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David di Donatello 2024 – Tutte le candidature

David di Donatello, C'è ancora domani, Paola Cortellesi, Foto di Luisa Carcavale
C'è ancora domani, Paola Cortellesi, Foto di Luisa Carcavale

L’elenco completo delle candidature ai David di Donatello 2024 annunciate il 3 aprile dalla diretta Rai, emittente che anche quest’anno trasmetterà la cerimonia, il prossimo 3 maggio in prima serata. Presenti alla conferenza stampa anche Piera Detassis, presidente e direttrice artistica dell’Accademia del cinema italiano – Premi David di Donatello, e i due conduttori della premiazione, Carlo Conti e Alessia Marcuzzi.

È già record per C’è ancora domani, unico esordio nella storia dei David ad aver raggiunto 19 candidature totali. Segue Io capitano con 15 e La chimera con 13.

Sono 171 i lungometraggi arrivati nella selezione dei David 2024 e, nonostante la maglietta indossata con fierezza da Detassis (Girls can do anything), solo 26 sono le registe.

MIGLIOR FILM

MIGLIOR REGIA

  • Nanni Moretti per Il sol dell’avvenire
  • Matteo Garrone per Io capitano
  • Andrea Di Stefano per L’ultima notte di Amore
  • Alice Rohrwacher per La chimera
  • Marco Bellocchio per Rapito

MIGLIOR ESORDIO ALLA REGIA

  • Paola Cortellesi per C’è ancora domani
  • Giacomo Abbruzzese per Disco Boy
  • Micaela Ramazzotti per Felicità
  • Michele Riondino per Palazzina LAF
  • Giuseppe Fiorello per Stranizza d’amuri

MIGLIOR SCENEGGIATURA ORIGINALE

  • C’è ancora domani
  • Il sol dell’avvenire
  • Io capitano
  • La chimera
  • Palazzina LAF

MIGLIOR SCENEGGIATURA NON ORIGINALE

MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA

  • Paola Cortellesi per C’è ancora domani
  • Isabella Ragonese per Come pecore in mezzo ai lupi
  • Micaela Ramazzotti per Felicità
  • Linda Caridi per L’ultima notte di Amore
  • Barbara Ronchi per Rapito

MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA

  • Valerio Mastandrea per C’è ancora domani
  • Antonio Albanese per Cento domeniche
  • Pierfrancesco Favino per Comandante
  • Josh O’Connor per La chimera
  • Michele Riondino per Palazzina LAF

MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA

  • Emanuela Fanelli per C’è ancora domani
  • Romana Maggiora Vergano per C’è ancora domani
  • Barbora Bobulova per Il sol dell’avvenire
  • Alba Rohrwacher per La chimera
  • Isabella Rossellini per La chimera

MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA

  • Adriano Giannini per Adagio
  • Giorgio Colangeli per C’è ancora domani
  • Vinicio Marchioni per C’è ancora domani
  • Silvio Orlando per Il sol dell’avvenire
  • Elio Germano per Palazzina LAF

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO

Il vincitore è The meatseller di Margherita Giusti.

Gli altri candidati

  • Asterión di Francesco Montagner
  • Foto di gruppo di Tommaso Frangini
  • In quanto a noi di Simone Massi
  • We All Should Be Futurists di Angela Norelli

MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE

PREMIO CECILIA MANGINI – MIGLIOR DOCUMENTARIO

  • Enzo Jannacci. Vengo Anch’io
  • Io, noi e Gaber
  • Laggiù qualcuno mi ama
  • Mur
  • Roma, santa e dannata

MIGLIOR AUTORE DELLA FOTOGRAFIA

  • Davide Leone, C’è ancora domani
  • Ferran Paredes Rubio, Comandante
  • Paolo Carnera, Io capitano
  • Hélène Louvant, La chimera
  • Francesco Di Giacomo, Rapito

MIGLIOR COMPOSITORE

  • Subsonica, Adagio
  • Lele Marchitelli, C’è ancora domani
  • Franco Piersanti, Il sol dell’avvenire
  • Andrea Farri, Io capitano
  • Santi Pulvirenti, L’ultima notte di Amore

MIGLIOR CANZONE ORIGINALE

  • Adagio, Subsonica per Adagio
  • La vita com’è, Brunori Sas per Il più bel secolo della mia vita
  • Baby, Saydou Sarr per Io capitano
  • O DJ (Don’t Give Up), Liberato, Mixed By Erry
  • La mia terra, Diodato, Palazzina LAF

MIGLIOR SCENOGRAFIA

  • C’è ancora domani
  • Comandante
  • Io capitano
  • La chimera
  • Rapito

MIGLIORI COSTUMI

  • C’è ancora domani
  • Comandante
  • Io capitano
  • La chimera
  • Rapito

MIGLIOR TRUCCO

  • Adagio
  • C’è ancora domani
  • Comandante
  • Io capitano
  • Rapito

MIGLIOR ACCONCIATURA

  • C’è ancora domani
  • Comandante
  • Io capitano
  • La chimera
  • Rapito

MIGLIOR MONTAGGIO

  • C’è ancora domani
  • Io capitano
  • L’ultima notte di Amore
  • La chimera
  • Rapito

MIGLIOR SUONO

  • C’è ancora domani
  • Comandante
  • Il sol dell’avvenire
  • Io capitano
  • La chimera

MIGLIORI EFFETTI VISIVI VFX

DAVID GIOVANI

DAVID DELLO SPETTATORE

C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Assegnato al film italiano che ha totalizzato il maggior numero di presenze di spettatori calcolato entro il 28 febbraio 2023)

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Monkey Man, Dev Patel omaggia l’India e i grandi action movie nel suo debutto alla regia

Dev Patel, protagonista e regista di Monkey Man (2024)
Dev Patel, protagonista e regista di Monkey Man (2024). COurtesy of Universal Pictures

C’è stato un tempo in cui l’apice di ogni cult cinematografico prevedeva categoricamente una corsa a rallentatore del protagonista, in fuga da un’esplosione di portata catastrofica. Dev Patel deve essere sicuramente a conoscenza (e fan) di questo genere di espedienti narrativi, perché pur senza utilizzare la stessa tecnica ha fatto di tutto per ricrearne l’epicità nel suo debutto alla regia, Monkey Man, nelle sale italiane dal 4 aprile.

