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Chadwick Boseman, una stella che brillerà per sempre

Chadwick Boseman
"Chadwick Boseman" by Gage Skidmore - Licenza CC BY-SA 2.0.

È il 2020, fine estate, mentre il cinema tenta la sua ripartenza dopo mesi di incertezze e chiusure dovute alla pandemia di Covid-19, ecco che come un fulmine a ciel sereno arriva una notizia inaspettata e straziante. Il 28 agosto 2020 scompare Chadwick Boseman a causa di un grave male che lo affliggeva da ben quattro anni. È così che il mondo del cinema perde una delle stelle più promettenti e brillanti degli ultimi anni, un attore che non è stato un supereroe solo sullo schermo, ma ha dimostrato di esserlo soprattutto nella vita di tutti i giorni, con le sue azioni e con le sue parole che continuano a fare da guida a migliaia di persone nel mondo.

Gli inizi nel mondo del cinema

Nato il 29 novembre 1976 nella Carolina del Sud da una coppia di afroamericani, sviluppa il suo interesse verso il mondo della settima arte nella sua giovinezza e scrive la sua prima commedia teatrale, Crossroad, nel 1995, anno in cui verrà messa in scena per uno spettacolo scolastico. Decide così di perseguire una carriera all’interno del mondo del cinema iscrivendosi alla Howard University, storico black college, dove si laurea nel 2000 in regia. È proprio il mondo della Howard che gli dà l’opportunità di entrare in contatto con personalità dal calibro di Phylicia Rashad e Denzel Washington che insieme gli permettono di frequentare l’Oxford Summer Program della British American Drama Academy.

Dopo aver diretto e interpretato alcune produzioni teatrali, Chadwick Boseman inizia la carriera televisiva, anticamera del suo esordio cinematografico che arriva nel 2008 con il lungometraggio The Express di Gary Fleder. Nel 2013 arriva una delle tante svolte. Interpreta Jackie Robinson, leggenda del baseball, nel film 42-La vera storia di una leggenda americana, e da allora la sua carriera decolla. Nel 2014 interpreta James Brown in Get on Up e la sua performance viene elogiata da critica e pubblico. Energico e sicuro di sé, Boseman è sempre stato in grado di mettere anima e corpo in tutti suoi lavori, documentandosi e lavorando con coach e coreografi, dimostrando di avere determinazione e grinta da vendere.

Nel 2020 collabora per la prima volta con Spike Lee nel film Da 5 Bloods – Come fratelli e sempre nel 2020 arriva la sua performance postuma in Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe che viene da subito definita la migliore della sua carriera. È proprio per questo ruolo che nel 2021 si aggiudica il suo primo Golden Globe, uno Screen Actor Guild Award e un Critics’ Choice Award, oltre che un gran numero di candidature tra cui quella come Miglior Attore Protagonista agli Oscar.

Black Panther, Re T’Challa

Il 28 ottobre 2014 tutti gli sforzi di una vita sono premiati. Chadwick viene annunciato al mondo come T’Challa ossia Black Panther, Re del Wakanda e fa il suo formale ingresso all’interno del Marvel Cinematic Universe. Ma questo non è per lui un semplice ruolo. Si tratta infatti del primo supereroe nero di casa Marvel, una consacrazione per l’attore dopo una vita di impegni e sacrifici, che lo porta in poco tempo, a divenire fonte di ispirazione e ammirazione per tutte le persone che fino ad allora di rappresentazione al cinema ne avevano avuta pochissima, per non dire nulla.

T’Challa debutta al cinema nel 2016 nel film Captain America: Civil War di Anthony e Joe Russo e – nonostante la sua piccola parte – ottiene l’approvazione di pubblico e critica. Nel febbraio 2018, a distanza di due anni dal debutto, arriva al cinema Black Panther (qui la recensione). Solo movie dedicato interamente alla figura di T’Challa e a quella della sua terra, il Wakanda, e al suo popolo, il lungometraggio ha ottenuto innumerevoli premi tra cui: 3 statuette ai Premi Oscar 2019 (con 7 candidature), il National Board of Review, 4 Saturn Award, 1 BAFTA e 2 Screen Actors Guild Award. 

L’eredità di un Re

Chadwick Boseman non è stato solo un attore. È stato un vero e proprio artista che ha usato la sua passione per il cinema come veicolo essenziale per la riscoperta di valori importanti e cari alla comunità afroamericana, facendosi portavoce della lotta contro il razzismo e le ingiustizie, lasciando la sua impronta anche sul piano sociale. Sempre consapevole dell’impatto che Black Panther ha ottenuto sulla massa, nel 2018 dichiarò: «Le persone sono sempre desiderose di guardare qualcosa di nuovo e questa volta l’emozione è ancora più grande perché lo aspettavamo da tempo. È una grande opportunità per tutti».

Nonostante il cancro lo avesse colpito nel 2016, Chadwick Boseman non si è mai dato per vinto e ha continuato fino alla fine la sua missione – come la chiamava lui – ossia soddisfare le aspettative di tutte quelle persone che vedevano in lui un’icona e un modello a cui ispirarsi. Coraggioso, umile e sempre devoto verso il prossimo, degno di nota è il discorso pronunciato alla consegna dei diplomi alla Howard nel 2018 in cui affermò: «Non so quale sia il vostro futuro. Ma se decidete di prendere la strada più difficile, quella dove le sconfitte vengono prima dei successi, sarà anche quella con maggiori vittorie e non ve ne pentirete. Gli ostacoli che incontrerete durante il vostro cammino servono a plasmarvi per il vostro scopo»

Il suo impatto vive e continua a vivere, così come i suoi insegnamenti. Nel settembre del 2021 la Howard ha deciso di intitolare uno dei loro dipartimenti a suo nome, “Chadwick A. Boseman College of Fine Arts’’, dichiarando che «non c’è nessuno più meritevole di tale onore. Siamo davvero orgogliosi di te, ci manchi ogni giorno».

