo aspetto è sottolineato anche dai uno dei primi elementi di sorpresa del film: la gag della white voice.

La white voice e la critica al razzismo sottile – Da qui SPOILER ALERT!

Per white voice si intende il code-switching a cui sono spesso costretti gli appartenenti a gruppi sociali marginali per inserirsi in ambienti tradizionalmente bianchi, per lo più lavorativi. Il code-switching è appunto la trasformazione del proprio codice linguistico, attraverso l’adozione di un codice più adatto al contesto. Nel caso degli afroamericani consiste nell’adozione di una pronuncia più controllata e nella rinuncia a determinati slang o espressioni jive: in altri termini quella che nel film è definita come “la voce che un nero fa quando viene fermato dalla polizia e non vuole creare problemi”.

In realtà, quindi, più che una rimodulazione linguistica, si tratta di una mutilazione identitaria dettata dai pregiudizi della visione bianca. Basterebbe questa battuta del film per capire lo spirito fortemente critico di Riley, ma il regista si spinge oltre trasformando quella che ormai è diventata una pratica comune in una surreale peculiarità stilistica, ossia il doppiaggio evidente e spesso fuori sincrono da parte di attori bianchi.

Lakeith Stanfield in Sorry to Bother You

La chiara parodia sottolinea la relazione direttamente proporzionale fra l’omologazione alla visione bianca e il successo del soggetto afroamericano, non senza sferzare un duro colpo all’ipocrisia che la determina. A un livello più implicito e sottinteso per tutta la durata del film, inoltre, c’è una significativa riflessione sull’appropriazione del corpo, del mito e della cultura afroamericana da parte del soggetto bianco. Sicuramente è nella seconda metà del film che questo tema emerge con forza, nelle dinamiche relazionali fra Green e Lift e poi nell’introduzione del metaforico Equisapiens.

Gli Equisapiens e l’appropriazione del corpo

I mostri creati da Lift, attraverso l’effetto di una polvere simile a cocaina, non sono altro che proiezioni della perversione bianca sul corpo dei neri. Si tratta, infatti, di bestie umanoidi obbedienti e servili, dotate di una forza impareggiabile e sfruttate per i lavori più pesanti e più degradanti. I loro corpi muscolosi e scolpiti, sono al contempo deformati da sembianze equine, ironicamente anche nella dimensione degli organi sessuali. Anche in questo caso la voce è un elemento fondamentale perché, dal modo in cui gli Equisapiens parlano, è possibile riconoscere un’appartenenza culturale: sono tutti afroamericani e, fra essi, si distingue persino la voce prestata da Forest Whitaker. Secondo il piano di Lift, Cassius dovrebbe diventare il loro falso leader rivoluzionario, in realtà colluso con il sistema corrotto.

L’oggettificazione e il white gaze

C’è una sequenza del film, in particolare, che merita un’apposita analisi riguardo l’appropriazione del corpo. Durante la festa organizzato da Lift/Hammer, il padrone di casa si ritrova circondato da una platea adorante e prevalentemente femminile, mentre racconta un’impresa di caccia contro un rinoceronte, di cui conserva gelosamente il trofeo. Quando Cassius entra nella stanza viene invitato a unirsi alla discussione, posizionandosi di fronte a quella stessa platea, esattamente sotto la testa del rinoceronte.

In quel momento anche lui diventa un trofeo di Lift, anticipando allo spettatore il suo destino e la sua condizione di oggetto dello sguardo e del desiderio di annientamento altrui. Il regista si scaglia contro la mentalità dominante e oppressiva del padrone e lo fa senza scusanti, ridicolizzando tutto il contesto in cui avviene la sequenza, costruita in modo da suggerire allo spettatore l’esposizione del soggetto afroamericano allo sguardo, al potere e al desiderio del soggetto bianco.

Cash prende il posto del rinoceronte: da solo, messo di fronte alla propria condizione di estraneità e differenza rispetto a tutti gli altri diventa il trofeo della festa e della serata. E a questa sequenza metaforica e allusiva segue poi quella sfacciatamente ironica del rap.

In breve

È un attacco durissimo dunque, quello di Boots Riley, alla falsa rappresentazione del soggetto afroamericano e all’appropriazione culturale che spesso si verifica in casi simili, ma soprattutto alla superficialità e all’inconsapevolezza dello sguardo bianco che persiste tutt’oggi negli Stati Uniti.

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