Monkey Man, la storia

Un ragazzo senza nome (si fa chiamare Bobby o soltanto Monkey Man), interpretato da Patel stesso, cerca vendetta per la brutale morte della madre e la distruzione del suo villaggio. Sfida quindi l’elite corrotta della megalopoli indiana in cui vive. Una trama ridotta all’osso, quella di Monkey Man, funzionale a ricostruire tutte le tappe fondamentali del viaggio dell’eroe: dal passato tragico fino alla alla sete di giustizia, passando anche per un classico momento di training montage stile Rocky ma soprattutto Disney, quello tra Hercules e il satiro Phil. Insomma, una serie di schemi chiari, definiti e ben riconoscibili per permettere allo spettatore di concentrarsi per poco meno di due ore solo ed unicamente su una sequenza visivamente infinita di pugni, calci, accoltellamenti e (tanta altra) violenza.

Un puro action movie 

Pur con qualche sfogo comico improvviso – che in parte omaggia il cinema di Jackie Chan e in parte lo si aspetta, con Jordan Peele in produzione, Monkey Man è un film action duro e puro, che evita giochetti psicologici o sotterfugi di trama alla Bourne Identity e si concentra solo su estenuanti combattimenti corpo a corpo (un sacco di botte) estremamente coreografici e creativi nell’esecuzione.

MONKEY MAN, directed by Dev Patel

Avvicinandosi molto a John Wick (citato, peraltro, anche nel film stesso e nella locandina), il debutto di Patel alla regia prende la coraggiosa strada del non voler davvero insegnare nulla, del non cercare di indorare la pillola con qualche morale di fondo o propinando il classico “perdona e dimentica”. Si concentra su una realtà (tanto del protagonista quanto dell’agglomerato sociale in cui si muove) colma di rabbia e insofferenza, abituata a prendere colpi su colpi aspettando solo il momento giusto per darli indietro, con tanto di interessi.

A questo è funzionale un uso specifico della macchina da presa da parte di Patel, soprattutto nelle scene di combattimento, dentro e fuori dal ring dell’Uomo scimmia: una macchina iper-mossa ma pienamente consapevole del cinema, sia indiano sia splatter, che l’ha preceduta.

L’India: sullo sfondo, dentro e intorno

La trama estremamente semplice lascia trasparire, comunque, un lavoro di ricerca particolare da parte di Dev Patel – che è autore anche del soggetto e della sceneggiatura – sul contesto del film. Pur trattandosi, infatti, di un’evidente produzione statunitense Monkey Man può vantare l’essere riuscito ad ambientare un action movie sullo sfondo della cultura indiana.

Lo stesso Monekey Man è una rappresentazione del dio Haruman, protettore del popolo. Se si prova a spostare l’attenzione dalla pioggia di denti e sangue che costituisce il film, tuttavia, gli aspetti più interessanti del film sono anche quelli meno sfruttati dalla sceneggiatura: dalle enormi disparità sociali accennate in cui è incastrata la società, tra ricchi sempre più ricchi e padroni di ogni cosa e poveri costretti a vivere ai margini, tasselli invisibili di un mosaico caotico e variegato.

Dev Patel in MONKEY MAN, directed by Dev Patel

Monkey Man, al contrario di Scappa Get Out (opera prima del produttore Peele), non sceglie però di percorrere la via politica. Nemmeno, o nel del tutto, quando emerge in maniera inaspettata e peculiare la presenza della subcultura degli hjra, composta da persone che in India si identificano come transgender o “terzo sesso”, storicamente relegate ai margini della società.

Una racconto che sorprende non solo perché amplia la visuale del pubblico occidentale ma perché offre anche un momento di distensione nel film, oltre che almeno un sorriso di fronte all’allenamento in stile Karate Kid impartito da questa comunità al protagonista.

Cosa aspettarsi da Monkey Man

Nonostante si una produzione Monkeypaw (Get Out, Noi, Nope, Lovecraft Country, Candyman), Monkey Man non è affatto un horror, è un revenge-action movie che non stravolge i criteri di ciò che consociamo come tale. Fa strano, forse, vedere che lo stesso ragazzino sensibile di The Millionaire, il teppistello di Skins e il risoluto orfano di Lion siano la stessa persona che ora è capace di scrivere e dirigere cruenti combattimenti a mani nude tra dozzine di killer, e farlo con stile. Una svolta che non avevamo visto arrivare ma che, in tutta onestà, forse aveva bisogno di questo grande ritorno sullo schermo. 

Illustrazione di Luca Vidali

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22° Korea Film Festival: due film per raccontare l’adolescenza

22° Korea Film Festival, Hail To hell
22° Korea Film Festival, Hail To hell

Fragili, testardi, inqueti, innamorati; questi sono gli adolescenti raccontati dai film del 22° Korea Film Festival. In programma a Firenze dal 21 al 30 marzo, il festival è stato ricco di nuove prospettive, cortometraggi, masterclass.

Fil rouge all’interno della proposta cinematografica della sezione Independent Korea, dedicata al mondo underground con i lavori di giovani registi del cinema indipendente, sono appunto gli adolescenti, eroi non capiti sballottati un vortice di eventi difficili da gestire e prigionieri di ingiustizie e violenze, all’interno di un sistema tutt’altro che indirizzato verso il loro benessere.