Il 9 novembre 2022, inoltre, arriverà nelle sale cinematografiche italiane Black Panther: Wakanda Forever che farà i conti con l’eredità di T’Challa. Il primo teaser trailer, rilasciato lo scorso 24 luglio, racconta già qualcosa dalla scelta della musica. Si snoda su una nuova versione della canzone No Woman, No Cry (portata al successo da Bob Marley) cantata da Tems che, arrangiata con Alright di Kendrick Lamar recita: «Mentre sono via, andrà tutto bene». Nonostante tutto, Chadwick Boseman vivrà per sempre.

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The Staircase | Colin Firth e Toni Collette protagonisti di una morte sospetta

The Staircase Emmys 2022

Otto lunghi episodi di una serie true crime, senza una vera risposta, sono la definizione di estenuante per il pubblico delle serie TV, eppure The Staircase di Antonio Campos fa una piccola eccezione. La storia è tratta da un vero delitto, per cui non può allontanarsi dalle verità fattuali e processuali dimostrate negli anni, però riesce a costruire un intelligente gioco di ambiguità che convince ad andare avanti, fino alla fine.

Il caso

Kathleen Peterson (interpretata da Toni Collette) viene trovata morta ai piedi delle scale di servizio in casa sua. Il corpo presenta numerose ferite alla testa, ma nessuna mortale. Il sangue intorno è così tanto che l’unica causa di morte accertabile è proprio il dissanguamento. Nonostante non venga trovata alcuna arma del delitto, la scena del crimine indica un omicidio e non un incidente domestico, così il marito Michael Peterson (Colin Firth) viene prima accusato e poi arrestato. Durante il processo tutto ciò che accade alla famiglia Peterson è documentato da un Premio Oscar francese, Jean-Xavier de Lestrade.

Esiste infatti – ed è disponibile su Netflix – la docu-serie originale di Lestrade con il materiale girato dal 2004 al 2018.

La struttura della serie

La narrazione non può avere, per la natura stessa dei fatti, una risoluzione lineare e univoca. Gran parte di ciò che viene rappresentato è la verità processuale, ossia ciò che l’accusa è stata in grado di dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio. C’è una sentenza (che arriva esattamente a metà serie) e ci sono le conseguenze di quella sentenza nella vita dei Peterson. In particolare, c’è un personaggio cruciale che cambia il racconto, quello della montatrice della docu-serie originale, Sophie Brunet, qui interpretata da Juliette Binoche.

Sophie ha in mano la struttura della trama, può plasmarla a suo piacimento e quel che decide di fare, complice anche l’innamoramento per la figura di Michael Peterson, è un montaggio di parte, una dichiarazione di innocenza che stride con la decisione del tribunale.

La serie HBO si focalizza su questo aspetto decisivo del caso, dando ampio spazio alle parole e alla presenza di Sophie nella storia.

L’ambiguità affascinante di The Staircase

Michael Peterson è una sfinge, un uomo capace di suscitare a tratti pietà a tratti ripugnanza senza mai farsi comprendere. Come sottolineato dai personaggi stessi che lo circondano, non si ha mai la certezza di quando sia sincero. La sua ambiguità, comunicata e messa in scena da un magnifico Colin Firth, è ciò che anima il vero interesse per questa serie. Accanto a lui, Toni Collette ne diventa la controparte perfetta, presente anche nella sua assenza, credibile in ogni ricostruzione del caso.

I due protagonisti, per questa splendida prova di recitazione, sono entrambi candidati agli Emmy Awards 2022.

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SKAM Italia: il 1° settembre su Netflix la quinta stagione

SKAM Italia. FRANCESCO ORMANDO/NETFLIX
SKAM Italia. FRANCESCO ORMANDO/NETFLIX

Netflix rilascia il trailer ufficiale e la locandina della quinta stagione di SKAM ITALIA, la serie cult prodotta da Cross Productions, che debutterà in Italia il 1° settembre 2022 solo su Netflix. 

Dopo il successo delle quattro stagioni precedenti, sia in Italia che all’estero, basate sull’omonimo show norvegese, SKAM ITALIA torna con una nuova stagione originale. Al centro della storia c’è Elia (Francesco Centorame), che fatica ad accettare la bocciatura alla maturità mentre i suoi amici hanno intrapreso il percorso universitario. Gli storici protagonisti saranno affiancati da un nuovo gruppo di personaggi femminili, incontrati da Elia a scuola, tra cui Viola (Lea Gavino) e Asia (Nicole Rossi), due studentesse impegnate nella rappresentanza d’istituto. Il supporto degli amici di sempre e le sue nuove conoscenze permetteranno a Elia di intraprendere un importante percorso di accettazione di sé stesso. I nuovi episodi saranno caratterizzati dal linguaggio attuale e privo di stereotipi che da sempre entusiasma il pubblico della serie. 

Accanto a Francesco Centorame (Elia) tornano Beatrice Bruschi (Sana), Federico Cesari (Martino), Giancarlo Commare (Edoardo), Rocco Fasano (Niccolò), Ibrahim Keshk (Rami), Martina Lelio (Federica), Ludovica Martino (Eva), Mehdi Meskar (Malik), Greta Ragusa (Silvia), Ludovico Tersigni (Giovanni), Pietro Turano (FIlippo) e Nicholas Zerbini (Luchino). Debuttano in questa stagione Lea Gavino (Viola) e Nicole Rossi (Asia).

La regia della quinta stagione, composta da 10 episodi, è affidata a Tiziano Russo, che riceve l’eredità da Ludovico Bessegato, che rimane però showrunner e autore insieme ad Alice Urciuolo.

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200 metri, Ameen Nayfeh (2020) | Recensione

200 metri recensione

Dopo il premio del Pubblico alle Giornate degli Autori al Festival di Venezia 77, 200 metri arriva in sala il 25 Agosto, distribuito da I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection.

Opera prima del regista Ameen Nayfeh, questo film si propone come apologia di resistenza, coraggio e dignità. 

Una narrazione che si muove su un unico territorio in perenne conflitto, diviso tra popolazioni israeliane e palestinesi, che forse non riusciranno mai a trovare un punto di incontro.

200 metri che separano affetti e speranze

Sono solo 200 metri, che in realtà sembrano 200 km, quelli che separano una coppia di coniugi, costretti a vivere divisi, a causa della barriera di separazione israeliana. Una famiglia odierna che va oltre le convinzioni retrograde, nella quale è la donna, di nome Salwa (Lana Zreik) a portare il denaro a casa, per sfamare i figli e il marito. Quest’ultimo è Mustafa (un magistrale Ali Suliman), uomo palestinese, che fatica nella ricerca di un lavoro, perché troppo orgoglioso per sottomettersi alle volontà dell’altra parte di “terra”. Per lavorare dovrebbe necessariamente acquisire la cittadinanza israeliana e questo, per lui, rappresenta una grave offesa verso le sue radici e la sua identità. Il suo onore però viene messo in discussione quando uno dei suoi figli viene portato in ospedale, a causa di un incidente. L’amore di un padre va oltre ogni senso di appartenenza e oltre ogni confine invalicabile, tanto da spingere il protagonista a intraprendere un viaggio clandestino, per sfuggire ai controlli di frontiera e riuscire a raggiungere il piccolo, dall’altra parte del muro.

La famiglia protagonista di 200 metri offre uno sguardo rispettoso sul disagio e sulle difficoltà della convivenza impossibile di due mondi separati da un muro non solo fisico ma intellettuale e culturale, che divide famiglie, speranze, affetti e dolori, ma che non riesce a fare ombra sui principi e sull’onore dei cittadini.

Il viaggio oltre il muro

Superando gli ostacoli fisici e ideologici, Mustafa si mette in viaggio per raggiungere l’ospedale dove si trova il figlio e raggirare la zona di confine, al di là del muro. Non avendo mai voluto acquisire la cittadinanza israeliana, è costretto a pagare un’ingente somma di denaro per intraprendere clandestinamente un viaggio che comporta rischi e pericoli.

Un viaggio duro, ma colmo di compassione. Un compatimento che colpisce indirettamente anche chi lo vive attraverso il grande schermo. Le avversità incrociate durante il percorso mettono in luce una realtà struggente, che ci viene raccontata dai media, dalla cronaca, ma non in modo esaustivo. Grazie alla regia di Ameen Nayfeh si comprende che il conflitto tra israeliani e palestinesi va ben oltre le armi ed il potere.

Quel muro trasuda sofferenza, distruzione psicologica, lacrime di bambini separati dai loro genitori. Un muro che gronda di lacerata umanità e di speranza consumata. Sono pochissimi gli spiragli di pace che trapassano le fessure di quei mattoni. È guerra disperata, forsennata, fomentata dall’intolleranza accecante, che calpesta incurante le vite di migliaia di cittadini.

La speranza, dietro il muro

200 metri può considerarsi una testimonianza sincera di amore verso la propria gente e la propria Terra. 

Una lode alla dignità e al rispetto verso le proprie radici, che conferiscono forza all’animo umano, nonostante l’odio e le lotte. 

E una speranza. L’auspicio che qualcosa, in un domani remoto, possa cambiare.

La speranza trasposta nella figura allegorica della luce, della lampada, usata ad intermittenza da Mustafa, per augurare la buonanotte alla moglie e ai figli. Una luce che comunica, rassicura e che supera senza timore quei 200 metri al di là del muro. 

200 metri di Ameen Nayfeh, dal 25 Agosto al cinema.

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Men di Alex Garland | Troppo retorico per spaventarci davvero

Men, A24, Vertice 360
Men, A24, Vertice 360

Da oggi in sala, Men, scritto e diretto da Alex Garland, è un film che dietro le forme dell’horror veicola un discorso più ampio, incredibilmente attuale, riducendolo però nel suo insieme a una lettura retorica attraverso mostruosità che perdono lentamente il loro potere spaventoso.

Sinossi

Harper Marlowe (Jessie Buckley) vuole dimenticare l’evento traumatico che continua a tormentarla: suo marito, James, è morto in seguito a quello che sembrerebbe un apparente suicidio. Fugge quindi da Londra per rilassarsi in una casa in affitto nel piccolo villaggio di Cotson. La villetta è splendida, vive di una bellezza antica che si respira nei colori delle mura e nell’arredamento tipico delle vecchie case di campagna.

Ad accoglierla c’è il proprietario, Geoffrey (Rory Kinnear), un individuo gentile e abbastanza peculiare che le strappa un sorriso, quando si ritroverà a descriverlo in videochiamata alla sua amica Riley (Gayle Rankin), preoccupata che la donna si trovi a quasi quattro ore di macchina dalla città totalmente isolata.

Cotson non ha molto da offrire: un bosco vicino a una ferrovia abbandonata, un pub, una chiesa e pochissimi abitanti. Ma è tutto ciò che Harper cerca e dal primo giorno perlustra la zona perdendosi nella natura, sotto alla pioggia, tra gli alberi fitti. Presto però si accorgerà che qualcuno la sta seguendo, un uomo, così simile a qualcuno che ha già incontrato. Così la distorsione della realtà inizia a trasformare quella fuga terapeutica.

Men, A24, Vertice 360

SPOILER

Quella prima “attenzione” non richiesta apre un susseguirsi di piccoli incidenti e sgradevoli confronti. L’uomo (nudo) che la stalkera proverà a entrare nella casa e sarà solo la prima delle intrusioni che Harper dovrà subire, effettive e psicologiche. Allo stesso modo il prete di Cotson tenterà di instillarle nella mente che il suicidio di suo marito potrebbe essere una conseguenza del suo comportamento. I continui flashback dell’accaduto rivelano che che i due erano già in crisi e che James, manipolandola, sfruttava la minaccia del suicidio per non farsi lasciare. Tutto prima di tirarle un pugno e farsi sbattere fuori di casa.