Due i lungometraggi proiettati che procedono distanti (nel genere) eppure paralleli nella narrazione di un’adolescenza in trappola che intende reagire alla vita che spesso li schiaccia con bullismo, solitudine, pregiudizio: Hail To hell di Lim Oh-jeong (2023) e No HeavenBut Love di Han Jay (2023). Entrambi presentati all’interno della sezione Independent Korea, rivolta alle giovani promesse, sono accomunati da una coppia di protagoniste, dal fantasma del suicidio come fine di qualsiasi sofferenza, e dalla speranza di potercela fare con le proprie forze.

Hail To hell di Lim Oh-jeong

Na-mi e Sun-woo sono due ragazze emarginate convinte che il suicidio sia l’unica soluzione alla loro quotidianità di soprusi, umiliazioni e degradanti tormenti da parte degli altri ragazzi. Provenienti da contesti economici e sociali differenti, sono accomunate però dal risentimento nei confronti di Chae-lin, che negli anni precedenti le ha bullizzate senza pietà. Ma perché togliersi la vita quando la popolare Chae-lin si gode la vita a Seul in una nuova scuola, lasciandosi indietro tutte le sue malefatte?

Non proprio amiche e caratterialmente agli antipodi, le due ragazze decidono di partire per vendicarsi una volta per tutte prima di dire addio al mondo, possibilmente svergognando la loro nemesi davanti ai suoi nuovi amici. Quello che troveranno sarà completamente diverso dalle aspettative: la bulla dal volto angelico frequenta non una scuola bensì una sorta di setta religiosa che promette il paradiso attribuendo punti ai bambini e i ragazzi che ne fanno parte.

Quella inquietante situazione le porta a riconsiderare i propri desideri, guardando Chae-lin in preda al pentimento (ma ancora manipolatrice e subdola) e l’ambiente surreale che la circonda l’unica cosa da fare è tornare a casa, fuggendo da flagellazioni e regole folli per trovare una nuova dimensione in cui esprimere la loro personalità.

Hail To hell è il primo lungometraggio di Lim Oh-jeong, regista nata nel 1982, e analizza la comprensione (non scontata) dell’altro quando tutto cade in pezzi. L’esperienza per punire Chae-lin avvicinerà Na-mi e Sun-woo, rendendole più consapevoli e adulte, ma soprattutto più forti. La violenza degli adulti ridimensiona immancabilmente quella dei loro coetanei, e le proietta in una realtà che le vede combattenti, e non rassegnate. Sempre con una grande dose di ironia.

22° Korea Film Festival. Hail To hell di Lim Oh-jeong.

No HeavenBut Love di Han Jay

Un tono completamente diverso è quello di No HeavenBut Love di Han Jay, regista coreana, classe 1987, che con questo secondo lungometraggio continua ad approfondire temi di discriminazione attraverso il racconto della comunità LGBTQIA+. Anche qui due ragazze si trovano casualmente ad incrociare le loro vite: sono Joo-young, atleta leale e timida, e Ye-ji, ragazza che dal riformatorio viene accolta in casa della prima per un mese. Tra le due nascerà prima un’amicizia e poi un amore romantico e tenero, che le salverà dalle difficoltà che incontreranno sul loro cammino.

Il film, ambientato nella Corea del 1999, mette in scena la sopraffazione maschile in ambito sportivo e scolastico, che sfrutta la violenza per punire e sottomettere. Joo-young è un’atleta di taekwondo che abbandona lo sport dopo una serie di ingiustizie compiute dal suo allenatore. Ancora non sa che l’intera squadra è soggiogata dal comando dell’uomo, che non solo utilizza punizioni corporali sulle sue atlete, ma si approfitta anche di alcune di loro.

La torbida epopea in cui le due si troveranno immerse sembra un incubo dal quale è impossibile uscire illese, ma peggio dei lividi e del sangue c’è la possibilità negata di vivere una relazione normale, quella che le ragazze sognano. Il primo amore descritto da Han Jay è delicato e vulnerabile, e al tempo stesso inscalfibile.

22° Korea Film Festival. No HeavenBut Love di Han Jay

La fragilità delle quattro protagoniste si dissolve quando l’amicizia e l’amore diventano strumenti con i quali ergersi contro ciò che le ostacola. La leggerezza risulta necessaria per rappresentare un’adolescenza inquieta, mentre il femminile arricchisce la percezione di una sopravvivenza colma di difficoltà, in una società che nel 1999 come oggi, rimane patriarcale.

Il 22° Korea Film Festival ci porta verso orizzonti inaspettati dove assaporare tutte le sfumature di una vita da liceale in cui si può fare affidamento solo sui propri compagni di viaggio, o compagne in questo caso.

Per scoprire il programma completo visita il sito ufficiale del Florence Korea Film Fest 2024.

La montagna lucente di Herzog torna in versione restaurata al Trento Film Festival

© 1984 Werner Herzog Film GmbH. Tutti i diritti riservati.
La montagna lucente © 1984 Werner Herzog Film GmbH. Tutti i diritti riservati.

La montagna lucente (Gasherbrum – Der leuchtende Berg): 1984- 2024. L’impresa di Messner e Kammerlander sul Gasherbrum I e II  torna sul grande schermo al Trento Film Festival.

Estate 1984: Reinhold Messner e Hans Kammerlander sono impegnati in una delle più grandi imprese dell’alpinismo himalayano mai tentate fino ad allora: concatenare due Ottomila, il Gasherbrum I e il Gasherbrum II, in puro stile alpino, senza ossigeno, senza supporti esterni. Con loro c’è Werner Herzog, impegnato a girare un documentario su quella spedizione, destinata a portare l’alpinismo in una nuova era.

Nasce così La montagna lucente (Gasherbrum – Der leuchtende Berg), un intenso e modernissimo documentario che documenta le fasi di avvicinamento, la permanenza al campo base, la partenza per le vette, il ritorno e le fasi immediatamente successive, mettendo a fuoco non tanto l’aspetto prestazionale e tecnico, quanto la psicologia dei due protagonisti.