In più, a Cotson, a parte una poliziotta che tende a minimizzare l’accaduto dell’intruso in casa, ci sono solo uomini, tutti simili in modo disturbante. Tutti convinti che Harper stia facendo un po’ troppo rumore per nulla, dopotutto non è (ancora) successo niente di irreparabile.

L’approccio di Garland

Scandito da ispirazioni folkloristiche e religiose, Men è il racconto di una relazione tossica, consumata nella realtà tangibile di un appartamento londinese e poi reiterata aggressivamente nella memoria di Harper, che scappa dalla casa che condivideva con il suo compagno per una vacanza di due settimane nella campagna inglese. L’elaborazione di quel trauma avviene lentamente trascinandola in un incubo a occhi aperti dove diventa preda, oggetto del desiderio, entità subalterna, di una schiera di uomini, entità traslate dall’uomo dei suoi ricordi, il marito suicida.

L’approccio di Garland è una grande metafora orrorifica che spiega in maniera troppo retorica la contrapposizione mostrata. La femminilità, esausta e annichilita, cerca di ritrovare pace nell’ambiente naturale, luogo per eccellenza legato alla natura della donna, della madre. Intanto il maschile, fagocitante e spaventosamente insicuro, cerca di attrarla, manipolarla e distruggerla, da predatore.

Con evidenti ispirazioni al corpo disfatto e multiforme di David Cronenberg e alla scrittura stratificata di Charlie Kaufman (non solo la protagonista infatti mi ha ricordato le atmosfere di I’m Thinking of Ending Things), Alex Garland crea immagini incredibilmente appaganti ma poi si perde facendo sì che una narrazione promettente si riduca ad un contrasto bidimensionale.

Men, A24, Vertice 360

In breve

La retorica di Men ne preclude purtroppo un successo a tutto tondo. Il suo essere così grottescamente riuscito non è abbastanza per arrivare fino alla fine: attraversiamo chiaramente il livello dell’elaborazione del dramma personale di Harper (una bravissima Jessie Buckley), ma sfioriamo appena quello del rifiuto della colpa.

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NO ALPITOUR | La megalopoli padana di Gianni Celati

Gianni Celati

Più di tutto questo, ciò che sorprende è questo nuovo genere di campagna dove si respira un’aria di solitudine urbana

Gianni Celati, da Verso la foce, Reportage per un amico fotografo, testo incluso nel catalogo della mostra Viaggio in Italia, 1984, a cura di Luigi Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati con gli Appunti – Viaggio in Italia di Arturo Carlo Quintavalle

Nel novembre del 2008 si inaugurava a Ferrara, nell’acuminato Palazzo dei Diamanti, un’importante mostra di Joseph Mallord William Turner intitolata Turner e l’Italia che riuniva per la prima volta insieme le opere che il celebre paesaggista romantico aveva dedicato al Bel Paese. Il pittore della luce idealmente legato al paese della luce, l’Italia, aveva visitato l’Adriatico, meta insolita per un Grand Tour: verso Comacchio, Rimini e poi giù fino ad Ancona, per scivolare infine su Roma.

La luce di Turner si mostra negli sprazzi di colore più astratti e confusi. Volendola prendere come tramite per legarlo a Gianni Celati, ricorda anche la capacità di Luigi Ghirri di rarefare la parte più impalpabile e fissa dei paesaggi: l’immagine ultima, come la chiamava James Hillman. Quella che ferma l’azione e uccide la foga consumistica che trasforma l’immagine in merce. L’immagine che placa, che ottunde, che trasogna. L’immagine che assorbe – e restituisce – luce. Sarà Luigi Ghirri a invitare l’amico Celati a corredare di un suo scritto il catalogo della mostra Viaggio in Italia, seminale lavoro del 1984 che rifonderà la fotografia di paesaggio (e di viaggio) italiana.

Questione di sguardo

Gianni Celati (1937 – 2022) figura poliedrica di artista dedito a tutto quello che è minore (come a fine Settecento era considerata minore la pittura di paesaggi e in parte lo è ancora) come scrittore, come docente, come critico, come narrattore, come regista (e in un certo senso anche come traduttore), è stato omaggiato alla passata edizione del Biografilm Festival di Bologna (10-20 giugno 2022) con una retrospettiva dei suoi lavori da documentarista e i lavori registici di cui è stato narrattore, più alcuni frammenti filmici rari e inediti. Verrà inoltre nuovamente omaggiato ad ottobre nella rassegna, sempre bolognese, Archivio Aperto, che si occupa principalmente di riscoprire patrimoni cinematografici inediti tra filmati amatoriali, privati e sperimentali, valori descrittivi perfetti per le opere di Celati.

La rassegna è per altro organizzata da Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia che ne era ente amico. Celati, prototipo del viaggiatore residente, era infatti di casa a Bologna, dove ha insegnato per anni letteratura inglese alla facoltà del Dams, così come a Ferrara (dov’era nata sua madre), a Sondrio (dov’era nato lui) e a Scandiano di Reggio Emilia (dov’era nato l’amico Ghirri): tutti posti fuori mano e sperduti, meglio se in pianura, lungo la Strada provinciale delle anime.

In questo viaggio che abbiamo fatto non abbiamo visto nulla di speciale, però non mi è dispiaciuto. Abbiamo visto tanti posti, e dappertutto ci sono tante case come qui, e dappertutto c’è tanta gente come noi

Strada provinciale delle anime di e con Gianni Celati, 1991

Strada provinciale delle anime è il primo film documentario di Gianni Celati dopo gli esperimenti girati nel ‘77 coi suoi studenti del Dams ed è il resoconto filmico di un viaggio organizzato “alternativo” perché il pullman di trenta turisti – tra cui parenti, amici, e compatrioti ferraresi, scandianesi e roncocesiesi di Celati (e Ghirri che fotograferà tutto) non viaggerà che per visitare i paesini e i paesaggi spopolati lungo la foce a delta del Po.

La strada provinciale (attributo che viene usato per definire la gente semplice, ma che a livello topografico – per il codice della strada – indica quelle strade gestite dalle province o dalle città metropolitane) delle anime esiste davvero, ma “non porta a un cimitero” come supponeva sconsolato un amico turista di Ghirri. Viaggia lungo la nebbia e i reticoli di campi e cemento, e smog e diserbanti, e gente, del Po. E non porta da nessuna parte.

Più dell’inquinamento del Po, degli alberi malati, delle puzze industriali, dello stato di abbandono in cui volge tutto quanto non ha a che fare con il profitto, e infine d’un’edilizia fatta per domiciliati intercambiabili, senza patria né destinazione – più di tutto questo, ciò che sorprende è questo nuovo genere di campagne dove si respira un’aria di solitudine urbana

«Alla fine del viaggio c’era uno che si era ammalato, uno che si era innamorato, e uno che non voleva più tornare a casa. Allora siamo finiti in quella villa là […]. Di popolazioni invisibili l’una all’altra». Dice Celati, a inizio film, che ha percorso queste strade messe come a triangolo – seguendo il disegno del delta, delimitato dal mare – e illuminate dalla provinciale delle anime, durante l’inverno, ma voleva ripercorrerle in estate, con altre persone. E il documentario è il resoconto di questo viaggio estivo, non più in solitaria, ma “con altre persone”.

Un posto definitivo dove riposarsi – Spazio diffuso in ogni direzione

Il mondo di Luigi Ghirri di Gianni Celati, 1997, secondo lungometraggio di Gianni Celati è dedicato (come il primo) a Luigi Ghirri, l’amico scomparso improvvisamente nel 1992 poco dopo il completamento di Strada provinciale delle anime.

Il terzo lungometraggio di Gianni Celati è Case sparse. Visioni di case che crollano (2002), narrato dal critico d’arte inglese John Berger (1926-2017) che per decenni ha vissuto in un borgo sperduto sulle Alpi svizzere. Mi chiedo se forse il discrimine per capire se un posto è interessante è la percentuale di case vuote che possiede.

Ghirri, Celati, Berger e tutta la loro cerchia di viaggiatori residenti, viaggiatori immoderni.

Celati viveva da anni a Brighton, nel sud dell’Inghilterra, un’altra pianura vicino a un’altra costa, reticolato di un’altra megalopoli urbana, Londra.

Le opere di Celati, così come di tutti questi immoderni narratori di pianure come Ghirri, Cavazzoni, Benati, Sironi, lo scandianese Matteo Maria Boiardo o narratori di sguardi di pianura come John Berger, si mescolano all’altezza del 45° parallelo, che lega la Pianura Padana alla Mongolia. Chi conosce quantomeno la prima di esse sa che è popolata di persone genericamente definite “indiane” con una bonarietà dopotutto non razzista, che dicono di essersi trasferite qui perché “c’è lo stesso clima che da noi”, trovandosi entrambe intorno al 45° parallelo.

Il 45° parallelo

Sul 45° parallelo (1997) è il titolo del primo lungometraggio di Davide Ferrario di cui Gianni Celati è narrattore, sceneggiatore e protagonista, presentato anch’esso allo scorso Biografilm Festival. Protagonisti, insieme a Celati, altri viaggiatori immoderni come lui e come Ferrario con la sua troupe: Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, voce e chitarra del gruppo di “punk emiliano” CCCP che all’epoca del viaggio, per motivi strettamente storici, erano già CSI.

Una sua troupe li seguiva mentre Ferrario girava a Torino, con musiche dei CCCP e protagonista Valerio Mastandrea, Tutti giù per terra, dal romanzo di Giuseppe Culicchia, storia di un’altra solitudine urbana. Un reticolo di relazioni, amicizie, persone, cose, strade, tende, case. Tabula rasa elettrificata era l’album in questione dei CSI che contiene il brano Anime fiammeggianti, titolo di un film di Ferrario del 1994 con protagonista un altro narrattore solitario, Giuseppe Cederna.

E Ferrario intanto si sdoppiava tra Torino, una Mongolia virtuale e l’Emilia dove girava con Celati, che a differenza di Zamboni e Ferretti non era partito per la Mongolia (per una volta) ma era rimasto lì. Virtualmente è insieme a Giorgio Canali, seconda chitarra della band, annoiatissimo all’idea del viaggio: preferisce sorseggiare un drink ammollato in una piscina gonfiabile nel giardino della sua villa in rovina.

Reticolati di persone e di scelte.

Mondonuovo

Mondonuovo (2003) – dal nome di una frazione della provincia bolognese –  è il secondo lungometraggio che Davide Ferrario compone a partire dalla vita, dalle parole e dai gusti di Gianni Celati.

Celati narra il suo paese d’elezione, ripercorrendo i luoghi dove abitava la madre. Lo stile è il suo, nelle inquadrature, nel ritmo, nella pacata e ironica curiosità di indagare questo niente. E così ci si domanda: forse che Davide Ferrario ha girato Mondonuovo come lo avrebbe girato Celati? Certo, la narrazione filmica di Celati ha il grande pregio di non cambiare, forse persino di non evolvere, mentre Ferrario, da regista molto più prolifico, ha usato registri stilistici diversissimi tra loro e si è mosso agilmente tra finzione, documentario e film di montaggio.

In Mondonuovo come in Sul 45° parallelo si scorge una naturale convergenza su questo stile narrativo “emiliano” che anche Ferrario, nato a Casalmaggiore, in provincia di Cremona, utilizza da fautore, e in parte forse da vittima: come se certi luoghi potessero narrarsi solo così, o, come fa dire lui stesso in Dopo Mezzanotte (2004), a uno dei suoi personaggi: «forse sono i luoghi che raccontano le storie nel modo giusto». Battuta che assume maggior peso considerando anche che il film è girato all’interno del Museo del Cinema di Torino.