La versione restaurata dell’edizione italiana del documentario di Werner Herzog verrà proiettata venerdì 3 maggio al Teatro Sociale alla presenza del protagonista, Reinhold Messner: una serata evento in collaborazione con Enervit, VIGGO e Werner Herzog Film, a quarant’anni dall’impresa e dall’uscita del film.

Il restauro dell’edizione italiana, curata nel 1984 da Reinhold Messner, è stato realizzato da Piero Crispino presso il laboratorio Artech Digital Cinema Srl, grazie alla collaborazione tra Enervit – che partecipò alla spedizione come sponsor tecnico e scientifico – con VIGGO Srl, Werner Herzog Film GmbH e Reinhold Messner.

 © 1984 Werner Herzog Film GmbH. Tutti i diritti riservati.

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Cowboy Carter è arrivato ed è un trionfo per Beyoncé

La cover di Cowboy Carter, Act II di Beyoncé
La cover di Cowboy Carter, Act II di Beyoncé

Si parla di Cowboy Carter già da quando Beyoncé ha iniziato a presentarsi a tutti gli eventi pubblici con una lunga parrucca color platino e l’inconfondibile cappello da mandriano. Ma insomma, adesso che è finalmente uscito, com’è questo debutto di Queen Bey nella musica country?

In una parola, trionfale. Se volete sapere di più, continuate a leggere.

Cos’è Cowboy Carter

Cowboy Carter è l’ottavo album da solista di Beyoncé. Il titolo esatto è Act II – Cowboy Carter, poiché fa parte di un progetto più ampio di rivendicazione dei generi da parte dell’artista. Segue infatti l’Act I – Renaissance del 2022 in cui Beyoncé ha rielaborato i codici della musica disco e dance. Probabilmente ci sarà un terzo e ultimo atto che secondo i fan dovrebbe “riprendersi” il rock’n’roll per riportarlo dentro la tradizione musicale afroamericana (e quindi scalfire, una volta in più, il mito di Elvis).

Beyoncé ha annunciato ufficialmente l’album durante il Super Bowl di febbraio 2024, insieme a due singoli: 16 Carriages e Texas Hold ‘Em. Con quest’ultimo, è stata la prima donna nera a raggiungere per due settimane consecutive la prima posizione della classifica Hot Country Songs di Billboard. Il singolo ha inoltre superato i 270 milioni di stream e ha raggiunto la prima posizione della classifica globale di Apple Music e di Spotify, la Top 10 della classifica globale di Shazam, la Top 10 della classifica italiana di Shazam, la Top 10 dell’Airplay radiofonico Europeo e la Top 10 dell’Airplay radiofonico italiano.

L’album contiene 27 tracce, alcune delle quali sono intermezzi che coinvolgono grandi nomi del country, da Dolly Parton a Willie Nelson.

Perché Beyoncé ha voluto un album country

Per capire cosa ha spinto Beyoncé a correre il rischio commerciale (non qualitativo, si intende) di un album country è necessario tornare al 2016, quando il singolo Daddy Lessons, estratto dall’album Lemonade fu aspramente criticato dopo una performance ai Country Music Association Awards. Non era la canzone in sé che il pubblico non accettava, ma il fatto che fosse cantata dal vivo da un’artista considerata estranea al genere, troppo pop, oltre che afroamericana.

Il genere country, nonostante la sua storia, è stato progressivamente adottato dalla fascia più conservatrice dell’America bianca, tradendo le sue stesse radici. Quello che fa Beyoncé, appunto, da nera texana, è riprendersi ciò che le appartiene musicalmente.

«Ci sono voluti 5 anni per preparare questo album. È nato da un’esperienza che ho avuto anni fa, in cui non mi sono sentita ben accolta… ed era molto chiaro che non lo ero. Ma, a causa di quell’esperienza, ho fatto una ricerca più approfondita sulla storia della musica country e ho studiato il nostro ricco archivio musicale. È bello vedere come la musica possa unire così tante persone in tutto il mondo, mentre amplifica le voci di alcune persone che hanno dedicato così tanto della loro vita all’educazione sulla nostra storia musicale. Le critiche che ho affrontato quando mi sono approcciata per la prima volta a questo genere mi hanno costretta a superare i limiti che mi erano stati imposti. Act II è il risultato della sfida che mi sono lanciata, e del tempo che ho dedicato a mescolare i generi per creare questo lavoro».

Beyoncé nella sua dichiarazione ufficiale

Una breve storia della Black Country Music e la Yeehaw Agenda

Beyoncé, naturalmente, non ha inventato nulla. Ha rielaborato qualcosa che esiste da sempre, da quando gli schiavi africani portarono nelle piantagioni un strumento come l’akonting, diventato poi il banjo del country e ancora prima dei “minstrel show“. Furono proprio gli spettacoli dei menestrelli a introdurre l’uso del banjo tra gli statunitensi bianchi che inserirono lo strumento nella musica hillbilly, commercializzata poi come musica country dopo la prima guerra mondiale. Progressivamente, l’eredità dei musicisti neri nel country è stata cancellata, ma per esempio si ricorda ancora il chitarrista Leslie Riddle come l’inventore della tecnica del “fingerpicking”, suono caratteristico delle corde del country.

Negli anni Sessanta e Settanta Charley Pride è stato il primo artista nero ad avere un singolo country al numero uno della classifica nazionale, anche se vittima di pregiudizi e discriminazioni, al punto che solo nel 2000 è stato inserito nella Hall of Fame della musica country.

L’esperimento del 2016 di Beyoncé ha quindi contribuito a “risvegliare” l’orgoglio della tradizione country afroamericana, al punto che oggi ha assunto anche un nome, la “Yeehaw Agenda“, che indica rivendicazione della cultura dei cowboy afroamericani attraverso la musica, il cinema e la moda. E di esempi se ne sono visti diversi, dal singolo rap country di Lil Nas X, Old Town Road, a film come The Harder They Fall, fino a una delle recenti collezioni di Louis Vuitton ideata da Pharrell Williams.