Questa convergenza emiliana che costringe a una narrazione celatiana, dilatata e cadenzata (musicalmente un liscio, anche se Celati non li usa quasi mai), inerziale, costante, come di qualcosa che deve muoversi lungo strade di pianura, senza l’attrito della salita, senza l’impeto della discesa, senza la costrizione di entrambe.

Anche in Mondonuovo ci si muove lungo il 45° parallelo che riaffiora come benevola ossessione quando si attraversa un altro territorio che ne è delimitato, come nella Romania de La strada di Levi (2005), documentario in cui Ferrario ripercorre i luoghi del ritorno a casa di Primo Levi da Auschwitz, narrati dallo scrittore ne La tregua.

Vediamo pianure inframezzate da brutte case e da brutte fabbriche, in uno squallore depresso (sotto il livello del mare) e asfissiante.

Lo scenario desolante, grigio, nebbioso del 45° parallelo diviene quello delle imprese italiane delocalizzate in Romania perché – dice il manager italiano esule o predatore: «nuovo millennio [vuol dire] nuovo orizzonte» ma l’orizzonte è pressoché invisibile, carico com’è di fumate tossiche possibili grazie a una pesante deregulation made in ex Urss. Americanizzazione totale.

La Romania come la Pianura Padana è costellata di campi coltivati e di petrolchimici.

E le schitarrate pesanti dei CSI sono molto meno rizomatiche e liberatorie delle urla mischiate alle batterie elettroniche dei CCCP. Segno dei tempi.

Questo paesaggio ti fa sentire quanto è ristretto un orizzonte, ogni orizzonte

Diol Kadd, 2007

L’ultimo documentario di Gianni Celati è l’unico a sfuggire, geograficamente, a questa narrazione padana e alla convergenza sul 45° parallelo.

Girato lungo l’arco di sette anni durante i tre lunghi soggiorni dello scrittore, con la sua troupe di professionisti-amici, nel villaggio senegalese di Diol Kadd. Poco distante in linea d’aria (qualche dozzina di chilometri) dalla moderna capitale di Dakar eppure già quel che basta per erigere un muro di rifrazione al tentativo di omologazione bianca sulla cultura tradizionale locale e al tentativo di impossessarsi dell’anima di un luogo per sostituirla con un manipolo di crimini e di scontrini.

Non è casuale l’utilizzo di un termine come anima, perché sembra che per tutto il documentario – il più lungo girato da Celati, un’ora e mezzo abbondante – l’autore non faccia che osservarla e parlarle.

Lo sguardo filmico del narrattore indugia sui corpi e sui volti degli e soprattutto delle abitanti del villaggio, seguendone le azioni quotidiane, cercando di coglierne, senza rubarle, le qualità intime in un dialogo costante con la macchina da presa, con lo spettatore, con sé, con la  troupe, con le narrattrici protagoniste.

Celati è a Diol Kaad ospite di Moussaka, un illuminato predicatore coranico/artista girovago, e dell’attore Mandiaye N’Diaye (1968-2014) che dal Teatro delle Albe ravennate torna con lui nel paese natale senegalese.

Il film si ricompone poi in un montaggio fragile ma con una struttura chiaramente rivolta verso un finale a partire dal lungo girato e dagli appunti che Celati ha preso durante i soggiorni e che diventeranno anche un libro, Passar la vita a Diol Kaad, Diari 2003-2006. Diol Kaad è probabilmente il film più positivo di Celati che mantiene il suo sguardo indolentemente estatico ma è forse caricato da una dose maggiore di meraviglia.

Bellissime le sequenze che partecipano agli spettacoli del villaggio: le danze erotiche e frenetiche delle donne (quando Celati si accorge che «volevano soprattutto ballare»), le teatralizzazioni di Moussaka, fino al rave che un dj di Dakar imbastisce grazie a un muro di casse acustiche degne di un club riminese ma di cui Celati impedisce di sentire il prodotto, sostituito invece da tamburi tradizionali e vociare. Scelte stilistiche.

Del resto le musiche di Celati sono estremamente pacate: moltissimo Bach e in Diol Kaad la musica è sempre tramite con l’anima, col divino, col sacro: anche le partiture vocali della mistica bassomedievale Ildegarda di Bingen, di cui occorrerebbe riprendere le parole, a chiusa di questo lungo excursus. Invece lasceremo spazio a un padano silenzio. 

Dove vivo ora, su 25 case circa, almeno 20 sono disabitate.

E a Diol Kaad Moussaka mette in scena lo spopolamento: i vecchi muoiono, i giovani emigrano. Cosa resta?“

Il mondo ci sembra avanzare verso qualche rovina e noi ci limitiamo a sperare che lavanzata sia lenta.”

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House of the Dragon | Appagare il nostro bisogno di draghi

House of the Dragon. HBO/2022 Home Box Office, Inc. All rights reserved. HBO® and all related programs are the property of Home Box Office, Inc.
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La sigla HBO su fondo nero provoca un brivido, è la stessa che ha anticipato ben 73 episodi di Game of Thrones e per quanto preceda tante altre serie la ricordiamo solo per quella creata da David Benioff e D. B. Weiss. Inizia con un breve assaggio dell’anno 101 lo spin-off House of the Dragon, precisamente quando dopo 6 decenni sul trono, il vecchio re, Jaehaerys Targaryen, si vede costretto ad optare per una scelta diversa dai suoi diretti discendenti e designare il sovrano successivo.

Un uomo e una donna sono le due scelte possibili: il cugino Viserys Targaryen, in procinto di diventare padre lui stesso, e la nipote, Rhaenys Targaryen. In questi pochi minuti la prima puntata di House of the Dragon setta la disposizione degli snodi fondamentali che si andranno a ripetere come leitmotiv frastornanti per le puntate successive. Ovvero che una donna non può salire sul trono di spade, proprio per questo i lord votano per l’ascesa di Viserys.

House of the Dragon. HBO/2022 Home Box Office, Inc. All rights reserved. HBO® and all related programs are the property of Home Box Office, Inc.

Ma la voce narrante è proprio quella di una donna, Rhaenyra Targaryen, la figlia di Viserys, che da adulta racconta come in un flashback il passato della famiglia dei draghi, lo dice apertamente, quell’uomo dall’aspetto gentile affiancato da una donna dai capelli d’argento è suo padre. Lei è una delle protagoniste di House of the Dragon e il suo punto di vista, a quanto pare, è l’occhio che scruta oltre il passato e il presente, per riportare i sanguinari e opachi eventi di una dinastia arrivata fino a Daenerys, un’altra donna che avremmo voluto vedere sul trono di spade.

Molti anni prima dell’arrivo dell’inverno (quell’inverno): il primo episodio

Uno stemma dorato nel buio, una storia avvenuta ben 172 anni prima della morte del Re Folle e della nascita di Daenerys, sua figlia. Siamo al nono anno di regno del re Viserys Targaryen. House of the Dragon è la saga familiare dei Targaryen, ad Approdo del Re sventolano bandiere rosse e nere e Rhaenyra è poco più di una bambina. Cavalca un drago e sua madre aspetta un altro bambino, ovviamente il re confida in un maschio.

In poco più di un’ora non abbiamo un quadro completo, come in Game of Thrones l’inizio è una presentazione incerta di quello che potrebbe sembrare un Beautiful medievale con un tantino di fantasy, ma se GOT ha smentito questa prima impressione, confido che House of the Dragon possa fare lo stesso. Sesso e violenza, codici distintivi della serie originale, sono anche qui: avrete le vostre mutilazioni e i vostri bordelli ve lo assicuro, ma con un pizzico di maturità in più, soprattutto nella scrittura che è asciutta e precisa.

La famiglia Targaryen e i personaggi principali

Oltre al re Viserys (Paddy Considine), alla regina Aemma (Sian Brooke) e alla loro Rhaenyra (Emma D’Arcy), il nucleo Targaryen richiede all’appello anche l’elemento inquieto della famiglia, ovvero il fratello più giovane del re, Daemon Targaryen (Matt Smith). Abile guerriero ed esperto nel cavalcare draghi, adorato dalla nipote ma detestato dalla maggior parte del consiglio del re.

Immediatamente il personaggio più controverso e interessante, Daemon consuma i suoi dispiaceri in silenzio mentre all’esterno mostra violenza efferata. A contrastarlo più di chiunque altro è il Primo Cavaliere del re, Ser Otto Hightower (Rhys Ifans).

House of the Dragon. HBO/2022 Home Box Office, Inc. All rights reserved. HBO® and all related programs are the property of Home Box Office, Inc.

Ovviamente senza dimenticare Rhaenys, denominata “Regina Che Non Fu Mai”, sposata con Lord Corlys Velaryon, che siede al Consiglio del re.

La storia si ripete

L’intero reame è in attesa del nuovo erede, dopotutto è il motivo per cui non abbiamo perso una puntata di GOT, quel bisogno di conoscere la risposta, come se Westeros fosse casa nostra e i giochi a cavallo il nostro passatempo. Ma se non fosse maschio? Avete già capito: la situazione di qualche anno prima si ripeterebbe. Solo che adesso i due discendenti sono zio e nipote.

SPOILER: Quel rapporto così tenero che rivela la vera vulnerabilità di Daemon verso la nipote Rhaenyra sarà il tesoro prezioso a rischio. Poiché l’erede sarà sì un maschio, ma morirà poco dopo la nascita, causando anche la morte della regina. Il re Viserys contribuirà a cambiare le cose? Assolutamente sì, la piccola verrà designata per il trono, in seguito all’ennesimo comportamento avventato di suo zio.

House of the Dragon inizia quindi appagando il nostro bisogno di draghi e ponendo una domanda a cui non c’è mai stata una risposta: sarà una principessa Targaryen a salire sul trono di spade?

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LASCIAMI TOCCARE LA MUSICA – Andare a un concerto senza vederlo

Concert Tickets by Rhys A.
Concert Tickets by Rhys A.

Non è retorica: per noi che abbiamo un deficit visivo, la musica ha un altro valore. Non nel senso che per un cieco o un ipovedente la musica sia più importante di quanto non lo sia per un normovedente (questa sì che sarebbe retorica), ma nel senso di un’importanza diversa. Soprattutto in un mondo come questo, dove la musica è sempre più legata a immagini e video che ormai, quasi sempre, ne mostrano il significato. O, almeno, il significato che si vuole evocare con quella musica. Perché un disabile della vista che ascolta una canzone, senza riuscire a vedere il suo video o le sue immagini, non perde qualcosa, ma trova qualcos’altro. Qualcosa di diverso, un significato diverso.

Sentire più che ascoltare

L’assenza di quelle immagini risveglia una forza che quello stesso suggerimento avrebbe assopito, la forza dell’immaginazione, capace di abbattere il senso comune e aprire altre immagini, spazi che per gli altri non esistono. È per questo che per la musica ciò che vale per tutta l’esistenza di un cieco o di un ipovedente: ed ecco che diverso vuol dire differente, originale, unico e sempre irripetibile. Una ricchezza rara, oltre la mancanza: per l’esistenza di un disabile della vista, questa coscienza vale per la musica, come può valere per ogni aspetto della sua vita.

Non so se sono il solo ad avere questa sensazione e se sia legata in qualche modo alla mia ipovedenza, ma a me la musica piace toccarla, sentirla oltre l’udito. Perché, in fondo, una canzone che scorre sul mio smartphone quando apro Spotify o YouTube, fugge via piatta, sostituita immediatamente da quella successiva, come entrasse da un orecchio ed uscisse dall’altro, senza lasciarmi nulla che sopravviva all’attimo in cui ha suonato.

Forse è per questo che continuo a comprare CD e ad aggiungere vinili all’enorme collezione ereditata da mio padre. Forse è per questo che continuo ad andare ai concerti. Perché, dopotutto, nonostante il palco abbia ormai una distanza incolmabile per i miei occhi, ai concerti la musica non è soltanto musica, ma un’esperienza di tutto il corpo, in cui gli occhi, davvero, servono a poco.