Dolly Parton, Miley Cyrus & Co: l’importanza del ft. in Cowboy Carter

Non che Beyoncé ne abbia bisogno, ma la presenza di importanti icone della musica country in un certo senso legittima la validità del progetto discografico. La presenza di Dolly Parton è un vero endorsement, se non una dichiarazione incondizionata di stima. La cantante appare in un breve intermezzo, intitolato proprio Dolly P, che serve da introduzione alla cover della celebre Jolene.

Una cover che prima di tutto riattualizza il testo, trasformandolo non solo in qualcosa di coerente con il personaggio di Beyoncé stessa, ma più vicino anche alla sensibilità moderna della donna. Non c’è più nessuna Jolene da implorare, nessuna Jolene troppo bella a cui chiedere di non rovinare una famiglia, solo un incontro alla pari fra due donne rivali in amore.

E se purtroppo i fan che aspettavano un sequel di Telephone con Lady Gaga sono riamasti delusi, i ft. non mancano. La voce di Post Malone si lega benissimo alle melodie di LEVII’S JEANS e sorprende anche Shaboozey che trascina il country dell’album verso un’inaspettata (e notevole) traccia trap, SPAGHETTII. Come viene detto all’inizio del brano, in effetti, il genere è solo una costruzione.

La collaborazione più bella, tuttavia, è il duetto perfettamente alla pari tra Bey e Miley Cyrus in II MOST WANTED. Le loro voci si fondono in una dichiarazione d’amore che è prima di tutto un modo per dare spazio alle doti di entrambe nel canto.

Cowboy Carter, in breve

Beyoncé apre Cowboy Carter con la fine, con un requiem (AMERIICAN REQUIEM) e lo chiude con una preghiera (AMEN). In mezzo sviluppa il suo discorso, fatto sì di simboli profondi della pancia degli Stati Uniti, ma rielaborati dal suo punto di vista.

Musicalmente protagonista è la sua voce, persa forse in Renaissance a favore delle basi dance. Nel bellissimo brano DAUGHTER arriva a cantare anche un’aria lirica settecentesca in italiano, Caro mio Ben (di Tommaso Giordani), giusto per mettere in chiaro che sa fare tutto e che può fare tutto.

A fare da cornice al suo canto sono soprattutto le corde. Chitarre, giri di basso e banjo danno identità ai brani in un set strumentale prevalentemente acustico, anche nelle percussioni. Il risultato, come detto, è semplicemente trionfale.

Non vi resta che (ri)ascoltarlo. Enjoy!

V.V.

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Coincidenze d’amore, un lontano ricordo di Meg Ryan

Coincidenze d'amore (What Happens Later), regia di Meg Ryan
Coincidenze d'amore (What Happens Later), regia di Meg Ryan. Courtesy of Universal Pictures

L’esperienza insegna che niente attiri di più lo spettatore classico delle rom-com che due semplici elementi: il cliché degli ex che si incontrano dopo tanto tempo e la presenza di Meg Ryan.

Date le premesse, dunque, il film Coincidenze d’amore (What Happens Later, in sala dall’11 aprile) dovrebbe avere tutte le carte in regola per essere un nuovo cult del cinema romantico. Inutile dire, però, che non è così.

Coincidenze d’amore, la trama

Bloccati in un aeroporto di qualche cittadina americana non definita, a causa di una tempesta di neve, i due ex fidanzati omonimi W. Davis (Wilhelmina e William, rispettivamente interpretati da Meg Ryan e da David Duchovny) si rincontrano dopo 25 anni. Costretti a passare del tempo (molto tempo) insieme, hanno dunque l’occasione per confrontarsi sul tempo passato, lo stato attuale della propria vita, le occasioni mancate e il grande legame che li ha sempre uniti.

Un archetipo duro a morire e condotto unicamente a due voci (Ryan e Duchovny), se si ignora lo scenario di un aeroporto quasi senziente, un po’ la fata madrina di questi due innamorati uniti dal destino (o come lo si voglia chiamare).

Non la Meg Ryan che ci si aspetta

Basato sulla commedia teatrale Shooting Star (di Steven Dietz), il secondo lavoro registico di Meg Ryan si pone come un attentato al fulgido ricordo da stella delle commedie romantiche che Ryan rappresenta nei cuori di un po’ tutti noi.

Dimenticatevi Harry ti presento Sally e C’è posta per te, dove ogni attimo di visione era un tuffo al cuore o una dolce risata: Meg Ryan nei panni di Willa diventa la caricatura di se stessa, una macchietta new age che gioca a fare il personaggio femminile troppo sopra le righe per essere domato. Uno stereotipo da romanzo rosa che rimane bidimensionale, incapace di animarsi di quella scintilla di umanità e vitalità che tanto ci aveva fatto amare le altre donne di cui aveva vestito i panni in passato (Nora Ephron, ci manchi tanto).

Sembra evidente, infatti, che la grande mancanza di questo film non siano le persone o il grande budget (la carenza di scenografia e comparse non fa che rafforzare la sensazione di “opera teatrale trasposta in film”), ma la povertà di scrittura che c’è alle spalle di questo lavoro, come se lo sceneggiatore fosse stato sostituito da un generatore automatico di stati Facebook (e che non funziona neanche tanto bene).

Il luogo comune sprecato

Se determinati luoghi comuni da rom-com sono diventati tali è perché, evidentemente, funzionano e ognuno di noi potrebbe agevolmente pensare ad almeno 3 o 4 situazioni assolutamente improbabili (se non impossibili) nella vita vera, che però in un film di questo tipo farebbero un po’ sciogliere il cuore.