Così non importa se un concerto non costi meno di 80 euro e se tu sia distante un chilometro dal palco; non importa se per ottenere un biglietto per disabili ogni organizzatore abbia una politica differente, se alcuni non rispondano proprio e se chi risponde ti dia certezza di essere “eletto” solo poche ore prima dello spettacolo; non importa nemmeno se l’area accessibile sia pensata per i disabili in carrozzina con un visus di dieci decimi, data la distanza dal palco.

O forse invece importa, importa eccome. Perché ne risente l’esperienza di tutto il corpo, dei sensi, e quindi ne risente l’immaginazione: quella differenza all’improvviso non è più una ricchezza, ma diventa un peso, l’emozione si fa rabbia e cresce proporzionale all’idea di quanto poco sarebbe bastato perché quell’esperienza fosse stata indimenticabile.

A volte succede

Eppure a volte succede di vivere l’esperienza perfetta di un concerto. Ma succede quando meno te lo aspetti, quando ti hanno regalato il biglietto, per esempio, un biglietto qualunque, senza riduzioni particolari o biglietti gratuiti per accompagnatori, senza accessi ad aree disabili che, tanto, non distinguono tra una disabilità e l’altra. Un biglietto in mezzo alla folla, per ballare e saltare in mezzo a migliaia di persone, come non succedeva da tre anni, ormai, a un chilometro dal palco, ma con degli schermi alti e grandi che riprendono ogni gesto di chi suona, per tre ore consecutive.

Ecco dove la musica è veramente accessibile: era il 24 giugno di quest’anno, Autodromo di Imola, concerto dei Pearl Jam. Ve l’ho raccontato poco tempo fa, proprio su qui su FRAMED. Ma vi dirò di più: potevo chiudere gli occhi e smettere di guardare anche quel poco che riuscivo a vedere intorno a me, era lo stesso, tanto gli occhi non servivano più del resto del corpo. Era la musica, era lì e la stavo ascoltando, annusando, assaporando: la stavo toccando, come piace a me.

A volte succede solo in Italia

E suona strano che questa esperienza perfetta sia accaduta in Italia. Non in Olanda, per esempio, dove pure ho assistito in questa stessa estate a un concerto incredibile, quello dei Rammstein. Vi ho già raccontato anche questo (qui). Vi ho detto delle scenografie, delle luci, dei fuochi artificiali, dei fumi, dei razzi e degli incendi di questa band che ti travolge fisicamente, rapendo tutto il corpo, i sensi. Eppure, anche se li c’era molto di più di quanto non ci fosse in Italia, mancava qualcosa. Qualcosa che Imola e Roma invece avevano: il calore della gente, l’abbandonarsi dei corpi alle vibrazioni che li congiungono l’uno all’altro e, insieme, a ciò che li circonda, facendoli entrare dentro la musica, per toccarla ed esserne parte.

E forse è proprio questa la vera accessibilità in un concerto: non tanto i percorsi dedicati, gli spazi riservati, gli schermi immensi o la vicinanza al palco, ma l’atmosfera umana.

Perché ognuno è differente dall’altro, ma tutti ci assomigliamo: chi è disabile coglie meglio di chiunque altro le differenze, ma può anche capire meglio quanto siamo simili. Come disse un giorno uno che di musica qualcosa ci capiva: “Chiunque coltivi le proprie diversità con dignità e coraggio, attraversando i disagi dell’emarginazione con l’unico intento di assomigliare a se stesso, è già di per sé un vincente” (Fabrizio De André).

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Qui l’intervista ad Alessio Tommasoli a proposito del suo podcast UN IPOVEDENTE A ROMA.

HBO svela il teaser trailer di The last of us

The last of us

Nelle ultime ore HBO ha rilasciato il trailer di The last of us, per la quale era già stato confermato definitivamente il cast completo. La serie sarà composta da 10 episodi da circa un’ora ciascuno e avrà a disposizione un budget superiore a quello di Game of Thrones (più di 100 milioni di dollari).

Ambientata in un mondo post apocalittico invaso da zombie (ne parlavamo più approfonditamente qui), è scritta dallo stesso Neil Druckmann e dal creatore di Chernobyl, Craig Mazin.

The last of us: Ellie e Joel

Come già sapevamo, Joel Miller, il protagonista del primo capitolo con il compito di proteggere la giovane Ellie nella speranza di trovare una cura, avrà il volto di Pedro Pascal. Protagonista nei panni di Din Dajarin nella serie tv The Mandalorian ma noto anche per i ruoli in Narcos e Game of Thrones.

Mentre il ruolo di Ellie sarà ricoperto da Bella Ramsey, famosa per aver interpretato Lyanna Mormont anche lei nella nota serie HBO.

Tommy e Tess

Ad interpretare invece il ruolo di Tommy Miller, fratello di Joel, sarà Diego Luna. Vincitore nel 2001 del Premio Marcello Mastroianni alla 58ª a Venezia per Anche tua madre, ma noto al grande pubblico per le sue interpretazioni in Rogue One e la serie tv Narcos: Messico.

Nel ruolo della di Tess, amica di Joel e venditrice di armi nel mercato nero, che nel videogioco ricopriva un ruolo centrale soprattutto nelle prima parte, ritroveremo invece Anna Torv, già nel ruolo di Olivia Dunham in Fringe ma soprattutto di Wendy Carr in Mindhunter.

Bill e Marlene

Con O’Neill invece sarà invece Bill, amico di Joel e Tess che vive in una piccola cittadina a nord di Boston. L’attore è noto principalmente per aver interpretato Viktor Petrovič Brjuchanov, direttore della centrale elettrica nucleare nella serie Cernobyl.

Marlene, il capo del gruppo delle Luci che affida Ellie a Joel sarà invece affidato a Merle Dandridge, attrice che ha ricoperto ruoli in The Flight Attendant e Sons of Anarchy, e che nel videogioco aveva dato la voce allo stesso personaggio.

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