Nessuno vuole privarci della bellezza di questi momenti, del guilty-pleasure di sognare a occhi aperti, ma, a maggior ragione, è importante anche non prendere in giro il pubblico. Coincidenze d’amore si pone come un film di serie B della programmazione Netflix, che non riesce a generare alcuna emozione, se non una leggera noia e un incentivo alla distrazione. Ogni frase, ogni espediente, ogni sguardo tra i due non solo appare come completamente costruito a tavolino (anzi, ad algoritmo), ma anche completamente monotono e finto, una sequenza di frasette e motti messi insieme per piacere soprattutto ai boomer e, purtroppo, senza una particolare intelligenza. 

In breve

L’occasione di usare un’icona come Meg Ryan e di farle parlare di cosa voglia dire ritrovare la persona amata dopo tanto tempo viene, dunque, completamente sprecata e anche maltrattata, soprattutto in un panorama cinematografico in cui il tema del “What if” sentimentale sta avendo una nuova età dell’oro.

Basti pensare, per esempio, al recente candidato Oscar Past Lives, un gioiellino poetico e dolce che riesce non solo a dare una visione fresca e sottile dell’amore, ma anche usarlo come espediente per parlare di altro, di tutto quello che compone i mondi delle persone innamorate. Qui questo passo non è possibile, come non è possibile neanche credere davvero all’amore che viene tanto professato. Il che è un grande fallimento per tutti.

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Il teorema di Margherita, combattere la dinamica tossica del fallimento

Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), Wanted Cinema
Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), Wanted Cinema

Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), diretto da Anna Novion, è la storia di Marguerite, una brillante studentessa di matematica presso l’École Normale Supérieure di Parigi. Il film è stato presentato al Festival di Cannes 2023 e ha ottenuto due candidature ai César (nonché vinto il premio per la miglior attrice esordiente), e sarà nei cinema italiani dal 28 marzo distribuito da Wanted Cinema.

La trama

Marguerite, interpretata sapientemente da Anna Rumpf, che ha trionfato ai César Awards 2024 come Miglior rivelazione femminile, ha consacrato la sua vita agli studi. Fin da bambina, ha sempre mostrato una passione innata per la matematica, tanto da aiutare sua madre, anche lei docente della materia, a correggere i compiti della classe. 

“Matematica divina Matematica”, per certi è una tavola di colori, per altri è uno di quei cruciverba senza i quadrati neri, per Marguerite la matematica è un’autostrada, un tunnel in cui cammina, ragiona, elabora il pensiero. Il film inizia in medias res: la ragazza ha 25 anni quando sta per terminare i suoi studi di dottorato all’E.N.S di Parigi, sotto la guida del professor Laurent Werner (Jean-Pierre Darroussin), il relatore che crederà sempre nelle sue potenzialità, pur mostrandosi in alcuni momenti molto freddo con lei. 

Per raggiungere la laurea e l’agognata fama, Marguerite deve però affrontare l’ultimo step: risolvere il Teorema di Szemerédi, applicabile alle progressioni aritmetiche nei sottoinsiemi dei numeri interi. Il giorno dell’esame finale però, avviene quello che è il più grande incubo per un esaminando: si blocca e fa scena muta. Lei, così determinata per quella prova, ad un certo punto smarrisce le parole e la soluzione alla dimostrazione del teorema sembra svanire nel nulla.

I passaggi matematici non la riportano sulla giusta strada e dopo un crollo psicologico decide di abbandonare l’aula e di lì a poco anche l’università. 

Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), Wanted Cinema

Cambio di rotta?

Seppur il professor Werner la inviti espressamente a ritentare la riformulazione del calcolo da lì a un anno, Marguerite, fin troppo emotiva (e si sa la matematica non ha bisogno di sentimenti) tergiversa. Il dado è ormai tratto e la protagonista di questa storia decide così di abbandonare la facoltà ripiegando con lavori di tutti i tipi, tentando di occupare e distrarre la mente turbata e angosciata dal ricordo del fallimento universitario (che poi, cos’è davvero definibile un fallimento?).

Durante questo periodo di down, Marguerite conosce Noa (Sonia Bonny), una ballerina che le offre un posto letto per andare a vivere insieme in un’altra zona della Capitale. Proprio qui, in questa nuova casa, busseranno di nuovo alla sua porta la logica, il conteggio, i numeri; nel condominio dove si è appena trasferita alcuni inquilini sono soliti ritrovarsi per giocare a Mahjong, un gioco basato sulle combinazioni. La ragazza di certo non vuole farsi sfuggire un’occasione come questa: intende vincere al gioco d’azzardo grazie al suo acume matematico, che le permetterà poi di saldare il rimborso della borsa di studio fino a pagare l’affitto per tutte le coinquiline della casa. 

Il Teorema di Margherita (Le Théorème de Marguerite), Wanted Cinema

Marguerite “liberata”

Lontana dal contesto universitario, Marguerite si libererà dagli schemi abituali, trasformandosi da studentessa timida e solitaria in una versione meno assorta e più attiva di sé stessa. Inizia a concedersi piccoli spazi di leggerezza, prova a lasciarsi andare nelle relazioni riscoprendo, ad esempio, la sua vita sessuale, fino a quel momento messa in un angolo. In questo periodo uscirà un po’ fuori dai suoi schemi, distaccandosi da quello studio matto e disperatissimo.

Un giorno, ascoltando la radio, scopre che il suo relatore è riuscito a risolvere il famoso teorema che le ha causato il distacco dall’università. Marguerite, mossa da un forte senso di rivalsa, torna così sui suoi passi, imbattendosi in una nuova impresa ancora più ardua, la risoluzione alla congettura di Goldbach. Ma non farà tutto da sola, al suo fianco ci sarà Lucas (Julien Frison), ex collega di dottorato.

E quando problema si fa più imponente, per trovargli una soluzione c’è bisogno di una lavagna più grande: vetri, pareti dipinte di nero, carta igienica, ogni angolo della casa diventa un supporto per la trascrizione dei numeri (donandoci la sequenza più suggestiva di tutto il film). Il film di Novion non cede un attimo all’irregolarità, tutto funziona con meticolosità, fino alla conclusione, e forse proprio questa ricerca ossessiva della precisione “matematica” anche nella narrativa tende ad annoiare.

Ma al di là di questo Il Teorema di Margherita lascia ai suoi spettatori un grande spunto di riflessione sulla dinamica tossica e avvilente del “fallimento”, che si insinua tra le cattedre universitarie, e sulla passione viscerale come ostinata voglia di continuare ad insistere, provare, riuscire.

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Centro Sperimentale di Cinematografia: Sergio Castellitto e il suo programma

Sergio Castellitto, Foto di Francesco Morra
Sergio Castellitto, Foto di Francesco Morra

Da ottobre 2023 Presidente del Consiglio d’Amministrazione della Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Sergio Castellitto ha presentato ieri le principali linee del suo programma: la ristrutturazione dei teatri interni è una priorità, ma non solo, annuncia nuove pubblicazioni di cinema co-edite dal Centro Sperimentale di Cinematografia e la futura introduzione di due master di alto livello, ovviamente portando avanti anche la fondamentale attività di restauro dei film.

Libertà e indipendenza prerequisiti fondamentali per la nuova direzione

Il nuovo Presidente Sergio Castellitto ha accettato la sua carica ad ottobre stabilendo condizioni di totale libertà e indipendenza, in un’ottica di appartenenza solo al suo percorso e alla sua storia, accettando di portare avanti questa esperienza con la medesima attitudine che ha sempre avuto nella lavorazione di un suo film: cercando di avere un rapporto forte e preciso con quelli che nel Centro Sperimentale vengono chiamati dipartimenti ma che lui identifica come veri e propri reparti.

A chi mi ha proposto di assumere questo incarico ho detto che lo avrei fatto solo a condizione di totale libertà e indipendenza, essendo io un uomo che non è mai appartenuto a nessuno se non alla mia storia

Sergio Castellitto

Il suo arrivo si inserisce prima della fine del compimento del percorso dello scorso consiglio d’amministrazione; quello attuale, nominato dal governo, è composto da Castellitto, Giancarlo Giannini, Pupi Avati, Andrea Minuz, Cristiana Massaro, Santino Vincenzo Mannino e Mauro Carlo Campiotti.

Fermo nel portare avanti una dimensione collegiale, e sostenuto da un consiglio d’amministrazione che definisce militante in quanto composto da professionisti che non hanno paura di scendere in campo, Castellitto ritrova nel CSC molti dei docenti e dei direttori artistici con cui in passato ha condiviso il suo lavoro, ed espone le idee e le iniziative che caratterizzeranno il nuovo programma, anche riguardo a a ciò che è stato lasciato in sospeso.

Soprattutto, l’attore, regista e sceneggiatore romano, esprime la centralità del capitale che risiede nel Centro Sperimentale di Cinematografia, quello umano come gli studenti, e quello che comprende i molteplici titoli della Cineteca Nazionale e le pubblicazioni della Biblioteca Luigi Chiarini, che accoglie la maggiore collezione cartacea di argomento cinematografico esistente in Italia e che è tra le più grandi in Europa per quanto riguarda le opere dedicate alla storia del cinema e alla sua comunicazione.

Proprio con gli studenti (attualmente 255 a Roma), che la scorsa estate avevano occupato il CSC per protesta contro l’emendamento governativo, Castellitto si vuole confrontare: organizzare un’assemblea con loro è stato il primo passo dopo la sua nomina, sottolineando l’importanza della loro partecipazione ai consigli didattici.

Una prospettiva di apertura per il Centro Sperimentale di Cinematografia

Molte le iniziative annunciate, prima fra tutte quella della Diaspora degli artisti in guerra: con tre giorni, dal 19 al 21 giugno, dedicati agli incontri con registi, autori e interpreti provenienti dalle aree di guerra del mondo, all’interno del CSC, per confrontarsi nel dialogo delle proprie realtà attraverso il loro lavoro.

Questi tre giorni rientrano in un discorso molto più ampio di apertura verso l’esterno, “rompendo la cupola del convento“, come dice Castellitto. All’interno di una dimensione di allarme non soltanto sociale o politico, ma anche psicologico, dovuto a due guerre in corso che influenzano la nostra vita sociale ma anche quella interiore, è emozionante la possibilità di far sì che il Centro apra le sue porte facendosi casa, per ospitare cineasti, artisti, studenti scrittori, musicisti. Tra gli obiettivi finali ci sarà la realizzazione di un film-testimonianza sulle tre giornate di incontro che sarà realizzato direttamente dagli allievi.

Sono previsti anche due master di alto livello, uno organizzato con Minimum Fax incentrato sulla scrittura creativa, e un altro in collaborazione con Anica Academy dedicato al Management dello spettacolo. In più il Presidente conferma il proseguimento delle due iniziative, già sperimentate negli anni precedenti, delle rassegne estive Quo Vadis ed Effetto notte. È prevista la partecipazione ai più rinomati Festival internazionali con restauri inediti a cura del CSC–Cineteca Nazionale (tra quelli in corso c’è Ecce bombo di Nanni Moretti) e l’accordo con la Cinémathèque française per la realizzazione di retrospettive prestigiose.

Tra le linee programmatiche anche la volontà di far diventare la nuova sede regionale del CSC in Veneto, sull’Isola di San Servolo, un polo decisivo del CSC–Scuola Nazionale di Cinema–attualmente nella sede romana sono tenuti 11 corsi triennali e si aggiungono i 4 nelle sedi CSC–Piemonte, CSC–Lombardia, CSC–Abruzzo e CSC–Sicilia.

Per quanto riguarda la riapertura del Cinema Fiamma è in corso una vicenda estremamente complessa sia dal punto di vista tecnico che burocratico riguardo l’investimento che non poteva essere ascritto al PNRR.

Un punto di (ri)partenza

Lanciato verso la prospettiva di un proprio percorso didattico, Sergio Castellitto non nega di aver voglia di confrontarsi con le studentesse e gli studenti del Centro Sperimentale anche da un’altra prospettiva, magari insegnando in futuro in un “un piccolo corso interdisciplinare, fra regia, scrittura e recitazione”.

Soprattutto ci tiene a ribadire, con fermezza ed ironia, che non intende morire manager, e che questa opportunità non preclude il resto della sua carriera di regista e attore.

Foto di Francesco Morra

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Da Priscilla a Civil War: chi è Cailee Spaeny

Cailee Spaeny in Civil War (sinistra) e Priscilla (destra)
Cailee Spaeny in Civil War (sinistra) e Priscilla (destra). Courtesy of A24/01 Distribution; Vision Distribution

Quando alla Mostra del Cinema di Venezia, lo scorso settembre, Cailee Spaeny si è presentata sul red carpet di chiusura, più di un sopracciglio si è alzato in segno di sorpresa e, forse, anche di incredulità snob. Chi è la ragazzina che porta a casa la Coppa Volpi senza essersi fatta ancora un nome nel mondo del cinema? È la domanda che si sono posti molti critici al Lido. Eppure.

Eppure Cailee Spaeny, classe 1998 e 26 anni ancora da compiere, non solo ha meritato ampiamente il riconoscimento per la sua interpretazione in Priscilla di Sofia Coppola, ma continua a incantare con una recitazione pulita, essenziale, fatta di sguardi e dettagli.

L’aiuta, molto, il suo viso trasformista: a tratti di bambina, a tratti di donna. Dolce ma deciso. Può essere tutto, basta che muova diversamente un muscolo, un sorriso.

Dove abbiamo visto Cailee Spaeny

Cailee Spaeny, nata in Tennessee e cresciuta in Missouri, lo “Show Me State” (come viene detto anche in Civil Dar di Alex Garland”), cuore dell’America rurale e pragmatica. Ha debuttato al cinema a 20 anni, nel 2018 con Pacific Rim: La rivolta e ancora prima in ambito musicale, con la pubblicazione del suo primo singolo nel 2016. Da allora è entrata nel cast di altri cinque film, da Una giusta causa e Vice – L’uomo nell’ombra fino a How it Ends.

La ricordiamo però soprattutto per un ruolo televisivo, quello della vittima in Omicidio a Easttown, con protagonista Kate Winslet. Come già accennato, il grande pubblico cinematografico, tuttavia, si accorge di Spaeny solo dopo il debutto al Lido di Venezia di Priscilla.

Priscilla, la scelta perfetta di Sofia Coppola

In Priscilla, Spaeny rappresenta pienamente l’ambivalenza di un personaggio in apparenza infantile e infantilizzato, che al suo interno vive un conflitto emotivo adulto e profondo. Diretta dallo sguardo delicato e deciso di Sofia Coppola, la sua interpretazione mette bene in evidenza il mondo e i sentimenti di una donna che cresce all’interno di una relazione senza equilibrio, orientata sempre dai desideri dell’uomo. E che uomo, Elvis in persona.

Courtesy of Vision Distribution

Con semplicità e con raffinatezza Spaney incarna invece i desideri e i sogni della ragazza che era Priscilla. Desideri e sogni autosufficienti che, proprio per questo, distruggono il mito di Elvis, anche da un punto di vista sessuale e sensuale. Con la sua “innocenza” e “purezza”, la Priscilla di Elvis era una bambola da non toccare, un surrogato della donna-madre, un’immagine senza corpo.

Spaney le ridà quel corpo, con o senza capelli cotonati, con o senza smalto e trucco pesante sugli occhi. Lo stesso trucco che era Elvis a volere su di lei. E si riprende lo spazio che le è sempre appartenuto, anche nella grammatica del film: primo piano dopo primo piano. Dettaglio dopo dettaglio.

Dove la vedremo: Civil War e Alien

Dopo Priscilla sono altri due in titoli con Cailee Spaeny annunciati e in uscita a breve. Il 18 aprile arriva al cinema con 01 distribution un altro film A24, Civil War di Alex Garland. Il 14 agosto, invece, sarò il turno di Alien: Romulus.

In Civil War Spaney recita accanto a un cast straordinario, da Kirsten Dunst e Jesse Plemons a Wagner Moura e Stephen McKinley Henderson. Riesce però a emergere come vera protagonista, in un arco narrativo sotterraneo che è quello del suo “romanzo di formazione”.

Civil War racconta infatti il viaggio di un gruppo di giornalisti verso la Casa Bianca durante una distopica guerra civile fra le Forze occidentali del Texas e della California contro il resto degli Stati Uniti. Un incubo, non difficile da immaginare, in cui non c’è un messaggio politico preciso o esplicito, se non il monito di una violenza imminente, pronta a esplodere dopo anni di polarizzazione della cultura e dell’opinione pubblica.

Courtesy of 01 Distribution

Spaney interpreta una giovanissima fotoreporter che vede in Lee (Dunst) un modello da seguire e per questo trova il modo di partire con la squadra verso D.C., andando incontro a un viaggio che cambierà per sempre il suo modo di vedere le cose. E il suo modo di imprimerle sulla pellicola del rullino. È un percorso di crescita, il suo, in cui i colpi di testa – a metà fra l’imprudenza e l’ingenuità – lasciano intravedere invece una donna lucida e capace, soprattutto in una situazione come quella raccontata nel film di Garland.

Anche in Alien: Romulus, in arrivo il 14 agosto, Cailee Spaeny è il primo nome del “call sheet”, ovvero la protagonista. L’horror-thriller di Fede Álvarez riporta alle origini il franchise Alien, configurandosi come un “midquel” fra l’Alien del 1979 e Aliens -Scontro finale del 1986. Spaney intrepreta Rain Carradine, che fa parte di un gruppo di giovani colonizzatori dello spazio, faccia a faccia con la forma di vita più terrificante dell’universo.

V.V.

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